Dopo esserci occupati a lungo degli eletti, ora dovremmo pensare un po’ alla salute democratica degli elettori. E interrogarci sulle ragioni di una certa disaffezione al voto. La sensazione di irrilevanza non si traduce soltanto nell’astensione dalle urne, di qualsiasi tipo, ma anche nell’uso della scheda per sfogare disagio se non rabbia. Non per scegliere, ma per contrastare. Non a favore ma contro. Non è il caso di tornare su alcuni aspetti della riforma costituzionale che si avvia a essere completata con l’ultimo voto alla Camera e il referendum autunnale.
Il quadro istituzionale, con un Senato delle Regioni non più direttamente elettivo, si semplifica e diventa più efficiente, ma non si avvicina al cittadino, non lo rende protagonista. La distanza aumenta. L’Italicum darà stabilità ai governi — e ce n’era bisogno — ma con il premio di maggioranza, i capilista bloccati e le candidature plurime non si può dire che sia un caposaldo della democrazia rappresentativa, peraltro in crisi un po’ ovunque. Gustavo Zagrebelsky definisce le riforme del governo Renzi, con efficacia caustica, il «carapace, la corazza della tartaruga, del potere». Stefano Petrucciani nel suo libro (Democrazia, Einaudi) parla più in generale di una «regressione oligarchica» e intravede «uno spossessamento dei cittadini rispetto agli eletti, della base del partito rispetto ai leader, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto al premier». Forse, c’è un po’ di esagerazione. Ma, al di là delle posizioni che le parti avranno sul prossimo referendum, una discussione aperta sul disagio degli elettori appare opportuna.
Un rafforzamento del governo, nell’Italia dei troppi poteri contrapposti, dei veti e degli interessi corporativi, era ed è assolutamente necessario per attuare politiche di riforme a vantaggio di tutti. Ma se il cittadino matura la convinzione che il proprio voto serva a poco e la sua opinione sia indifferente, la conseguenza sarà solo un senso crescente di estraneità delle istituzioni. «Uno spostamento verso l’alto del centro delle decisioni», per usare le parole di Petrucciani, ancora più pronunciato nei confronti dell’Europa, che genera frustrazioni e alimenta sfiducia. Ovvero, riempie il bacino di coltura del populismo. La riforma Boschi prevede alcuni necessari contrappesi nelle norme sui referendum (più firme ma quorum abbassato) e sulle leggi di iniziativa popolare (più firme). Ma troppi sono stati i referendum il cui esito è rimasto lettera morta. Le leggi di iniziativa popolare poi sono sempre state ostacolate, soprattutto dai partiti. Non ne è passata mai una. Vedremo se, rianimandosi, questo strumento darà più voce ai cittadini.
La Rete è una straordinaria piazza democratica. Ma non è la risposta. Ridurre gli eletti a portavoce di movimenti erratici e indefiniti sul Web ha aspetti caricaturali. Si scambiano le posizioni di minoranze attive — e generalmente agli estremi — per quelle mediane dell’elettorato. In realtà, come dimostrano le consultazioni dei Cinquestelle, si tratta al massimo di poche migliaia di persone. Vedremo se le primarie per i candidati sindaci, a Roma, a Napoli e a Trieste coinvolgeranno porzioni significative di cittadinanza. Se sono vere (come a Milano) appassionano. Se sono finte contribuiscono solo a svalutare il voto e a irritare i partecipanti (i gazebo di Salvini a Roma).
L’affievolirsi di una democrazia rappresentativa accentua anche il fenomeno del trasformismo. I cambi di casacca nell’attuale legislatura sono già 342. Si allenta così, fino a spezzarsi del tutto, il legame con gli elettori. In un sistema a collegi uninominali, i transfughi potrebbero essere puniti con il cosiddetto recall, il richiamo, che da noi è improponibile. La semplice misura di impedire la costituzione di gruppi parlamentari quando le formazioni non siano state elette in precedenza, avrebbe quantomeno una funzione deterrente. Tralasciamo le considerazioni morali. Il trasformismo, con il populismo, è la malattia contemporanea. Il seggio lo si deve al capo che decide la lista, non ai votanti che vanno ai seggi. Aggrapparsi all’articolo 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo è ridicolo. Non si può dire che i Fregoli del Parlamento inseguano in questo modo l’interesse generale.
Discutere, senza pregiudiziali, di proposte dirette a irrobustire l’elettorato attivo non è una perdita di tempo. Il voto ai sedicenni appare a molti costituzionalisti un azzardo. Secondo Valerio Onida sarebbe necessario dibattere, senza venature ideologiche, l’opportunità di concedere il voto alle Amministrative agli immigrati regolari e stabili che già vanno ai gazebo delle primarie. Lo prevede una convenzione del Consiglio d’Europa in vigore dal ’97. Efficaci leggi sulla rappresentanza sindacale e sulla vita democratica interna dei partiti (articolo 49 della Costituzione, mai regolamentato) possono contribuire a dare senso e prospettiva all’impegno dei cittadini, avvicinandoli alle istituzioni. «È necessario — dice Carlo Galli (autore de Il disagio della democrazia, Einaudi) — che si colmi il fossato ormai aperto fra cittadini e istituzioni e tra cittadini e partiti».
La formula francese del débat public, prevista dalla nostra legge delega sugli appalti, consulta i cittadini prima delle decisioni di costruire grandi opere e li responsabilizza su utilità e costi. Un’idea che potrebbe essere estesa — nel giudizio della costituzionalista Ida Nicotra — ad altri processi legislativi. «Un modo per uscire dall’attuale deriva di una democrazia per contrasto e negazione». Pierre Rosanvallon (Le Bon Gouvernement, Seuil) sostiene che un governo, per dirsi democratico, debba accettare momenti di valutazione del suo operato anche diversi dal giorno delle urne. Le nuove tecnologie lo consentono. Ma occorrono cittadini informati, responsabili e convinti che la loro opinione conti davvero. Ferruccio de Bortoli, Il Corriere della Sera, 5 marzo 2016.