Quanto accaduto ieri nell’aula del Senato dimostra ancora una volta come le vicende giudiziarie siano ormai per ministri e parlamentari uno strumento di lotta politica che nulla ha a che fare con l’accertamento dei fatti e della verità. Ma soprattutto con la verifica di quanto previsto dalla legge e cioè se «il ministro inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». E così anche il caso della nave Gregoretti — rimasta in mare per una settimana con a bordo 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo — è stato affrontato da tutte le forze politiche senza mai analizzare in maniera approfondita la sequenza dei fatti; le diverse posizioni dei magistrati che se ne sono occupati, visto che la Procura di Catania aveva sollecitato l’archiviazione dell’inchiesta; le ragioni dell’accusa e quelle delle difesa. Tanto che persino l’imputato Matteo Salvini ha dovuto precisare nell’intervento a palazzo Madama, di non poter seguire i suggerimenti del suo avvocato Giulia Bongiorno che nei giorni lo aveva esortato a «tenere conto dei rischi del processo». E ha continuato a sfidare avversari politici e giudici.
Nel corso dell’ultimo mese, peraltro segnato dalla campagna elettorale in Emilia-Romagna e Calabria, alcuni cambi di linea sono apparsi imbarazzanti. Quando Salvini fu indagato per sequestro di persona per aver bloccato l’ingresso in un porto sicuro della nave Diciotti i ministri del governo gialloverde in carica all’epoca, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, ma anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, decisero addirittura di autodenunciarsi pur di dimostrare la condivisione di ogni mossa, l’unità della squadra. Con il cambio di maggioranza e l’alleanza con il Pd — governo giallorosso — i 5 Stelle sono arrivati ad accusare Salvini di «aver agito da solo» per la Gregoretti, votando sì all’autorizzazione a procedere. E questo nonostante le dichiarazioni pubbliche del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, mentre la nave era bloccata in mare, disse: «C’è un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell’Interno e della Difesa, la posizione del governo è sempre la stessa: vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevamo scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l’Europa».
Il 20 gennaio scorso, una settimana prima delle Regionali, Salvini esortò i parlamentari leghisti componenti della Giunta a concedere il via libera al processo. «Penso di essere il primo politico al mondo che chiede di essere processato», dichiarò pensando probabilmente più alle urne che al dibattito parlamentare. Prova ne sia che ieri — passate le Regionali — ha cambiato idea e i senatori del Carroccio hanno abbandonato l’aula. Esattamente come avevano fatto gli esponenti del Pd in Giunta — scelta che sarebbe stato opportuno evitare se davvero si vogliono contestare in ogni sede le scelte del leader leghista in materia di migranti — e per questo Salvini li aveva definiti «vigliacchi».
Tra qualche settimana ci sarà un’altra occasione: per Salvini è scattata un’accusa analoga, questa volta relativa alla gestione della nave Open Arms, e il Senato dovrà nuovamente pronunciarsi. Chissà che lo spettacolo offerto ieri non convinca tutti ad abbandonare la propaganda, concentrandosi sull’esame delle carte processuali. E così dimostrando ai cittadini che il Parlamento è il luogo dove si analizza quel che accade nel Paese e si prendono decisioni in loro nome e non propri tornaconti. Perché se davvero si crede — come sostengono molti parlamentari e leader di partito — che i magistrati usino le inchieste a fini politici, dovrebbe essere proprio la politica a dover rispondere in maniera coerente e adeguata. Lasciando perdere le convenienze momentanee e gli interessi di bottega.
Fiorella Sarzanini, Il Corriere della Sera, 13 febbraio 2020