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LA LISTA CIVICA DEI MORALISTI FURBETTI, di Stefano Zurlo

Pubblicato il 7 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

Hanno nomi che pesano. E potrebbero essere i registi o i candidati di quelle liste civiche che sono l’ultima frontiera. A destra come a sinistra. Ma a sinistra, e ci mancherebbe, con il timbro della purezza.

Ezio Mauro

Ezio Mauro, direttore di Repubblica

Solo che a guardare bene si scopre che pure loro sono inciampati, come tanti connazionali, nelle solite inchieste che macinano abusi edilizi, assegni in nero, manovre e manovrine per eludere il fisco. Il paese malato di mediocrità ha contagiato pure loro. O almeno questo raccontano atti e carte. Il codice penale c’entra fino a un certo punto. Contano semmai le schegge che sporcano l’icona, il santino universalmente venerato. Eresia? Perfino Lilli Gruber, Nostra signora di Otto e mezzo, finisce dentro una storia di violazioni, per ora presunte, delle norme ambientali ed edilizie. Capitaneria di porto e Fiamme Gialle piombano a Torre di Stelle, 30 chilometri da Cagliari, e mettono i sigilli ad alcuni manufatti. Scatta il sequestro: 90 metri quadrati di spiaggia sono coperti da uno scivolo a mare. Scandalo. La villa è quella dei Gruber, Lilli ne è comproprietaria. Lei si difende: «Non ne so nulla». Però la Guardia di Finanza è arrivata nel cortile di casa.

Integrità. Rispetto. Osservanza certosina delle norme. Siamo alle latitudini di Fulco Pratesi, guru dell’ambientalismo italiano, autore di memorabili battaglie in difesa del paesaggio. Perfetto. Ma a casa sua Pratesi non si sarebbe speso più di tanto. Siamo all’Argentario, terra da sogno. Ma un vicino di casa, Richard Cardulla, scopre un deposito di immondizia sui suoi terreni. Nasce un bisticcio sempre più feroce con Pratesi: i due si denunciano.

Pratesi esce indenne, ma la sentenza è una brutta didascalia sotto il piedistallo del monumento nazionale, due volte presidente del Wwf Italia e poi parlamentare sempre in prima linea: «Pratesi, una volta venuto a conoscenza della presenza dei rifiuti sul proprio terreno, non si è mai attivato per rimuoverli. A tal proposito – insiste il tribunale di Grosseto – stupisce la risposta del Pratesi alla domanda dove andassero a finire i rifiuti “Questo non lo so, è un vallone, non so dove vanno a finire”». Un atteggiamento incomprensibile quando la pattumiera ti arriva quasi ai piedi e deturpa un fazzoletto di terra che è un incanto. Si combatte per purificare il mondo, ma non si scorgono i rifiuti sotto il naso.

Carlo De Benedetti da sempre tuona per moralizzare tutto e tutti e, secondo le solite indiscrezioni puntualmente smentite e puntualmente riconfermate, vorrebbe lanciare un’Opa sul Pd, il partito che cerca di manipolare come plastilina. Qualche giorno fa però il gruppo L’Espresso, l’argenteria di famiglia, inciampa su una poco nobile storia di tasse e viene condannato dalla commissione tributaria regionale di Roma a pagare la stratosferica cifra di 225 milioni di euro per plusvalenze non dichiarate. La vicenda, tanto per cambiare, è ingarbugliata e la battaglia va avanti, ma per ora si deve registrare una condanna davvero pesantissima. Per un illecito che i nostri segugi hanno contestato chissà quante volte a una legione di imprenditori furbi e furbetti.

Capita. Da uno scivolone ci si può riprendere. Ezio Mauro, prestigiosissimo direttore di Repubblica, la corazzata di casa De Benedetti, è protagonista di un episodio non proprio da galateo. Nel 2000 compra un appartamento nel centro di Roma dal manager Eni Alberto Grotti. Il prezzo pattuito è 2 miliardi e 150 milioni. Problema: Mauro dimentica 850 milioni che vengono pagati con assegni da 20 milioni e uno da 10, con la sua firma. Nel 2007 Franco Bechis racconta l’episodio sul Tempo: anche il direttore di quel partito che è Repubblica avrebbe una discreta ragione per arrossire, lui che fustiga un giorno sì e l’altro pure chi imbocca scorciatoie.

Capita. Un mese fa il giudice Alessandra Cataldi ha condannato a un anno di carcere per abusi edilizi Luca Cordero di Montezemolo.

Montezemolo luccica da tutte le parti: da Italo alla Ferrari. Ma a Capri avrebbe esagerato: trasformando, con un colpo di bacchetta, un’autorimessa nella casa dei custodi. Tu quoque, strillerebbero i classici.

