Pechino, marzo 1988. Giulio Andreotti annota: «Al ricevimento all’Ambasciata d’Italia il vescovo di Pechino mi dice: “Se ha modo di riferire al Papa personalmente lo faccia; è maturo il tempo per un contatto con il governo, che preluda ad un’intesa e poi ad un Concordato. Si tratti riservatamente…”». L’alto prelato è un esponente della «Chiesa patriottica», legata al regime comunista e non riconosciuta dalla Santa Sede. Ma il messaggio consegnato all’allora ministro degli Esteri italiano non è caduto nel vuoto. Trent’anni dopo, nel settembre del 2018, Vaticano e Cina hanno stretto un accordo storico quanto misterioso, perché i contenuti sono rimasti sconosciuti, che sarà rinnovato nelle prossime settimane su uno sfondo di grandi tensioni. Difficile non scorgere in quell’episodio del 1988 uno dei semi con i quali è stata nutrita nell’ombra la mediazione finale tra Papa Francesco e il presidente Xi Jinping; e sottovalutare gli appunti privati di Andreotti: un lungo filo di episodi «minori» che evocano una ragnatela di rapporti a ogni livello, di impressioni, di dinamiche che riemergono come preziose pietre grezze della storia.
Coglie nel segno lo storico Andrea Riccardi quando nell’introduzione sottolinea che I diari segreti testimoniano soprattutto il «segreto» dell’azione politica di Andreotti: «Un’immensa tessitura di relazioni nella politica italiana, a Roma, e sullo scenario internazionale…», col secondo largamente prevalente. E pensare che non erano destinati alla pubblicazione. Dopo la sua morte nel 2013, i quattro figli li avevano stipati in uno sgabuzzino dell’appartamento in corso Vittorio Emanuele. I due che si dedicano a riordinare gli archivi, Stefano e Serena, per mesi non li hanno neanche aperti. A muovere la loro curiosità è stata la piscina di Castelgandolfo nella quale Giovanni Paolo II fu fotografato nel 1980. Il Vaticano chiese ad Andreotti se poteva bloccare la pubblicazione di istantanee, considerate «scandalose», di un papa in costume da bagno. E Umberto Ortolani, esponente della Loggia P2 di Licio Gelli, anni dopo attribuì il merito della mediazione al capo massone implicato in alcune delle trame italiane più sporche: avrebbe portato lui le foto a Andreotti, che le aveva consegnate al pontefice.
«Tirammo fuori, per nostra curiosità — raccontano Stefano e Serena Andreotti nella Nota dei curatori all’inizio del volume — quanto vi era scritto sulla vicenda delle fotografie scattate a Giovanni Paolo II nella piscina di Castelgandolfo, per la quale era stata data, sulla base di testimonianze di allora, probabilmente interessate, una ricostruzione ben diversa dall’andamento dei fatti e dell’apporto di nostro padre». I diari segreti raccontano in dettaglio quel capitolo oscuro, confermando Andreotti come crocevia delle mediazioni più riservate e controverse del Vaticano. Tra le carte spunta perfino un appunto sui voti ricevuti da ogni cardinale nel Conclave del 1978 che aveva eletto Karol Wojtyla. Viene restituita la complessità di un politico capace di attraversare con lo stesso passo felpato corti pontificie, congressi democristiani, cancellerie occidentali, dittature di ogni latitudine e ambienti torbidi.
Episodi del genere se ne incrociano a decine, nel volume in uscita domani per Solferino, e che copre il decennio dall’agosto del 1979, quando finì il quinto governo Andreotti, quello col Pci nella maggioranza, fino al 22 luglio del 1989, esordio del suo sesto esecutivo. È solo un frammento, per quanto corposo, della sterminata ragnatela andreottiana. L’abitudine a prendere appunti cominciò nel 1944, «su consiglio di Leo Longanesi», ricordano i curatori. «Il motivo principale era quello di potere, a distanza anche di notevole tempo, rileggere gli appunti registrati a caldo, che considerava utilissimi al di là dei documenti ufficiali…». I diari, in gran parte tuttora inediti, finiscono nel 2009. Ma non bisogna pensare a un materiale ordinato, perché riflettono un caos metodico. Oltre a una calligrafia minuta e sempre più illeggibile con l’età, Andreotti aggiungeva note a mano, inseriva lettere e documenti. Insomma, decifrare quegli scritti è stata una grossa fatica, per i figli.
Ogni anno i fogli finivano in un raccoglitore con la dicitura «diario». E in una delle lettere post mortem ritrovate in un cassetto di casa Andreotti, l’ex premier dava istruzioni per evitare che la pubblicazione de I diari potesse nuocere a qualcuno. Colpisce la conferma di un rapporto con la moglie Livia profondo, complice, viene da dire affettuoso, aggettivo che pure si attaglia poco a un «animale» a sangue freddo come Andreotti. E diventa ancora più stupefacente la sua capacità di proteggere la sfera familiare da qualunque intrusione. Ogni riga si sviluppa sempre sul crinale di una scrittura controllata, minimalista, scevra da qualsiasi enfasi. Ci sono solo fatti, impressioni, brevi commenti venati al massimo da una punta di ironia. «L’uso dell’archivio in politica — osserva Riccardi — ricorda il metodo di lavoro della Curia o della Segreteria di Stato vaticana».
I diari si rivelano strumenti di un professionista della memoria scritta, al servizio di quell’attività di governo e di potere che Andreotti non ha mai interrotto. Da ministro, da premier, da semplice parlamentare, è stato una sorta di ambasciatore permanente dell’Italia e della Santa Sede: alla frontiera tra Occidente e comunismo, e nel Terzo Mondo. Ma era ascoltato, e usato, perché manteneva sempre un ancoraggio indiscusso alle alleanze europee e atlantiche. Almeno fino a quando c’è stata la Guerra fredda, quell’aderenza è stata una bussola precisa per guidare il protagonismo segreto e spregiudicato di Andreotti. Poi le coordinate sono cambiate. I diari del decennio 1979-1989 si fermano proprio alla soglia di quel cambiamento epocale. Rimane un interrogativo: queste memorie svelano tutto di lui? Viene naturale ricordare quanto sosteneva lo stesso Andreotti: «Chi non vuole fare sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a sé stesso». E tanto meno scriverla. Massimo FRANCO, Il Corriere della Sera, 25 agosto 2020