Dal 22 febbraio 2014 il segretario del Partito democratico è anche presidente del Consiglio. Dallo stesso giorno il presidente del Consiglio è anche ministro per le Pari opportunità. Dal 30 gennaio 2015 il ministro per le Pari opportunità è anche ministro per gli Affari regionali. Dal 23 marzo 2015 il ministro per gli Affari regionali è anche ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Troppi poteri in un solo potentato? No, sono ancora troppo pochi. Perché questo vuole lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Un venticello che Matteo Renzi respira a pieni polmoni, e lo risputa fuori in norme, azioni, progetti di riforma. Incontrando l’applauso delle folle, anziché un’onda di sospetto. Lui l’ha capito, noi forse stentiamo un po’ ad accorgercene. Questa è l’epoca dell’unificazione.
Eppure basterebbe volgere lo sguardo al paesaggio che attraversiamo tutti i giorni. In quel quartiere c’erano tre o quattro botteghe alimentari, ora c’è un supermercato. O meglio c’era, perché i supermercati vengono divorati a loro volta dagli ipermercati. C’erano pure alcuni vecchi cinema, ma li ha sostituiti un multisala. Succede altrettanto nelle professioni, dove per esempio gli studi legali si sono trasformati in fabbriche, ciascuna con decine d’avvocati alla catena di montaggio.
Succede altresì nella cultura, nell’informazione, nella scuola. Messaggerie e Feltrinelli hanno costituito una joint venture che accorpa la distribuzio- ne di 70 milioni di volumi l’anno. Quanto alla loro produzione, l’offerta di Mondadori su Rcs Libri promette di controllare il 40% del mercato. Nel campo dell’educazione, una legge del 2011 ha stabilito l’accorpamento degli istituti scolastici; l’anno dopo la Consulta l’ha bocciata, ma solo perché questa decisione spetta alle Regioni. Mentre il disegno di legge sulla «Buona scuola» prevede la fusione dei due enti (Indire e Invalsi) che s’occupano di valutazione. Accadrà pure alla Rai, con l’accorpamento dei Tg. O forse è già accaduto: basta spingere sui tasti del telecomando per scoprire che tutti i talk show sono lo stesso talk show, con gli stessi ospiti, lo stesso fastidioso cicaleccio.
Sicché l’unificazione genera uniformità, e quest’ultima ci cuce addosso un’uniforme. Ormai la indossano, d’altronde, pure le nostre istituzioni. Il Senato ha appena deciso di ridurre le 105 prefetture alla metà. La Giunta toscana propone di concentrare le Asl in una megastruttura. Dalla Sicilia alla Liguria, s’avviano progetti di fusione delle Camere di commercio. I piccoli tribunali sono già stati soppressi da un decreto del 2012. La legge n. 56 del 2014 accorpa i piccoli comuni. Ma il loro corpo resta pur sempre esile, rispetto al gigantismo delle nuove città metropolitane. O delle macroregioni su cui s’esercita una commissione istituita dal governo: nascerebbero l’Alpina, il Triveneto, il Levante, e via giganteggiando.
Dopo di che su questo paesaggio erculeo vigilerà un ciclope con un occhio solo sulla fronte: il partito premiato dall’Italicum, che per l’appunto conferisce un premio in seggi alla lista, non alla coalizione.
Piccolo è bello, si diceva un tempo. Magari sbagliando, perché l’eccesso di chiese e campanili aveva disgregato la nostra identità comune. Anche l’eccesso di semplificazione, però, rischia di lasciarci prigionieri dentro un guscio vuoto. «Non si può unificare un Paese che conta 256 tipi di formaggi», recita un aforisma di De Gaulle. E il formaggio, una volta, piaceva pure a noi italiani. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 27 marzo 2015