16 marzo 1978: QUELLE CINQUE VITTIME DIMENTICATE
Pubblicato il 16 marzo, 2018 in Il territorio | Nessun commento »
Quarant’anni dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro si torna pure a discutere sulla tragica scelta tra salvarlo, cedendo ai rapitori, oppure difendere la legge e lo Stato, ossia l’intera comunità civile, sacrificando la vita di un uomo, lasciandolo morire per mano dei suoi criminali carcerieri. Salvare ad ogni costo una vita umana — cosa cui del resto, in generale, non si bada sempre molto, non solo in guerra, ma anche sul posto di lavoro — o difendere con fermezza la legalità, difesa anch’essa talora trascurata o esercitata chiudendo un occhio.
C’è un elemento rivoltante che colpisce in questa certo drammatica scelta tra fermezza e pietà, legge generale garante di ogni convivenza e caso individuale, anche al di là delle oscure manovre politiche celate dietro quell’incertezza. I carcerieri di Moro non erano, in quel momento, soltanto i suoi rapitori, con i quali eventualmente trattare. Erano già anche gli assassini dei cinque agenti della sua scorta, ammazzati come cani e subito dimenticati quasi non fossero esseri umani. Moro era certo politicamente e socialmente più «importante», così come pure tra le vittime dell’Isis e anche di Auschwitz ci sono personalità più e meno pubblicamente «importanti», ma non perciò il loro assassinio può essere preso sottogamba. Questo oblio, inconsciamente insensibile e indifferente al valore di ogni vita umana, è ripugnante.
Quarant’anni dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro si torna pure a discutere sulla tragica scelta tra salvarlo, cedendo ai rapitori, oppure difendere la legge e lo Stato, ossia l’intera comunità civile, sacrificando la vita di un uomo, lasciandolo morire per mano dei suoi criminali carcerieri. Salvare ad ogni costo una vita umana — cosa cui del resto, in generale, non si bada sempre molto, non solo in guerra, ma anche sul posto di lavoro — o difendere con fermezza la legalità, difesa anch’essa talora trascurata o esercitata chiudendo un occhio.
C’è un elemento rivoltante che colpisce in questa certo drammatica scelta tra fermezza e pietà, legge generale garante di ogni convivenza e caso individuale, anche al di là delle oscure manovre politiche celate dietro quell’incertezza. I carcerieri di Moro non erano, in quel momento, soltanto i suoi rapitori, con i quali eventualmente trattare. Erano già anche gli assassini dei cinque agenti della sua scorta, ammazzati come cani e subito dimenticati quasi non fossero esseri umani. Moro era certo politicamente e socialmente più «importante», così come pure tra le vittime dell’Isis e anche di Auschwitz ci sono personalità più e meno pubblicamente «importanti», ma non perciò il loro assassinio può essere preso sottogamba. Questo oblio, inconsciamente insensibile e indifferente al valore di ogni vita umana, è ripugnante.
Trattare con i terroristi significava cancellare l’assassinio di cinque persone, quasi non fosse avvenuto o fosse irrilevante. Nemmeno nelle lettere di Moro si fa menzione di loro, morti per difenderlo, ma ovviamente erano i carcerieri a decidere cosa potesse e dovesse venir detto o no in quelle lettere. Proprio per questo esse non potevano e non dovevano essere prese in considerazione, così come un matrimonio non è valido se il sì viene pronunciato con una pistola puntata alla schiena. Non a caso in quei giorni Sandro Pertini dichiarò che, se eventualmente egli fosse stato rapito, da quel momento qualsiasi sua parola detta o scritta avrebbe dovuto essere ignorata e cestinata.
Persone diverse, tempre diverse. Anche diversi sentimenti di umanità. I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po’ più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe.
Qualche tempo dopo l’assassinio di Moro, una sua strettissima congiunta inviò, a Natale, dei panettoni ai suoi uccisori. Le chiesi pubblicamente, sul Corriere, se si era ricordata di mandarne pure alle vedove dei poliziotti assassinati, anche considerando che, per chi vive con la pensione vedovile di un agente di pubblica sicurezza, un panettone, oltre ad essere un segno di affetto, può essere anche un piccolo aiuto per il pranzo di Natale. Non ci aveva pensato. Claudio Magris, Il Corriere della Sera 16 marzo 2016
…….Scommetto che lo strettissimo parente di Moro che mandò ai brigatisti il panettone fu Maria Fida.