Perfino Michele Santoro, che nei suoi programmi ha scrutato tutto lo scibile umano, ha attraversato le sue sabbie mobili. Santoro compra una cascina su tre livelli affacciata sul golfo di Amalfi. Tutto bene? Il complesso si porterebbe dietro un peccatuccio originale: un abuso che però, a sentire gli autori di un esposto, viene condonato in velocità proprio quando sulla scena compare il conduttore tv. Coincidenze e retropensieri. Troppe volte ci siamo imbattuti in intrecci del genere. Poi la magistratura archivia. E si chiude allo stesso modo, con un’assoluzione, la pratica aperta contro l’ex ministro Vincenzo Visco, nei guai per un dammuso un po’ sporgente a Pantelleria. Sospetti per chi era al di sopra di ogni sospetto. Stefano Zurlo, Il Giornale, 7 giugno 2012

I MORTI NON PARLANO: RITRATTO A TUTTO TONDO DEL NEO (E VECCHIO) SINDACO DI PALERMO E DEL SUO INCUBO, GIOVANNI FALCONE

Pubblicato il 4 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

Si potrebbe senz’altro definire Leoluca Orlando «vecchio arnese della politica», se la parola «arnese» non evocasse qualcosa di utile, cosa che il politico palermitano non è mai stato. Naturalmente dotato fin da giovane – prese la migliore maturità d’Italia del suo anno – ha sempre rovinato tutto per il suo troppo odiare e spargere veleni. Rieletto ora sindaco di Palermo per la quarta volta, dopo un lungo purgatorio, Orlando si è riallacciato al quindicennio, 1985-2000, in cui dominò la scena cittadina. Prosperò nelle brighe.

Si autopromosse denigrando i rivali. Se non gradiva il risultato di un’elezione accusava l’avversario di brogli elettorali o di avere rastrellato voti mafiosi. Usò il metodo anche con il socialista Claudio Martelli che nel 1987, per capriccio, si fece eleggere alla Camera a Palermo. Martelli se lo legò al dito e quando Orlando, nel ‘93, fu rieletto sindaco gli dimostrò che era stato votatissimo nei quartieri più coppoluti: Kalsa, Zen, Ciaculli. Leoluca fece spallucce, perché quello che vale per gli altri non vale per sé, e continuò metodicamente a «mascariare» il prossimo.

Tuttora, che ha 65 anni (in agosto), non ha perso il vizio. A marzo invalidò, nella sostanza, le primarie palermitane della sinistra, gridando come un ossesso, «brogli, brogli» senza averne le prove. Con questa scusa, si è autocandidato sindaco contro il vincitore della lizza e suo ex pupillo, Fabrizio Ferrandelli e ha vinto con il 72,4 per cento dei voti contro il 27,5 di Ferrandelli. Senz’altro un trionfo sull’avversario, ma un fiasco in termini assoluti. Essendo stata l’affluenza inferiore al 40 per cento, ne deriva infatti che solo il 28 per cento degli aventi diritto ha votato Orlando e che il restante 72 si è ben guardato dal farlo.

Questo ripudio di una parte cospicua della città è la sola attenuante che i concittadini di Giovanni Falcone possono invocare per avere scelto come sindaco il suo nemico più subdolo. L’elezione di Orlando è infatti uno schiaffo alla memoria del giudice ucciso.
Per non dimenticare. La sera del 17 maggio 1990, il faccione di Leoluca, anche allora sindaco, fece capolino nella trasmissione Samarcanda di Michele Santoro. L’ospite mise il solito broncio da intrigante e sparò: «Il giudice Falcone nasconde le carte nel cassetto». L’accusa si riferiva a un episodio dell’anno prima: i presunti favori di Falcone ad Andreotti e ai suoi uomini in Sicilia, Salvo Lima, in primis.

All’osso, il sindaco col ciuffo sosteneva che il Divo Giulio fosse «punciutu», cioé avesse stretto con i mafiosi il patto di sangue- dito bucato contro dito- e che affiliati fossero i suoi amici politici. La colpa di Falcone invece – sempre ai suoi occhi – era di non essersi lasciato infinocchiare da un mafioso, certo Giuseppe Pellegriti, pseudo pentito che godeva però della piena fiducia di Leoluca. Costui aveva «rivelato» che fu Lima a ordinare l’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto nell’80.

Falcone capì al volo la panzana e incriminò Pellegriti per calunnia. Ciò scatenò la rabbia del sindaco e dei suoi professionisti antimafia che volevano invece incastrare gli andreottiani e avevano passato il tempo a catechizzare Pellegriti (come rivelerà Falcone al Csm). Questo l’antefatto della «denuncia» di Orlando allo show di Santoro, in cui l’interessato fu aggredito in sua assenza e contro il principio di lealtà.

L’accusa mise Falcone nelle peste. Il giudice che da anni era l’icona della lotta alle cosche viveva un momento delicato. Preso di mira per il suo rigore dai fanatici che confluiranno nella Rete (il partito orlandiano), finì nel tritacarne della «primavera» di Palermo, l’orrida stagione dominata dal duo Orlando- Padre Pintacuda al motto imbecille: «Il sospetto è l’anticamera della verità».

Al punto che perfino l’attentato alla villetta all’Addaura, di cui Falcone fu vittima, si ritorse contro di lui. Sventato con la scoperta in extremis della carica di tritolo, il giudice ne trasse due indizi: che la mafia lo voleva morto e che tentava di ucciderlo adesso perché lo considerava più vulnerabile. Gli orlandiani sparsero la voce che era stata una messinscena di Falcone. La figura di Falcone, più che specchiata fino allora, perdeva smalto. Il Csm volle vederci chiaro e convocò il giudice a Roma.

La seduta si tenne il 15 ottobre 1991. In mezza giornata, di fronte a un sinedrio attento, Falcone smontò la trappola, fece alcune rivelazioni e inchiodò Orlando con alcuni giudizi che lo dipingono per l’eternità.«Orlando-disse-sarà costretto a spararle ogni giorno più grosse. Lui e i suoi sono disposti anche a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura». Spiegò che, contrariamente alle accuse del sindaco, «nei cassetti non c’erano prove, perché ormai erano stati tutti svuotati» e gli eventuali accantonamenti erano solo «indagini fatte male».

