La chiusura dell’Expo (dopo il successo che sappiamo) e la contemporanea apertura del processo di Mafia Capitale (con tutti i retroscena che in gran parte invece ancora non sappiamo) hanno riproposto la dualità Milano-Roma: naturalmente tutto a vantaggio della prima. Anche se il modo in cui tale dualismo viene ancora oggi rubricato – «capitale morale» da un lato, «capitale politica» dall’altro: ed è ovvio da che parte sia il primato – è uno stereotipo che non spiega molto.

In realtà, quello tra Milano e Roma non è un dualismo tra due città. È il dualismo tra due pezzi della storia d’Italia, che lo Stato nazionale non è finora riuscito a rimettere insieme, e che forse mai riuscirà. Anche perché mentre Milano costituisce la parte di un insieme più vasto, Roma, al contrario,
è totalmente un caso a sé. E proprio in questa sua assoluta specificità sta tra l’altro l’origine dei suoi mali attuali: forse addirittura della loro irrimediabilità.

Roma non ha mai conosciuto la dimensione municipale di cui Milano è stata ed è, viceversa, un esempio tra i maggiori nella Penisola (che, come si sa, ne annovera numerosissimi altri, tutti concentrati nel Centro-Nord). Né è mai stata la capitale di un vero Stato regionale come Napoli o Torino, che proprio per questo, infatti, sono le uniche e vere rappresentanti storiche della tradizione statale italiana. Lo Stato pontificio d’altra parte è rimasto nei secoli un puro attributo patrimoniale della Santa Sede, sia pure con una significativa capacità d’innovazione. Capitale di nulla, Roma ha perciò visto da sempre la propria identità legata in modo indissolubile a una dimensione transnazionale, tendenzialmente mondiale. Il rapporto di Roma con la Chiesa è così profondo, consustanziale, infatti, proprio perché esso ripete quello con l’impero dei Cesari: la Città e il Mondo. Nella Chiesa Roma vede il solo referente rimasto di quella tensione all’universalità che sente intimamente sua.

Legata alla Santa Sede, e al tempo stesso luogo delle più celebri rovine d’Europa, Roma è rimasta nei secoli una sorta di città santuario, una meta di pellegrinaggi sia religiosi che laici. Priva di una vera identità civica (e quindi di un possibile patriottismo civico), il suo popolo, nella sostanza, è stato nei secoli una plebe di servitori, legata a una funzione di servizio per il turismo confessionale e culturale. All’altro estremo della scala, l’aristocrazia. Ma priva di una vera corte, tenuta lontana da veri compiti di governo, impossibilitata a servire in un vero esercito, essa è sempre rimasta particolaristica e feudale nell’animo, con frequenti tratti di rusticità che le venivano dal suo stretto rapporto con il contado. Che erano poi i medesimi tratti dominanti nella cerchia dei suoi amministratori, dei mercanti di campagna, degli alti dipendenti laici del Vaticano, il «generone». Chi voglia farsi di tutto questo un’idea più precisa non ha che da leggere i sonetti di Belli, il massimo testo di sociologia scritto sulla Città dei Papi. Nei quali non a caso, però, non compare mai una figura che possa dirsi quella di un vero borghese. La borghesia romana, infatti, l’hanno cominciata a formare dopo il 1870 gli impiegati piemontesi dello Stato italiano. Il Vaticano, dunque, e poi lo Stato: insomma la politica, il potere. È stata costituita da questi materiali la vera cultura civica, se così può dirsi, della Roma contemporanea. La quale, pur essendo sede della statualità italiana, non ha però mai avuto nulla in comune con quella cultura dello Stato che si esprime tipicamente nella legge e nell’idea di un ordine. Per Roma lo Stato è solo la politica e il potere, questi solo contano. Per il resto lo Stato le è totalmente estraneo: da qui la dimensione di a-legalità che le è propria e che, come si capisce, è solo a un passo dall’illegalità.

Ma a ben vedere non è la stessa estraneità – sia pure di origine e natura assai diverse – che verso lo Stato nutre Milano? Qui è innanzi tutto la cultura del fare, dell’intraprendere, del commercio, che scava un invalicabile fossato tra la propria innata praticità e l’astrattezza procedurale della macchina burocratico-statale, tra il suo quotidiano tirarsi su le maniche e l’apparente vuotaggine dell’attività politica, per tanta parte fatta necessariamente di parole. La «moralità» di cui Milano si vuole capitale, più che esibizione di una superiore onestà dei singoli (Dio sa quanto difficile da dimostrare), è innanzi tutto rivendicazione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del Paese desideroso di bruciare le tappe, insofferente delle procedure: chi vuole rappresentare l’operosità modernizzatrice, chi come un vero imprenditore desidera vedere tornare il conto dei propri voti in tempi brevi, chi la pensa come il luogo elettivo dove bisogna sfondare per conquistare l’Italia. Come Craxi trent’anni fa, come oggi Matteo Renzi: il quale infatti a Milano ci va di continuo, vi fa grandi progetti, le promette soldi in quantità, qui si spende per trovarle un sindaco. Mentre di Roma visibilmente gli interessa poco, preferendo lasciarla alle infami risse del Pd e al Papa con il suo Giubileo. Su Roma, in realtà, nella storia dell’Italia novecentesca, ha puntato solo Mussolini, che nelle sue allucinazioni di autodidatta romagnolo carducciano-nicciano vi vedeva il piedistallo di un ruolo suo e dell’Italia, proiettato non a caso sulla scena mondiale (l’Italia essendosela già presa con la famigerata «marcia»). Dopo Mussolini c’è stato solo Andreotti. Ma in questo caso non già perché egli avesse di mira il mondo, bensì perché per Andreotti ciò che veramente importava, alla fine, non era né l’Italia né altro: era solo il Vaticano.

Dunque il Municipio e l’Urbe-Mondo. Il fare senza lo Stato da un lato, e dall’altro la politica senza legge e senza ordine. Milano e Roma: questo dualismo tuttavia non fa una nazione. E infatti per molti aspetti il problema storico dell’Italia, così come alcuni problemi più concreti dell’oggi, vengono per l’appunto dalla difficile, forse impossibile, integrazione delle sue due più importanti città nella dimensione nazionale. Una dimensione che nello sfacelo attuale dell’Unione Europea, forse, però, non è molto saggio continuare anche idealmente a ignorare. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 novembre 2015