I suoi colleghi, leader di altri Paesi della Nato, ridono di lui come i ragazzi più scaltri della classe che prendono in giro il secchione, magari dopo aver copiato il suo compito di matematica. Intanto dalla Corea il dittatore Kim Jong-un, di nuovo degradato da Donald Trump a rocket man, gli dà del vecchio rimbambito, usando un vocabolo arcaico e sofisticato, dotard, del quale pochi, in America, conoscono il significato. E, tornato a Washington dal vertice di Londra, il presidente precipita di nuovo nell’incubo dell’impeachment che cercherà di esorcizzare montando un ring da pugilato in mezzo all’aula del Senato trasformata in tribunale. La speaker della Camera Nancy Pelosi, che Trump vorrebbe come teste al processo insieme ad altri leader democratici «per dimostrare la corruzione della palude che io sto cercando di bonificare», ne è consapevole e, per tenere la questione istituzionale della messa in stato d’accusa per l’«affare Ucraina» separata dalla battaglia politica per la rielezione, è arrivata a replicare a un giornalista che l’accusava di odiare Trump: «Non odio nessuno e prego per lui». La Casa Bianca è sotto assedio, ma il leader non l’abbandonerà in elicottero come fece Nixon ai tempi del Watergate. Tenterà, invece, di avvolgere il processo nella polvere di un’enorme zuffa politica: per depotenziarlo, per garantirsi la fedeltà dei senatori repubblicani, la giuria, ma anche per galvanizzare i suoi fan.

La democrazia americana vive il suo momento più drammatico. Gran parte dell’opinione pubblica, compresi molti elettori del presidente e molti parlamentari del suo partito, sanno che gli argomenti giuridici del Kievgate non sono meno solidi di quelli del Watergate che costò la presidenza a un altro repubblicano. La smoking gun, la prova madre costituita negli anni Settanta dai nastri dei colloqui di Nixon nello Studio Ovale, stavolta l’ha fornita lo stesso Trump pubblicando, contro il parere di consiglieri e avvocati, i contenuti della telefonata col presidente ucraino Zelensky.
Ma i tempi sono cambiati: anni di radicalizzazione dello scontro politico e l’ulteriore imbarbarimento poi prodotto dall’effetto Trump, hanno eroso le istituzioni democratiche, il bilanciamento costituzionale dei poteri e la stessa sensibilità dei cittadini per una considerazione oggettiva dei fatti. Basta vedere quanto è elevato il numero di americani che giudicano il processo di gennaio irrilevante rispetto al giudizio – favorevole o contrario a Trump – che hanno già maturato. Certo, anche se è deciso a battersi fino in fondo mettendo in giro fotomontaggi che lo ritraggono come un campione mondiale di boxe e se i capi della sua campagna stanno addirittura cercando di trasformare l’impeachment nel turbocompressore della sua macchina elettorale, Trump è oggi un leader che si sente umiliato, oltre che assediato. Nei suoi sogni voleva regnare su un mondo sottomesso. Voleva essere il leader rispettato e temuto di un’America capace di far valere la sua forza.
Le cose non sono andate come desiderava e di certo non voleva passare alla storia per l’impeachment. Ma lui è anche un combattente, spregiudicato e pragmatico: quando ha capito che non poteva evitare quella deriva ha deciso di cavalcarla. Usando, in un assedio che comunque lo mette in grave difficoltà, tre armi: un linguaggio di brutale diffuso con strumenti molto efficaci; il fattore paura col quale mantiene il controllo dei parlamentari repubblicani; i numeri dei risultati economici e della forza commerciale degli Stati Uniti che usa a piene mani per minacciare e per vantare successi. Trudeau lo prende in giro? E’ arrabbiato perché Trump vuole che il Canada spenda almeno il 2 per cento del Pil per la difesa. Macron lo contesta? Abbasserà le penne quando dovrà pagare un dazio del 100 per cento sull’export francese di beni di lusso verso gli Usa. E poi l’economia che cresce, la Borsa che va ancora bene, l’impennata dei posti di lavoro a novembre, la disoccupazione ai minimi da 50 anni (3,5 per cento). Numeri con un valore relativo, come sappiamo, visto che non tengono conto dei tanti esclusi strutturali dal mercato del lavoro come gli ex detenuti o chi, semplicemente, smette di cercare non riuscendo a trovare nulla. Ma si prestano a un efficace uso politico.
In America un’economia che cresce è da sempre una polizza assicurativa per la rielezione. E il fronte democratico per ora non esprime un candidato forte. Inoltre i numeri che Trump scaglia contro la Cina e i Paesi europei minacciati (Italia compresa) di nuovi dazi, indeboliscono l’Occidente e rendono il mondo sempre più ingovernabile, ma pagano in termini di voti: anche se i nuovi balzelli stanno danneggiando anche gli Usa, la maggioranza degli americani è convinta che la Cina vada in qualche modo frenata e che l’Europa si sia approfittata troppo della generosità di Washington. Trump assediato, furioso, ma alla fine assolto e rieletto: è ancora lo scenario più probabile, anche se una riscossa democratica è sempre possibile. Così come non si può escludere del tutto una rivolta improvvisa dei senatori repubblicani che oggi giurano fedeltà, ma di certo non amano un presidente che ha spazzato via lo storico Dna del Grand Old Party, imponendo il suo. Improbabile: dopo, nei loro collegi, dovrebbero affrontare la furia dei seguaci di Trump. Massimo GAGGI, Il Corriere della Sera, 7 dicembre 2019