Se poi il sindaco si è incattivito, è perché non ha digerito l’arresto di Vito Ciancimino, il mafioso. Ma come proprio Orlando, che dell’antimafia ha fatto una religione, prende cappello se sbattono don Vito in gattabuia? Eh sì, rivela Falcone- e questa è davvero bella- «perché nonostante un sindaco come Orlando (ironia?, ndr ) la situazione degli appalti a Palermo continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare sottobanco…». Ecco, dunque, messi a nudo gli altarini: Leoluca ce l’aveva col giudice perché gli aveva arrestato il Cianci. Oltre, naturalmente, avergli mandato a monte il piano contro Andreotti.

Verso la fine dell’udienza,il giudice fa un affresco della Palermo del duo Orlando-Pintacuda. «Non si può andare avanti in questa maniera… è un linciaggio morale continuo… Facendo come fanno loro le conseguenze saranno incalcolabili. Ma veramente incalcolabili». Le ultime parole dell’arringa sono da incidere nel bronzo: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità; la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo». Poi, prima di lasciar il Csm, il giudice aggiunse stancamente, senza sapere – o forse sì? – quanto fosse profetico: «Mi stanno delegittimando. Cosa Nostra fa così: prima insozza la vittima, poi la fa fuori».

Falcone morì sette mesi dopo, il 23 maggio 1992, dilaniato con moglie e scorta dall’ordigno di Capaci. Orlando andò al funerale, ciuffo in doglie e aria del cane bastonato. Sul sagrato della chiesa, Maria Falcone, sorella dell’ucciso, lo affrontò: «Hai infangato il nome, la dignità, l’onorabilità di un giudice integerrimo».

E gli girò le spalle. Leoluca piagnucolò: «È una cosa che mi fa molto male». Di Orlando ci sarebbe molto altro da dire. Ma ho preferito utilizzare lo spazio per riassumere la vera storia tra lui e Falcone. Chi oggi li accomuna, come se fossero stati sulla stessa barricata, mente. I morti non parlano ed è sul silenzio di Falcone che retori e scribacchini hanno creato il gemellaggio fasullo del giudice e del sindaco, mettendoli sullo stesso altare. Chi è dalla parte di Falcone non può stare con Orlando. Ecco perché la scelta elettorale di Palermo è un brutto indizio. Giancarlo Perna, Il Giornale, 4 giugno 2012

PUO’ LA POLITICA DICHIARARSI AUTONOMA DALLA MORALE? SECONDO IL LIBERAL DEMOCRATICO oSTELLINO SI, DI DIVERSO AVVISO MASSIMO FINI CHE SCRIVE…

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

In un pensoso articolo pubblicato sul Corriere del 20/5 Piero Ostellino ci spiega, in termini filosofici, la storia italiana degli ultimi decenni. È stato grazie all’”autonomia della politica dalla morale” (linea culturale che nel nostro Paese ha una lunga tradizione da Machiavelli a Croce) se l’Italia ha potuto progredire e prosperare attraverso, “piaccia o non piaccia”, l’evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, l’illegalità diffusa.

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Insomma la politica ha affermato il primato del “principio di realtà“, di ciò che effettivamente è, sul moralismo, così lo chiama Ostellino, del “dover essere”. A parte che non si vede alcuna ragione ragionevole per cui questa “autonomia dalla morale” spetti solo alla politica e non anche al singolo individuo nel perseguimento dei suoi interessi, il discorso di Ostellino, gli piaccia o no, è prettamente hegeliano: “Tutto ciò che è reale è razionale”.

PIERO OSTELLINO - Copyright PizziPIERO OSTELLINO -

E quindi finché rimane tale deve prevalere su ogni altra considerazione se non si vuole andare a sbattere il muso contro “le dure repliche della Storia”. Solo che questa primazia del “principio di realtà” sulla morale (che in politica estera prende il nome di “real politik”) porta molto lontano. Porta al grido disperato di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”.

Se non c’è Dio, se non c’è un principio superiore, religioso o laico che sia, che regoli i rapporti fra umani al di fuori e al di là del “principio di realtà“, tutto diventa lecito. Perché mai Hitler non avrebbe dovuto, in nome di quel principio, sterminare gli ebrei, padroni della finanza tedesca, fino al loro ultimo discendente? Perché non si dovrebbero ammazzare, se ciò viene comodo, bambini siriani o afghani?

Perché, più modestamente, non si dovrebbe rubare, taglieggiare, corrompere se questo aiuta, poniamo, l’economia? La questione da etica diventa puramente estetica. Non è bello rubare, non è bello inchiappettare i bambini, non è bello stuprare, ma se non esiste la morale, se è il “principio di realtà“, che è poi il diritto del più forte, a dover prevalere, in nome di che dovrei impedirmi di soddisfare i miei appetiti?

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Il mio non è un discorso moralistico e nemmeno morale. Friedrich Nietzsche, in Genealogia della morale, ha splendidamente spiegato che la morale non ha nulla a che fare con la morale. Ma con l’utilità. Nasce perché gli uomini seguendo liberamente i propri appetiti non si massacrino l’un l’altro (“homo homini lupus”) finendo così per autodistruggersi e per distruggere la comunità in cui vivono. Che è proprio il contrario dell’individualismo sfrenato, liberaldemocratico, sostenuto da Ostellino.

