Carlo Conti (Ansa/Onorati)

Lo ammetto, su Sanremo ho sbagliato tutto. Lo davo per morto e invece ha fatto il pieno d’ascolti. Alla vigilia, avevo fatto quello che dovrebbe fare un critico: analisi, comparazioni, stato della musica in tv, cose del genere. Mi aveva confortato un articolo sul Foglio di Stefano Pistolini, che di queste cose capisce: «“X-Factor” oggi comanda, impone, orienta i gusti del pubblico. Al confronto il Festival di Sanremo è un cadavere».

«Cadavre exquis», forse, come piaceva ai surrealisti. A essere sinceri la costruzione del Festival l’avevo prevista giusta: una conduzione rassicurante, impiegatizia, retrò. Lo conosco Conti: prende per mano lo spettatore (anche se gli spazi sono angusti), ha il tono della guida turistica, svelenisce ogni eccesso con battute innocue. Nessuna trovata, nessun colpo di scena, nessuna idea guida, solo 50 e più sfumature di grigio (spesso tendenti al nero dato l’alto numero di necrologi) a smussare ogni sregolatezza. La «medietà» avrebbe dovuto prevalere sulla creazione dell’evento. E così è stato. Persino le «vallette» sono state scelte per deprimere lo show. Persino la reunion di Al Bano e Romina è stata copiata dalla tv russa, ma gli autori non sono stati capaci di far ripetere alla coppia la memorabile interpretazione di «Sharazan». Poi, è vero, Sanremo tira fuori il sociologo che alberga in noi e le spiegazioni ex post fioriscono come i fiori della Riviera (quel tanto che basta per salire sul carro del vincitore). Era un Festival contro i radical chic (ma si possono scrivere fesserie simili?) e, aggiungo io, Conti ha portato a termine la missione con la freddezza di un personaggio dei fratelli Coen. Era un Festival che parlava a tutto il Paese, come ha dichiarato il direttore Gianka Leone «e non a quella frazione che sta su Twitter o viaggia in Frecciarossa» (me lo vedo Leone sul treno dei pendolari, dove non c’è connessione per il suo smartphone!). Che Sanremo è sempre Sanremo. Che il contenuto (immagino le canzoni) è più importante del format. Che i comici che piacciono ai bambini (tipo Pintus) non necessariamente devono piacere ai grandi, ma sanno come fare audience. Che Sanremo è pur sempre un rito collettivo invernale, tranquillizzante proprio nella sua ripetitività, nella sua prevedibilità, nella sua assenza di emozioni forti.

È anche probabile che i dati d’ascolto siano direttamente proporzionali ai dati Istat sulla disoccupazione. Tasso, tasse, tosse. Eppure, lo ribadisco con forza, dal punto di vista dello spettacolo è stato un brutto, noioso Festival, salvo qualche gradevole eccezione. Brutto ma premiato dal pubblico in maniera sbalorditiva. Questo non l’avevo previsto: fare il pieno di audience con il vuoto di idee. Un colpo gobbo o l’involontaria virtù della noia? Aldo Grasso, Il Corriere della Sera, 15 febbraio 2015

………NULLA DA AGGIUNGERE. g.