Visitatori all’Expo (LaPresse)

Da infarto, ma è andata. E hanno buonissime ragioni, tutti i protagonisti del «prodigio», da Giuseppe Sala a Matteo Renzi a tutti gli altri, a ironizzare sui «rosiconi». Ovvero tutti quelli che avevano scommesso che l’obiettivo della «data catenaccio» sarebbe stato mancato. Qualche pannello è ancora fuori posto, qualche portone resta chiuso, qualche martello continua a battere di notte per gli ultimi ritocchi? Dettagli. È andata. Ma sarebbe un delitto se dai patemi d’animo di questi anni e dagli affannati formicolii notturni di queste settimane non traessimo una lezione: basta con le date catenaccio.

È bella, l’Expo 2015. Bellissimi alcuni padiglioni, dalle gole desertiche degli Emirati Arabi al «Vaso luna» della Corea, dall’alveare britannico alle suggestioni del bosco austriaco… Per non dire dell’Albero della vita e del padiglione Italia. Dove bastano le sale sospese tra il patrimonio d’arte del passato e la potenza espressiva delle nuove tecnologie a togliere il fiato non solo agli stranieri ma anche agli italiani. Una meraviglia.

Certo, sapevamo dall’inizio, come ha spiegato Marco Del Corona, di non poter competere sui numeri con il gigantismo di Shanghai 2010: 192 Paesi, 530 ettari occupati (cinque volte più che a Rho), 73 milioni di visitatori, 4,2 miliardi di euro di investimenti diretti più 45 in opere infrastrutturali tra cui due nuovi terminal aeroportuali di cui uno da 260 mila passeggeri al giorno e tre nuove linee metro, fino a portare la rete cittadina a 420 chilometri con 269 stazioni. Troppo, per noi.
Eppure, a dispetto di tutti gli errori, i ritardi e gli incubi di questi anni, la città è riuscita a dimostrare di essere in grado di recuperare, puntando su altri valori e su una maggiore coerenza, quello spirito che a lungo la fece vedere a milioni di italiani come la vedeva il nonno di Indro Montanelli: «Per lui, Milano era la cattedrale innalzata dall’ homo faber alla Tecnica e al Progresso». L’unica città italiana, avrebbe ribadito Guido Piovene, «in cui non si chiami cultura solo quella umanistica».

Proprio perché lo sforzo enorme speso nella rimonta ha avuto successo, successo peraltro da confermare giorno dopo giorno nei prossimi sei mesi, sarebbe sbagliato rimuovere oggi gli errori, i ritardi e gli incubi di cui dicevamo. Se era suicida «gufare» contro la riuscita d’un evento planetario dove non erano in ballo la faccia della Moratti o Berlusconi, di Prodi o Renzi, ma la faccia dell’Italia, non meno suicida sarebbe brindare oggi a questo debutto rimuovendo i problemi evidenziati dal 2007 ad oggi. La litigiosità degli amministratori intorno agli uomini da scegliere, più o meno vicini a questa o quella bottega. La paralisi di tre interminabili anni prima che la macchina organizzativa si mettesse davvero in moto. L’ombra di contaminazioni tra il mondo della cattiva imprenditoria e della cattiva politica. Le mazzette. La corruzione. «Mai più date catenaccio»: questo dovrebbe essere l’obiettivo di chi ha a cuore l’Italia dopo aver portato a casa l’incontestabile successo del 1° maggio, solo parzialmente sfregiato dagli incidenti dei teppisti black bloc.

Spiegava anni fa Gianni De Michelis, ai tempi in cui si batteva perché l’Expo 2000 fosse fatta a Venezia tra padiglioni galleggianti, giochi d’acqua e hovercraft dall’aspetto di tappeti volanti: «Primo: sappiamo che ci sono delle cose da fare per non essere tagliati fuori dai grandi processi d’integrazione. Secondo: sappiamo che questo è un Paese paralizzato dalla burocrazia, dai veti incrociati, dalla cultura del rinvio. Terzo: sappiamo che occorre uscire da questa paralisi. Dunque occorre una data-catenaccio che ci costringa a fare le cose nei tempi stabiliti». Uno dopo l’altro.
E ci è andata sempre «quasi» bene. I Mondiali del ‘90, sia pure spendendo per gli stadi l’83% e per le infrastrutture il 93% più del previsto e pur essendo da completare, a campionati finiti, il 39% delle opere. Le Colombiadi di Genova del ‘92, sia pure costruendo ad esempio un sottopasso più basso rispetto al progetto col risultato che non passavano i camion ed i pullman. E poi i Mondiali di ciclismo e i campionati planetari di nuoto e il Giubileo del 2000, atteso da secoli come un appuntamento scontato eppure segnato, ancora una volta, da anni di melina burocratica fino alla febbricitante rincorsa finale… Il tutto accompagnato quasi sempre da inchieste giudiziarie, accertamenti di lavori troppo frettolosi, scoperte di scandali, affari sporchi, processi, strutture costosissime abbandonate alle erbacce… Senza alcun progetto per il «dopo».

Perché questo, troppo spesso, è stato il meccanismo infernale delle «date catenaccio». La scelta, da parte della cattiva politica e della cattiva imprenditoria, di non muoversi mai per tempo. Come nei Paesi seri. Ma di «rassegnarsi» allo scorrere dei mesi e degli anni fino all’arrivo fatidico del gong: aiuto, emergenza! Nel nome della quale, Dio non voglia anche stavolta, è stato giustificato tutto. Fino all’assurdità: lo Stato che aggira le regole dello Stato perché incapace di cambiare le proprie leggi.

È giusto che un grande Paese si dia obiettivi ambiziosi. Compreso quello, ad esempio, delle Olimpiadi. Che potrebbero essere, andasse bene l’Expo, il nostro prossimo appuntamento con la ribalta mondiale. Ma per favore: basta rincorse all’ultimo momento e pezzi di cornicione provvisoriamente attaccati con lo scotch. La «#svolta buona» dovrebbe essere, per un Paese straordinario ma un po’ matto come il nostro, lavorare giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno… Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 3 maggio 2015