Una comunità non si sostiene e sopravvive solo sul principio di Libertà ma anche, e forse soprattutto, su quello di Autorità senza il quale si dissolve. La diarchia Libertà/Autorità non è così pacificamente scioglibile a favore della prima come noi crediamo. Fedor Dostoevskij nell’apologo de Il Grande Inquisitore inserito ne I fratelli Karamazov, ha messo a fuoco questo eterno dilemma in trenta straordinarie pagine che restano le più profonde dedicate alla questione.

Ma per scendere dall’empireo dei Grandi sulla terra, cioè su questa povera, indecente, inguardabile Italia, vale ciò che disse venti anni fa in Tv l’infinitamente più modesto Beppe Grillo e che gli costò la cacciata dalla Rai: “Se tutti rubano non resta più nessuno a cui rubare”.

Non c’è più trippa per i gatti. Ed è esattamente la situazione in cui, grazie anche alle elucubrazioni di Ostellino e di tutti gli innumerevoli Ostellini di questo Paese, siamo precipitati. Massimo Fini, Il Fatto quotidiano, 2 giugno 2012

……………..Ha ragione Massimo Fini, pur nella estremizzazione della interpretazione del pensiero di Ostellino che di certo non pensa che Hitler abbia potuto trovare giustificaizoni nel genocidio degli ebrei

L’UNICO TERREMOTATO AL QUIRINALE: IL GRANA PADANO…

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

Di terremotati al Quirinale c'era solo il Grana Padano

L’unico modo per evitare polemiche sulla festa del 2 giugno al Quirinale mentre un’intera Regione, l’Emilia Romagna, è in ginocchio per il terremoto era non celebrare quella festa. O farlo diversamente. Con meno invitati, spesso imbucati o semplice vippume assai poco rappresentativo della Repubblica, Oppure organizzare l’evento in una città simbolo come Reggio Emilia, patria del Tricolore e a poche decine di chilometri dai luoghi disastrati del sisma. Ma il presidente Giorgio Napolitano ha detto no, perché la parata militare ai Fori Imperiali a Roma (più dimessa rispetto agli ultimi anni) si doveva fare in quanto già organizzata. Ma il pomo della discordia è quel cocktail sul Colle che ha raccolto 2.000 persone tra politici, giornalisti, attori, saltimbanchi e varia fauna difficilmente classificabile. L’intellighenzia che si merita quest’Italia, insomma. E per fortuna che si parlava di sobrietà: dare un’occhiata alle foto pubblicate da Libero e Liberoquotidiano.it per farsene un’idea. L’unico terremotato presente al Quirinale con ogni probabilità era il Grana Padano, presente in gran quantità per allietare gli invitati (tra cui non c’erano, nota di merito per gli assenti, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani).

Al Quirinale ieri sera è andata in scena la più ostentata delle feste della Repubblica sobria. L’ha voluta fare a tutti i costi, Giorgio Napolitano, ma non è riuscito ad avvisare per tempo tutti i duemila invitati sugli abiti da scena da indossare per l’anti-evento. Così qualche signora ha varcato lo stesso l’ingresso laterale di via XX settembre pensando di andare alla prima della Scala. Saranno state una cinquantina almeno, di tutte le età, le lady che hanno sgarrato al protocollo imposto dal Colle per la grande sceneggiata. Il costo del grande evento non è naturalmente cambiato di un centesimo rispetto al budget di una settimana prima: i contratti sono contratti e vanno rispettati, altrimenti si pagano penali praticamente uguali al preventivo. E così è accaduto con il catering Nicolai, ormai legato al nome di Napolitano come quello del Relais le Jardin era legato a quello di Gianni Letta. “Aperitivo rinforzato”, era il nuovo ordine allo stesso prezzo di prima. E aperitivo rinforzato è stato: tartine, e parmigiano reggiano al centro delle tavolate giusto per metterci qualcosina che ricordasse il terremoto in Emilia. Vino intitolato a Placido Rizzotto e comprato dalla associazione Libera di don Luigi Ciotti, per ostentare un po’ di sobrietà in più. Musi lunghi fra gli ospiti. E soprattutto il gran desiderio di non essere pizzicati dai fotografi e finire sui giornali. Libero, 2 giugno 2012

LA PARATA DEL 2 GIUGNO SODDISFA SOLO LA VANITA’ DI NAPOLITANO

Pubblicato il 31 maggio, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

2 giugno,terremoto emilia,napolitanoLe nuove e tragiche scosse di terremoto in Emilia hanno movimentato anche gli animi degli italiani. In molti stanno chiedendo di annullare la parata del 2 giugno, nonché la visita di Benedetto XVI a Milano, per destinare i soldi alla ricostruzione. Il tam tam è partito da Twitter e molti politici lo hanno fatto proprio, in modo assolutamente bipartisan. Fa scalpore sentire Francesco Storace dire: “In un momento così triste è bene che gli occhi della Nazione siano rivolti alla tragedia del terremoto e non alla parata, che resta un momento bellissimo della nostra vita di buoni italiani, ma che oggi stonerebbe”. Tra i più attivi, Gianni Alemanno, che da Modena dice: “Siamo ancora in tempo per annullarla”. Il mensile E ha inoltre ricordato quando Forlani, da ministro della Difesa, annullò la parata del 1976 per il terremoto in Friuli, e lancia l’iniziativa di scrivere mail a Giorgio Napolitano perché faccia lo stesso.

