«Se un’ intera nazione sperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto al balzo»: lo scriveva Karl Marx in una lettera al filosofo Arnold Ruge, 173 anni fa. L’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica precede dunque di un po’ quelle parole tanto scomode dette da Piercamillo Davigo al nostro Aldo Cazzullo a proposito di certi politici: «Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi». E non è certo una prerogativa del pensiero marxista. La politologa della Columbia University Nadia Urbinati ricordava qualche anno fa su Repubblica come Giacomo Leopardi avesse anticipato il filosofo di Treviri nell’esaltazione del potere rivoluzionario della vergogna, sentimento a cui lo stesso Giambattista Vico aveva attribuito le origini della responsabilità morale della società. Ma forse nessuno come Papa Francesco, e ben prima di Davigo, si era scagliato contro «i corrotti», bollati dal pontefice come coloro «che non hanno vergogna». Accadeva tre anni fa, durante una funzione nella cappella di Santa Marta. E perché il messaggio risuonasse forte e chiaro, ancor più di quanto non avesse già fatto nel 2011 il cardinale Gianfranco Ravasi citando la famosa la battuta dell’Amleto di William Shakespeare («Vergogna, dov’è il tuo rossore?»), quel concetto l’aveva ripetuto in un libro, Il nome di Dio è Misericordia, scritto con Andrea Tornielli: «Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna». Già, la vergogna.

Sulle ragioni per cui quel sentimento sia stato smarrito, si potrebbe dissertare a lungo. Di sicuro c’è stato anche un tempo in cui le cose erano diverse. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise nel 1978 in seguito alla vicenda Loockheed, pur essendone totalmente estraneo. «Le siamo grati per l’esempio», gli scrissero anni dopo in una lettera di scuse i suoi accusatori Marco Pannella ed Emma Bonino. Nel 1993, durante Tangentopoli, i ministri si alzavano dalla poltrona all’apparire dell’avviso di garanzia. Qualcuno anche soltanto all’odore. Lo fecero due ministri delle Finanze, poi riconosciuti immacolati, come Giovanni Goria prima e Franco Reviglio un mese dopo di lui. Il repubblicano Oscar Mammì si dimise addirittura da deputato. Il suo giornale, la Voce repubblicana, scrisse qualche giorno dopo: «Non siamo ipocriti e in queste ore misuriamo sulla nostra pelle la sferzata di vergogna». Frasi che oggi sarebbe impossibile leggere…

Antonio Merlo della Pennsylvania university ha appioppato cinque anni fa il termine «mediocracy» alla nostra classe politica, qualificandola come «la più mediocre che l’Italia abbia avuto dal 1948«. Ed è francamente difficile non vedere una relazione fra questo degrado, la diffusione del malaffare e il progressivo impoverimento di quel senso di vergogna che in tutte le società avanzate rappresenta un formidabile deterrente contro la corruzione. Ma anche contro comportamenti non etici, sintetizzati così da Davigo: «Dicono cose tipo: “con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro, sono dei contribuenti».

In Germania il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, astro nascente della Cdu, si dimise dopo la scoperta che aveva copiato parte della sua tesi di dottorato, perché «lo scandalo sarebbe ricaduto su tutti i militari». Il ministro inglese dell’Energia Chris Huhne se ne andò «per evitare interferenze con l’incarico pubblico» perché un giornale rivelò che aveva addossato alla moglie una multa per cui avrebbe perso punti della patente. In Gran Bretagna il portavoce del parlamento Michael Martin lasciò l’incarico quando scoppiò la bufera delle note spese gonfiate, pur non avendo responsabilità personali. Non l’ha imitato il presidente di quel consiglio regionale del Lazio travolto dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi consiliari, Mario Abbruzzese: nonostante fosse a capo dell’ufficio che distribuiva i quattrini ai partiti. Si è anzi ricandidato ed è stato rieletto. Ora è presidente di una commissione regionale.

Il presidente tedesco Christian Wulff gettò la spugna quando si seppe che aveva avuto da un amico banchiere un prestito a tassi di favore. Le sue parole: «Ho fatto degli errori. C’è bisogno di un presidente che abbia fiducia ampia dei cittadini. Gli sviluppi di questa settimana hanno dimostrato che questa non c’è più». Succedeva all’inizio del 2012, mentre da noi lo scandalo dei rimborsi elettorali usati impropriamente anche per scopi personali della famiglia del leader si abbatteva sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Che liquidava la faccenda con un’alzata di spalle: «Non c’è reato. Dei soldi della Lega, la Lega può fare quello che vuole». Seguì un durissimo scontro interno al partito e Bossi si dovette fare da parte. Un mese fa suo figlio Riccardo è stato condannato in primo grado a un anno e otto mesi per appropriazione indebita aggravata. «Pensava fossero soldi di famiglia», ha detto l’avvocato ai giudici. Un pizzico di vergogna forse l’avrebbe evitato. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 24 aprile 2016