In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, i prescritti. Succede con le regole del gioco democratico. Talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo professori. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo.
Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: viene «sospeso di diritto». Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio «accerta» la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’ interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lorsignori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?
Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto «nei», Montecitorio ha scritto «dai». La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?
Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa.
Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica. Michele Ainis,Il Corriere della Sera, 10 giugno 2015