Per ora, però, nulla da fare: Napolitano è stato inflessibile e ha detto che la parata si farà, ma sarà “sobria” e dedicata anche all’Emilia per un “rinnovato spirito di solidarietà nazionale” . Fa probabilmente altrettanto scalpore che Enrico Letta la pensi all’opposto di Storace e ritenga “appropriata” la decisione di Napolitano: “Si faccia prevalere lo spirito dell’unità nazionale, che è quello peraltro proprio della festa del 2 giugno”.

E qui è il punto. Massimo Gramellini su La Stampa si spinge oltre e scrive: ok, il capo dello Stato ha detto che la parata si farà; ok, i soldi per il 2 giugno sono stati quasi tutti già spesi; ma “nel 2012 ha ancora senso festeggiare la Repubblica con un rito così poco sentito dalla maggioranza dei cittadini? Ogni comunità ha bisogno di riti e di simboli. Ma sono le religioni che li mantengono inalterati nei secoli. Non gli Stati. Non tutti, almeno. Penso sommessamente che quest’anno il 2 giugno si onori di più la Repubblica andando fra i terremotati che fra i carri armati”. Cosa ne pensate?

…Noi la pensiamo come il giornalista della Stampa e consideriamo la permalosa volontà di Napolitano di farla, anche se in maniera  sobria e dedicata alle vittime del sisma (sic) solo una manifestazione di senile vanità dell’ex internazionalista e antimilatarista che non si vuole perdere l’ultima del suo settennato. Peccato. Napolitano se vuol essere sobrio cancelli la parata e passi il 2 giugno insieme ai terremotati dell’Emilia che più che di sobrietà alla romana hanno bisogno di concreta solidarietà, coperte, viveri, certezze per l’immedaito futuro. Del resto, come è stato ricordato, nel 1976, all’epoca del terremoto del Friuli, la parata fu annullata per iniziativa dell’allora ministro della Difesa on. Forlani a cui fece sponda l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone che condivise e appoggiò la decisione di Forlani. Nè vale, come ha sostenuto il direttore de Il Tempo, Mario Sechi, giornalista che apprezziamo ma del quale in questa occaisone non condividiamo il pensiero, il fatto che nel terremoto del Friuli morirono oltre 900 persone e in questo, per fortuna, le vittime sono solo 20. La solidarietà e, sopratutto, la rinuncia a manifestazioni di giubilo, non sono proporzionali al numero ma al fatto in se. Perciò anche noi ci uniamo alle voci che chiedono la rinuncia il prossimo 2 giugno alla parata militare lungo i Fori Imperiali di Roma  per celebrare la Repubblica che meglio onoreremmo unendoci tutti in silenzio al dolore delle terre scosse dal terremoto e alle popolazioni che vivono ore di paura e di dolore. g.

A BRINDISI ATTENTATO DI MAFIA? NON STA IN PIEDI, ECCO PERCHE’, di Mario Sechi

Pubblicato il 20 maggio, 2012 in Costume, Cronaca | No Comments »

Brindisi. Mattina. Sole. Aria fresca. Giovinezza. Melissa. Sedici anni. Scende dal bus. Ha la vita davanti. Poi un lampo. E il buio. Roma. Accendo il pc, lancio le agenzie. Alle 8.45 l’Ansa batte la notizia: ++ ORDIGNO ESPLODE IN SCUOLA BRINDISI, STUDENTI FERITI ++ Una bomba a scuola? Com’è possibile? Il riflesso condizionato è quello di dire «criminalità organizzata». Non sono un pistarolo, ma qualcosa non torna. Metto in fila i fatti, tenendo presente quanto mi ha detto una mia fonte: «In questa storia scrivi in spagnolo: metti i punti interrogativi anche all’inizio del pezzo». Farò di più, presenterò i pezzi del puzzle. Eccoli:

1. Perché mai la mafia dovrebbe mettere la firma su un atto così atroce scatenando su di sè l’arrivo dei migliori investigatori italiani? È una manovra boomerang. Una mente criminale non commetterebbe mai un simile errore;

2. Nel vicino centro di Mesagne ci sono regolamenti di conti in corso e nuovi collaboratori di giustizia. Uno dei metodi più usati tra i clan per tappare la bocca a un pentito è quello di colpire i suoi cari. Tra gli studenti c’è qualcuno che ha lontani parenti in odor di mafia?;

3. L’ordigno è rudimentale, mentre la mafia ha a disposizione il miglior esplosivo. Trasportare tre bombole e piazzarle sull’obiettivo è un rischio. Basta niente e ti beccano. È una tecnica da guerriglieri mediorientali, non da picciotti;

4. Mettere insieme tre bombole a gas però è facile e il risultato distruttivo assicurato. Collegarle a un timer è uno scherzo. Ma è fondamentale capire se quest’ultimo è orario o elettronico. Nel primo caso potremmo anche essere di fronte a un errore per cui la bomba scoppia al momento sbagliato, nel secondo lo scoppio è telecomandato e allora siamo di fronte a qualcosa di più sofisticato e inquietante;

5. Per fare tutto questo non c’è bisogno di un team di scienziati uscito dall’accademia dell’esplosivo. Qualsiasi persona con un filo di folle lucidità e crudeltà può mettere insieme le bombole a gas, il timer, trasportarle sull’obiettivo, attendere e provocare il botto per spezzare delle vite. Ecco perché anche la pista del folle non può essere per il momento accantonata.

