Nelle elezioni il cui esito influenzerà i destini del mondo per molti anni a venire, niente appare più scontato man mano che avanza la campagna elettorale. Il candidato democratico Joe Biden è ancora in vantaggio (stando ai sondaggi) ma il presidente uscente Donald Trump è in recupero. Forse, almeno in parte, perché le rivolte urbane di questi mesi hanno spaventato molti elettori. Per aver chiaro quale sia la posta in gioco servono due premesse. La prima è che un europeo, posto di fronte alle elezioni statunitensi, dovrebbe solo chiedersi quale sia, per noi europei, l’esito migliore. Non lo comprendono, nel Vecchio Continente, né quelli che tifano Trump perché si sentono ideologicamente vicini a lui né quelli che gli preferiscono Biden per la stessa ragione. La seconda premessa è che chi apprezza l’ordine liberale (la democrazia rappresentativa, l’economia di mercato, le libertà civili) che vige nel mondo occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale è tenuto anche a sapere che quell’ordine può perpetuarsi soltanto se sono presenti certe condizioni culturali, sociali, economiche. Ma anche geopolitiche: le scelte future degli Stati Uniti influenzeranno le sorti dell’ordine liberale occidentale, contribuiranno alla sua perpetuazione oppure al suo dissolvimento. Qualcuno sostiene, con ragione, che, contrariamente a ciò che molti dicono, la politica estera (l’unica di cui qui mi occupo) di Trump non è solo un insieme di sbagli.
Ci sono ambiti nei quali Trump ha rimediato a errori del suo predecessore Barack Obama. Per esempio, il duro confronto di Trump con una Cina che per troppo tempo ha giocato a sfruttare (e gioca tuttora a sfruttare) le debolezze del mondo occidentale, non merita di essere trattato con disdegno: nel rapporto fra Occidente e Cina c’è un problema reale e Trump ha avuto il merito di sollevarlo e di agire di conseguenza. Sempre a merito di Trump si può citare la svolta in Medio Oriente su un crinale delicatissimo: il nuovo posizionamento degli Stati Uniti (che poi è un ritorno all’antico) rispetto alla divisione fra musulmani sunniti e sciiti. I suoi due predecessori — Bush con la guerra in Iraq che liberò la maggioranza sciita del Paese dalla tirannia di una minoranza sunnita, e Obama con il trattato sul nucleare con l’Iran — avevano scelto di dialogare con gli sciiti a scapito della più antica e tradizionale alleanza con il mondo sunnita. Valutato alla distanza, questo rovesciamento di alleanze non sembra avere generato i benefici che ci si poteva attendeva, non è servito a dare più stabilità alla regione né a mettere definitivamente fuori gioco il jihadismo sunnita. Né ha ridotto le minacce all’esistenza di Israele. Invece, la politica di Trump sembra aver dato alcuni importanti frutti: il più spettacolare riguarda il contributo alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e gli Emirati arabi (cui si è aggiunto ora il Bahrein), un evento che può anticipare ulteriori avvicinamenti fra Israele e le potenze sunnite (Turchia esclusa). Nemmeno il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump, che tanto scandalizzò a suo tempo gli europei, ha impedito questa positiva evoluzione.
Se vogliamo dare a Trump quel che è di Trump dobbiamo riconoscere che questi aspetti della sua politica mediorientale — al pari della sua politica nei confronti della Cina — sono positivi, non meritano il disprezzo che riservano loro molti suoi avversari. Bisogna anche sperare che un’eventuale Amministrazione Biden non si faccia condizionare dagli umori anti-israeliani dell’ala più a sinistra del Partito democratico e non operi per bloccare questi sviluppi. Sempre con riferimento al Vicino e Medio Oriente, una volta detto che la politica di Trump non ha brillato — anzi, ha fallito: si pensi alla brutalità con cui ha voltato le spalle ai curdi — in Siria come in Libia, bisogna riconoscergli delle attenuanti: semplicemente, Trump non è riuscito a rimediare ai gravi errori commessi, in rapporto a Siria e Libia, dal suo predecessore Obama.
Detto ciò, bisogna però aggiungere che meriti ed attenuanti finiscono qui. Dopo di che, comincia la lunga lista dei gravissimi demeriti (dal punto di vista dell’interesse occidentale). Trump, con stile diverso da Obama, ma nella sostanza al pari di Obama, non ha cessato di far sapere al mondo che l’America è impegnata a ridimensionare il proprio ruolo internazionale. Il che ha scatenato gli appetiti nelle varie aree delle altre grandi potenze (Russia, Cina) e di potenze regionali (come la Turchia di Erdogan). Per inciso, prima o poi, gli Usa dovranno decidere che fare rispetto a una Turchia al tempo stesso membro della Nato e ormai nemica del mondo occidentale. Lasceranno alla sola Francia il compito di contenere le ambizioni imperiali di Erdogan?
Continuando a compulsare l’elenco degli aspetti negativi, bisogna ricordare che sono rimasti opachi (e quindi, pericolosi) i rapporti fra Trump e la Russia di Putin. Si tratti di Medio e Vicino Oriente o di rapporti con la Russia, stiamo parlando di cose che toccano gli interessi di noi europei. Così come ci tocca, destabilizzandoci, il nazionalismo trumpiano. Con i suoi effetti dirompenti: lo scontro con la Germania, l’ostilità all’Unione europea , la polemica sul ruolo della Nato, più in generale l’attacco alle istituzioni multilaterali create proprio dagli Stati Uniti dopo il 1945.
Poniamo che effettivamente la politica estera di Trump sia l’inequivocabile dimostrazione che il tempo dell’egemonia internazionale americana sia finito, chiunque vinca le prossime elezioni presidenziali, che il declino (relativo) degli Stati Uniti sia ormai irreversibile. È possibilissimo. Ma la domanda allora diventa: il declino americano, l’obsolescenza della Nato, eccetera, possono avvenire senza che , qui da noi in Europa, l’ordine liberale ne risenta? Davvero qualcuno crede che l’Unione europea possa , in tempi brevi, sostituirsi agli Stati Uniti, diventare un baluardo forte e indipendente di quell’ordine liberale fino a poco tempo addietro puntellato dalla potenza americana? Forse un Biden alla Casa Bianca non sarebbe capace di ricucire i rapporti con gli europei, di ridare forza e slancio all’ordine liberale occidentale. È possibile. Ma quella che con Biden è una possibilità, diventa una certezza in caso di rielezione di Trump. Non dovrebbe essere difficile capire che cosa convenga agli europei. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 14 settmbre 2020