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IL FRONTE DEI MODERNISTI, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 13 febbraio, 2016 in Costume | No Comments »

Attraverso quali vie oggi possono nascere e diffondersi in un Paese come l’Italia sentimenti di estraneità ostili nei confronti delle élite, a cominciare magari da quelle culturali e giornalistiche? Di avversione verso il loro ruolo nello spazio pubblico, e quindi, inevitabilmente, di protesta verso la politica? Quei sentimenti, cioè, che poi finiscono per confluire indifferentemente da destra o da sinistra nel grande collettore che abbiamo convenuto di chiamare «populismo»? Per cercare una risposta può forse dirci qualcosa il modo in cui si è svolta in queste settimane la discussione sulle unioni civili e sul problema connesso (almeno fino ad oggi) dell’adozione del figliastro (stepchild adoption).

Essendo incerta l’effettiva percentuale dei favorevoli e contrari tra gli elettori, qualunque dibattito in merito avrebbe dovuto equamente rappresentare, come è ovvio, entrambe le posizioni. Posizioni le quali, prima che politiche sono posizioni culturali e morali riguardanti questioni di grande complessità, ambiti fondamentali della vita personale e collettiva. Ebbene, mi chiedo e chiedo: si può onestamente dire che il dibattito in merito sulla grande stampa e in televisione — le uniche sedi che contano — sia stato all’altezza di tale complessità?

Per almeno due ragioni a me sembra di no. Innanzi tutto per una soverchiante, ossessiva presenza — parlo della televisione e della radio ma non solo — di esponenti politici. In Italia, anche se si tratta del peccato originale o delle cure palliative, la Rai si ostina a credere che i più titolati a discuterne siano un parlamentare dei 5Stelle insieme a un senatore di Fratelli d’Italia. E le radio e tv commerciali non sanno fare di meglio. Ne è risultato — nel caso della discussione sulla legge Cirinnà ma così come sempre — un succedersi, in genere semiurlato o punteggiato di interruzioni, di frasi di un minuto, di affermazioni immotivate e ripetute senza tener conto delle eventuali obiezioni. Con la maggioranza dei cosiddetti conduttori non solo incuranti di tenere la discussione su un binario di reale approfondimento di alcunché, ma usi a intervenire di continuo con sorrisetti derisori, sguardi di compatimento e opportune interiezioni (campioni assoluti del genere Gruber e Formigli) per screditare l’opinione da loro non condivisa. Che nove volte su dieci era in questo caso l’opinione degli oppositori alla legge.

Ciò che peraltro rimanda a un dato generale — che rappresenta la seconda delle due ragioni di cui sopra. Vale a dire la iper rappresentazione che su tutti i media così come nell’intrattenimento, nel cinema, in qualunque produzione culturale, ha costantemente l’opinione per così dire laico-progressista, favorevole al cambiamento, a innovare, a cancellare tutto ciò che appare tradizionale, a cominciare — c’è bisogno di dirlo? — della dimensione religiosa. A cui naturalmente corrispondono la svalutazione sussiegosa, quando non il vero e proprio dileggio nei confronti di chi invece è fuori dal mainstream dell’ideologicamente corretto, dalla parte di un pensiero tradizionale, magari convenzionale o ispirato a un antico «buon senso» (molto diffuso ad esempio in merito all’immigrazione o alla sfera della «legge e l’ordine»). Per avere un’idea di un simile atteggiamento partigiano basta ascoltare certi programmi di Radio 24, la radio del Sole 24 Ore.

Che cosa deve pensare, mi chiedo, che sentimenti (e risentimenti) può provare, quella parte del Paese — non proprio minuscola, credo — nel vedersi non solo così continuamente esclusa dalle sue più autorevoli fonti di rappresentazione pubblica, ma palesemente considerata una sorta di sottospecie culturale da tenere di continuo sotto schiaffo? Crediamo davvero che basti il programma di una rete Fininvest che strizzi l’occhio alle passioni di questa Italia «reazionaria» per bilanciare, che so, il Festival di Sanremo, l’evento televisivo in assoluto più ascoltato dell’anno, trasformato disinvoltamente in una manifestazione in sostegno delle varie cause che vanno sotto la sigla dell’«arcobaleno» (a cominciare per l’appunto da quella delle unioni civili)? Che cosa sarebbe successo se il Festival di Sanremo fosse stato dedicato, mettiamo, a esaltare la causa delle «famiglie»?