In ogni caso, ha ragione il procuratore Pietro Grasso: di qualsiasi natura sia, questo «è terrorismo puro». Le indagini sono in corso, sono in pista investigatori in gamba e il procuratore Motta è serio. Ieri sera c’era già un sospettato sotto torchio. Aspettiamo. Lo Stato faccia lo Stato: deve prendere i colpevoli, condannarli, metterli in prigione e buttare la chiave. Mario Sechi, Il Tempo, 20 maggio 2012

..…………Ha ragione Sechi. La lettura più ovvia spesso non è la più corretta. La criminalità, quella organizzata, la più pericolosa, solitamente le sue “attenzioni” le rivolge agli obiettivi che possono nuocerle, non a quelli dimostrativi. Non solo. La criminalità organizzata sa che atti di guerra come è quello compiuto ieri a Brindisi inevitabilmente strasferisce l’attenzione massiccia della Magistratura e delle Forze dell’ordine verso i luoghi teatro delle stragi e ciò “nuoce” agli interessi della criminalità che preferisce vivere sottoacqua così da potersi meglio mimetizzare e sfuggire agli investigatori e alla cattura da parte della polizia  e dei carabinieri. Perciò, al di là delle identiche opinioni espresse dal Procuratore della Repubblica di Brindisi, Di Napoli, che tende ad escludere o almeno a considerarla possibnile insieme ad altre, la pista mafiosa o della criminalità organizzata, è opportuno che le indagini si svolgano a 360 gradi, così da perseguire ogni possibile pista che possa portare alla individuazione dei responsabili di un eccidio tanto odioso quanto inutile. Colpire i ragazzi è ignobile, provocarne la morte è terribile. I colpevoli devono essere identificati e come scrive Sechi messi nelle condizioni di non nuocere più. Per esserne certi, e non scandalizzi nessuno,  c’è la pena di morte. La stessa inflitta, con terrificante cattiveria,   alla giovane studentessa di Mesagne. Perchè  chi dà la morte, merita la stessa sorte. g.

L’80 % DEI PROVENTI DI EQUITALIA VENGONO DAI LAVORATORI A REDDITO FISSO

Pubblicato il 19 maggio, 2012 in Costume, Economia, Politica | No Comments »


Ricordate i “botti” fiscali di Capodanno per festeggiare (in anticipo) i primi cento giorni del neo premier Rigor Montis? Con la perla delle Dolomiti, Cortina d’Ampezzo, presa d’assalto dai cacciatori di scontrini fiscali. E con i grandi giornali a brindare all’inconsueta messinscena pirotecnica. Anche se Lor signori della carta(straccia), e i suoi direttori, più che applaudire al blitz degli esattori facevano festa per una ragione assai meno nobile: lo scampato pericolo di una patrimoniale secca che avrebbe colpito le tasche dei loro editori.

Già, i Poteri marci che, rispetto ai lavoratori dipendenti, non hanno il prelievo alla “fonte” (dalla busta paga) e a volte godono pure dell’Iva al 4%. Oltre a poter schierare, sul campo fiscale, agguerriti tributaristi. Nel caso di controversie con l’agenzia delle entrate. Lusso che non un artigiano o un bottegaio di paese.

L’Italia del commercio non è soltanto Cortina o via Montenapoleone.
Storia vecchia, si dirà, ma finora non si era mai visto un governo composto di tanti garruli Superciuk. Stiamo parlando dell’antieroe dei fumetti creato da Max Bunker, l’opposto di Robin Hood, che ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Nel suo pamphlet sui contribuenti-sudditi “La mano che prende, la mano che dà“, edito da Raffaello Cortina, il filoso tedesco Peter Sloterdijk, osserva che il giornalismo politico dei nostri giorni “riformula in mille varianti quattro luoghi comuni”. E tra questi “luoghi comuni” c’è, da parte della stampa, quello di sollevare solo polveroni.

“E il buon uso dello scandalo – osserva Sloterdijk – diventa uno strumento per tenere in vita il potenziale utopico del modo di vivere politico chiamato democrazia”.

Nell’Italia degli Indignados à la carte (dei padroni) c’era, addirittura, chi parlava di “rivoluzione delle tasse” dopo aver assistito ai fuochi fatui accesi dalle fiamme gialle nel ricco presepe ampezzano. Senza nemmeno aver dato una sbirciatina su come funziona e opera davvero la burocratica macchina trita-contribuenti avviata dai vari governi della cosiddetta seconda Repubblica.

Una struttura dai costi di gestione mostruosi: oltre un miliardo di euro l’anno. Pagati ovviamente, dai poveri tartassati di turno.
I ricavi di Equitalia? Qualche spicciolo di milione.
Del resto, sosteneva l’ex presidente americano Ronald Reagan “chi paga le tasse è uno che lavora per lo Stato senza essere un impiegato statale”.

Così, nell’ubriacatura (fiscale) di fine anno qualcuno anche a sinistra-sinistra (il Fatto) scambiava pure l’amministratore di Equitalia, il puffo Attila Befera, per un Lenin dell’aggio (altrui).Tant’è, che il Signorotto delle imposte con “tassi di usura” (9%), attratto dal profumo d’incenso che lo stava avvolgendo, si è presentato davanti alla folla di adulatori (i media) per promuovere il marchio Equitalia. Che grazie agli exploit televisivi di Befera, rovesciando lo slogan di una ditta di cucine, ben presto è diventato il più odiato dagli italiani.

E il risultato più grave e negativo delle performance di Attila è stato soltanto uno: nel giro di pochi giorni l’agenzia delle entrate, e i suoi solerti dirigenti, sono diventati un simbolo del male e l’obiettivo sconsiderato di violente e ingiustificate contestazioni.
Tutte azioni condannabili senza se e senza ma.

