Coronavirus, i cento giorni che ci hanno cambiato la vita (e ci hanno reso più digitali e impauriti)

Cento giorni del Covid hanno cambiato gli italiani. Ma non tutti. Ci hanno reso diversi. Ma più diseguali. Migliori e peggiori, allo stesso tempo. Quasi tre Italie in una. Nel lungo lockdown cominciato cento giorni fa ci sono stati quelli «che hanno continuato a vivere nella povertà, che hanno tenuto i bambini in 40 metri quadrati, che erano abituati ad andare a fare la spesa dove le cose costavano meno», oggetto della commozione in tv del virologo dal volto umano, Giuseppe Ippolito dello Spallanzani. Insieme a loro — aggiungiamo noi — quelli che hanno dovuto uscire di casa ogni mattina perché fanno gli infermieri, i medici, gli addetti alle pulizie, i poliziotti, i rider, i postini, i benzinai, gli spazzini. Gente che ha tenuto in piedi l’Italia, e chissà quanto ci metteremo a dimenticarci il debito di riconoscenza che abbiamo nei loro confronti.

Poi c’è stata l’Italia di mezzo: quelli che hanno potuto restare a casa ma hanno perso il reddito, la gente che ha un negozio, un ristorante, un bar, un albergo, uno studio di avvocato o un salone di bellezza, o che non ce l’hanno ma ci lavorano. Mesi di risparmi bruciati e tanta paura per ciò che verrà. Per loro il peggio comincia ora.

E infine ci sono quelli che se la sono cavata: i «colletti bianchi» che hanno conservato posto e stipendio, hanno il Wi-fi e Netflix, fanno lo smart working e il bike sharing. A casa hanno riscoperto gli affetti, la lentezza, la gastronomia, i figli, l’amore coniugale. E quasi quasi ci sarebbero restati ancora un po’. Gli inglesi distinguevano, in mezzo alla tragedia dell’ultimo conflitto, coloro che avevano avuto una «good war». Stavolta, per fortuna, non sono pochi.

Queste tre Italie, rese anche più diverse di prima dalla pandemia, vanno ora riunificate. Altrimenti rabbia e risentimento le metteranno l’una contro l’altra, e tutte e tre contro il Palazzo. Non sarà un pranzo di gala, né un buffet a Villa Pamphilj. Bisognerà forse partire da ciò che ci ha invece unito.

Abbiamo visto il lato oscuro della Natura, la morte in faccia, un virus senza cure e vaccini. La nostra presunzione di invulnerabilità, l’idea che ormai si possa morire solo per un fallimento della medicina, ne è uscita a pezzi. Ora sappiamo, e vogliamo essere curati meglio, chiediamo ospedali e ambulatori più efficienti, con più dottori e meno politica. Diteci quanto costa e non badate a spese.

Sappiamo stare in fila. Mai visto niente del genere. Non è chiaro perché servizi essenziali come banche, poste e uffici pubblici funzionino ancora con il razionamento, ma lo accettiamo e stiamo in fila. È un patrimonio su cui costruire. Il rispetto delle regole è stato sorprendente per un popolo di solito così individualista. Vuol dire che c’è un capitale di responsabilità, di senso del dovere, consapevolezza che la libertà di ciascuno deve coesistere con quella di tutti gli altri.

Non che abbiamo imparato chissà che, né che la banda sia diventata così larga. Ma abbiamo capito qualcosa da cui difficilmente torneremo indietro: si possono fare tante cose, perfino una visita medica, senza spostarsi fisicamente. Senza prendere la macchina, salire su un aereo, viaggiare per ore, aspettare un bus, arrivare in ritardo. È una cosa buona. Ci saranno grandi risparmi per le aziende, meno pressione sull’ambiente e più flessibilità per tutti, per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Siano perfino diventati più puntuali: le conference call, chissà perché, cominciano precise, senza il quarto d’ora accademico. Ma è anche una cosa pericolosa. Può trasformarsi in pigrizia, assenteismo, illusione di una vita in infradito. Soprattutto non può sostituire il lavoro in presenza lì dove è indispensabile: la scuola, l’università, i servizi agli anziani, dai quali non si può pretendere un collegamento su Zoom.

Otto milioni di italiani hanno perso un anno di scuola o giù di lì, per quanto encomiabili siano stati gli sforzi di didattica a distanza. C’è chi ha perso di meno e chi di più, perché la «DAD» ha funzionato solo nelle famiglie con un buon livello di istruzione, molti device e un ottimo collegamento in rete. Dunque ha eroso il sistema educativo nazionale e la sua funzione di coesione sociale. Guai a perdere pure l’appuntamento di settembre.

Le bandiere italiane sono comparse numerose ai balconi delle case, manco fossimo ai Mondiali: un modo di tenersi su, «stringiamoci a coorte». Grandi folle si sono radunate per guardare le Frecce Tricolori. Ampi consensi hanno sostenuto la difficile azione del governo. Ma attenzione: gli italiani che hanno investito nel tricolore saranno anche i primi a sentirsene traditi, se ne avranno motivo. Non ce lo possiamo permettere.

(Ps: cento giorni dopo, questo è anche il mio ultimo «Taccuino dal virus». È ora di raccontare il dopo.) Antonio POLITO, Il Corriere della Sera, 15 giugno 2020