La personalizzazione controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di domenica.
Invece non basta, credo. In quel risultato c’è qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell’ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso
Lo dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine politologicamente più nobile.
Eppure Matteo Renzi non è mai stato il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra — uniti in un lodevole afflato di impegno antifascista — si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l’impulso dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori dell’amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire, semplificare. Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché l’ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell’immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.
1) Il profluvio dell’ottimismo, degli annunci sull’uscita dal tunnel, del «ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l’abbiamo fatta». Ai tanti italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud — verso il cui declino storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero — l’effetto è stato catastrofico.
2) A una conferenza stampa o a una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all’uditorio attraverso le slide: a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed «eloquente»: starei per dire in modo «serio». La sola cifra di serietà del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio l’ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica.
3) La mancanza di posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale — almeno a mio giudizio con più di un fondamento — è largamente diffuso un sentimento opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia. Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un’espressione di censura verso i dirigenti dell’inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell’industria e della finanza.
4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel termine «bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti alle slot machine) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l’elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine del «beneficato». È facile immaginare la popolarità derivatane al «benefattore».
5) Il tratto marcato di «consorteria toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione «chiusa», non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai). Il Corriere della Srra, 6 dicembre 2016, Ernesto Galli della Loggia