A tirare sassi contro le vetrine di Equitalia non erano però i proprietari di auto Suv o i bottegai infedeli, come avevano immaginato i soloni di carta(straccia).
A gridare la propria protesta erano i milioni di cittadini a reddito fisso. Lavoratori la cui dichiarazione fiscale è fatta, tra l’altro, dai propri datori di lavoro.

Secondo alcune stime, mai smentite dai gabellieri di Stato, l’80% degli incassi di Equitalia proviene dalle tasche dei salariati dipendenti, pensionati e da piccoli professionisti.
Spesso vessati per qualche centinaio di euro (il mancato pagamento del canone Rai) con ganasce alla propria auto o l’iscrizione d’ipoteche sulle abitazioni.

I Grandi Profitti, invece, possono dormire sonni tranquilli anche sotto il governo di Rigor Montis e del suo scudiero (fiscale) Attila Befera.
Così nel panorama dell’informazione, che dovrebbe rappresentare l’opinione pubblica, ancora una volta sono stati i propri lettori a far cambiare registro ai giornali.
E poi gli editori si lamentano della perdita di copie in edicola!

Una valanga di lettere spedite alle redazioni ha fatto giustizia su come funziona davvero (In)Equitalia.
Eppure, facciamo l’esempio del Corrierore guidato stancamente dal disincantato Flebuccio de Bortoli, aveva sotto mano la coppia di Gabibbo alle vongole, i mitici Stella&Rizzo, per andare a dare almeno un’occhiatina su come funziona e opera la burocratica macchina da guerra pilotata da Attila Befera.
Niente, invece.

Dei due Indignados à la carte (dei padroni) uno era impegnato a fare le bucce a qualche disgraziato delle comunità montane; l’altro a difendere l’ing. Giuseppe Orsi, amministratore di Finmeccanica, che è accusato di “riciclaggio internazionale” dai giudici di Napoli.
Se fosse stato un parlamentare con un simile fardello (inquisitorio) sulle spalle, Sergio Rizzo, ne avrebbe chiesta la decapitazione sulla piazza del Parlamento.

E nemmeno una riga si è letta su chi oggi guida la politica fiscale dell’Italia.
Il premier Rigor Montis o Attila Befera?
Dopo la sciagurata soppressione del ministero delle Finanze per creare un superministero dell’Economia – accorpando insieme Tesoro e Bilancio -, la delega nel campo dei tributi è stata lasciata dal governo dei bocconiani, come ha ricordato il professor Enrico De Mita sul “Sole 24 Ore”, all’Agenzia delle entrate.
Con i risultati politici, economici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti.

E sorprende che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scrupoloso garante della Costituzione non si sia accorto, come osserva ancora Enrico De Mita, che è proprio la carta repubblicana che “affida concretamente e non apparentemente la politica tributaria al Governo e al Parlamento”.

Altrimenti, in assenza di un’azione istituzionale, si finisce sotto la scure del gabelliere-riscossore Attila Befera.
E gli italiani onesti, per citare nuovamente il filosofo Peter Sloterdijk, sono trasformati “da cittadini di uno Stato a titolari di un codice fiscale”. 19 maggio 2012

.……….Scriveva Svetonio che “il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”

HOLLANDE TAGLIA I SUPERSTIPENDI E COMINCIA DAL SUO: MONTI (e non solo) PRENDA ESEMPIO!

Pubblicato il 10 maggio, 2012 in Costume, Il territorio, Politica, Politica estera | No Comments »

Non è ancora insediato ufficialmente all’Eliseo – lo farà il 15 maggio – e già Francois Hollande parte con le novità. L’annuncio del presidente francese, successore di Francois Sarkozy, non lascia spazio a molte interpretazioni.

Francois Hollande

Si ridurrà lo stipendio del 30%. Non abbastanza per riportare la cifra percepita ai 7mila euro del 2007, poi più che raddoppiati sotto il precedente presidente, ma comunque qualcosa.

Lo stipendio presidenziale passerà dagli attuali 19mila euro a “soli” 13mila. E con quella di Hollande diminuiranno anche le retribuzioni di premier e ministri francesi. Una mossa che certo non servirà a scongiurare gli effetti della crisi, ma che rappresenta comunque un segnale importante in un momento in cui i tagli della spesa pubblica sono all’ordine del giorno sui tavoli istituzionali.

E se i francesi non sembrano avere mai perdonato a Sarkò le foto che lo ritraevano in viaggio sul lussuoso yacht di Vincent Bollorè, al largo di Malta o quello che veniva evidenziato come un rapporto troppo disinvolto col denaro, la mossa di Hollande è forse la messa in atto quella politica “normale” di cui ha parlato a lungo nei mesi della campagna elettorale. Il Giornale, 10 maggio 2012

.…………Ci piace questo Hollande e anche se c’è sempre il dubbio che si tratti di mossa propagandistica d’inzio mandato, c’è di certo che non solo si riduce lo stipendio, suo e dei suoi ministri, del 30%,  ma apprendiamo che il presidente francese, non uno qualsiasi, ma il presidente dela Francia, prende all’anno 156 mila euro….C’è da rimanere stupefatti se solo si confronta questo “misero” stipendio con quello che percepisce, per esempio, il signor Napolitano, che tra indennità varie arriva  a centinaia di migliaia di euro all’anno, o al signor  – in arte professore – Monti che da senatore a vita, a vita!, , cioè senza neanche essersi preso la briga di essere elttto, prende 25 mila euro al mese, e poi presidente di Camera e Senato,  deputati, senatori, presidenti di Regione e consiglieri regionali,, sino, giù, giù a sindaci e consiglieri comunali, tutti percettori di indennità impensabili oltralpe. Pensate che il sindaco di un Comune italiano  di 8000 abitanti (come Toritto) prende 2500 euro al mese, cioè circa un decimo di quanto prende Hollande che è il capo di una Nazione che conta 70 milioni di abitanti. E poi ci sono i supermanager italiani, tipo Befera, il capo dellìAgfenzia delle Entrate, nonchè il capo di Equitalia, il quale percepisce circa 650 mila euro all’anno, cioè qualcosa come sei volte, SEI VOLTE, il capo dello Stato francese. Che dire!? Che Monti, intanto che incomincia lui a dare l’esempio, visto che non sapendo da dove incominciare per tagliare i costi della politica tanto ha nominato  all’uopo commissario il vampiro-Amati,  lo mandi a casa, e si limiti a copiare la Francia e otterrà subito il risultato che a parole si vorrebbe raggiungere.g.

SONDAGGIO ACLI: UN ITALIANO SU TRE VUOLE LA RIVOLUZIONE

Pubblicato il 2 maggio, 2012 in Costume | No Comments »

L’Italia uscirà dalla crisi entro i prossimi tre anni, ma in condizioni peggiori di prima, e comunque tra 10 anni saremo più poveri. Per cambiare il Paese ci vorrebbero le riforme, ma per una persona su tre l’unico mezzo è la “rivoluzione”. Sono i risultati di un sondaggio tra gli italiani, realizzato per le Acli da Ipr Marketing e diffuso alla vigilia del 24/mo Congresso nazionale delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, che prenderà il via domani a Roma.

Dal sondaggio emerge che una spesa imprevista di 100 euro manderebbe in crisi il bilancio familiare per sei italiani su 10; più preoccupati sono i cittadini del Sud, le donne e i giovani. Quasi la metà degli intervistati (47,5%) ha iniziato a percepire in concreto nella vita quotidiana gli effetti della crisi economica tra il 2010 e il 2011; il 14,8% era già in una situazione di sofferenza economica prima del 2008. La grande maggioranza degli italiani (72,4%) non riesce a leggere in questa crisi un’occasione di progresso o cambiamento. Per uscire dalla crisi, secondo gli italiani non si può non puntare su una maggiore equità (24,9%) e moralità (22,8%) generale da un lato e dall’altro occorre far leva sulla competenza (18,5%) delle classi dirigenti e sull’innovazione (12,7%). La richiesta di una maggiore equità sociale emerge anche in relazione all’opinione degli italiani su chi deve pagare la crisi: il 74,8% infatti ritiene che siano i cittadini più facoltosi a dover sopportare il carico maggiore della crisi. Chi ci toglierà dalla crisi? Non importa che sia uomo o donna, sposato o cattolico: il leader futuro sarà giovane (53%) e con competenze professionali all’altezza delle sfide attuali, laureato (49%), se necessario docente universitario (37%). Sul fronte degli interventi da effettuare, per la grande maggioranza degli italiani deve occuparsi prima delle famiglie e poi dei conti dello Stato e tenere conto delle indicazioni delle istituzioni internazionali.

Per cambiare il Paese, per la maggioranza (50,9%) la strada da seguire è quella riformista, con interventi graduali e condivisi ma anche impopolari. Ma la crisi porta con sé anche atteggiamenti radicali: quasi un terzo del campione (32,%) vede la “rivoluzione” come unico mezzo per trasformare l’Italia; per il 17,2% degli intervistati “questo Paese non cambierà mai”. Per il presidente delle Acli, Andrea Olivero, “il Paese ha bisogno di ripartire ricostruendo il rapporto di fiducia con i cittadini e rianimando il sentimento di speranza, offrendo un modello e un progetto credibile di sviluppo. Il risanamento dei conti non basta. Gli italiani mostrano di aver ben chiare le priorità: lavoro, giustizia e onestà. La strada da percorrere é quella delle riforme, per cambiare in meglio questo Paese, senza lasciare altro pericoloso spazio ad astensionismo e antipolitica”. Fonte ANSA, 2 maggio 2012

L’ULTIMA BEFFA DI MONTI: IL CONSULENTE PER I “TAGLI” ALLA POLITICA E’ GIULIANO AMATO

Pubblicato il 1 maggio, 2012 in Costume | No Comments »

L’asso nella manica di Mario Monti si chiama Giuliano Amato. L’ex presidente del Consiglio è stato incaricato dal Consiglio dei ministri di “fornire al premier analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti per l’attuazione dei principi di cui all’articolo 49 della Costituzione, sul loro finanziamento nonché sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati”.

Giuliano Amato

Amato, tanto per ricordarlo, fu quello che a sole due settimane dal suo insediamento decise di prelevare il sei per mille da tutti i conti correnti italiani retrodatandone l’efficacia del diktat. Una stangata che colpì indistantamente. E Giuliano Amato è inoltre un sostenitore della patrimoniale come viatico per la crescita.

A proposito il prof. Amato, percepisce come pensionela rispettabile sommetta di 31 milas euro al mese, al mese, non all’anno. Insomma un vampiro è stato messo a fare il custode d lla banca del sangue. Complimenti, Monti.