Naturalmente non sono così sprovveduto da ignorare le tante ragioni per cui tutto ciò avviene. Le buone ragioni per cui in tutto il mondo occidentale i media e la cultura sono dominati da un punto di vista diciamo così «liberal». E cioè il fatto che gli uni e l’altra hanno la loro storica ragion d’essere nella libertà e nell’anticonformismo. Ma anche sapendo tutto ciò non riesco a non stupirmi dell’unilateralità smaccata travestita da devozione ai Lumi, dell’indifferenza per l’opinione dissenziente da parte del noto «giornalista democratico», del celebre «professore liberal». Ma soprattutto sono colpito dall’amore sempre e comunque per la novità, per il cambiamento, per il punto di vista che si presenta come più «moderno», più «avanzato», più «democratico», più «laico», che in Italia domina incontrastato la discussione pubblica. Anche la più colta, anche quando questa riguarda temi come l’istruzione, la scuola, la vita sessuale, la religione, la morte, i rapporti tra le culture. Ambiti rispetto ai quali, se non mi sbaglio, non è proprio così ovvio che cosa voglia dire «progresso», «democrazia» e quant’altro.

Insomma: gli italiani orientati culturalmente e spiritualmente — molto spesso in modo assai ingenuo, se si vuole — in senso lato conservatore, a favore di assetti tradizionali, legati al passato (ma attenzione! con colori politici per nulla uniformi), sono di sicuro un buon numero. Tuttavia nel dibattito pubblico del loro Paese un punto di vista culturale che li rappresenti è di fatto inesistente. Da quando è scomparsa ogni vestigia di Sinistra marxista con la fine del vecchio Partito comunista, e da quando la Chiesa cattolica ha rivolto la sua attenzione in prevalenza verso il «sociale», il campo è dominato per intero da una prospettiva uniformemente e spensieratamente innovatrice-modernista, univocamente assertrice delle verità di oggi. Ci sarebbe la Destra, naturalmente. Ma in Italia, si sa, la Destra ha solo carattere politico. Dal punto di vista ideale, culturale, antropologico, la Destra italiana non esiste o è in tutto e per tutto simile al resto: anzi, è perlopiù una sua brutta copia. Di fronte a un establishment così ideologicamente blindato, quale altra diversità autentica, quale altra protesta sono allora possibili, alla fine, se non quelle distruttive offerte dal populismo? Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 13 febbraio 2016

La conferma di quanto scrive Galli della Loggia? La seconda sera del festival, sul palcoscenico dell’Ariston è salito il presidene della Liguria, Giovanni Toti, che a differenza dei colori arcobaleno esibiti spavaldamente da quasi tutti i concorrenti in aperta gara non canora ma di conformismo, esibiva sul bavero della giacca una coccarda tricolore avvolta in un nastro giallo. La coccarda,  ha spiegato Toti nell’indifferenza più totale di Conti,  dei cantanti sul palco  e di gran parte del pubblico in sala, era  dedicata ai due marò, uno dei quali ancora in India, e il nastro giallo era dedicato alle vittime delle Fobe  nel Giorno del Ricordo. Non solo sul palcoscenico dell’Ariston era palpabile l’indifferenza rispetto ai colori arcobaleno esibiti e dipananati più volte da ciascun cantante, ma in rete è immediatamente partita una vera e propria caccia a Toti per aver “guastato” l’atmosfera del festival ricordando i due marò e gli assassnati dai titini.  g.

SHOAH, PERCHE’ RIFLETTERE E’ ANCORA NECESSARIO

Pubblicato il 27 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »

Ecco, dunque, il 27 gennaio, il «Giorno della memoria». Di nuovo celebrazioni, cerimonie, discorsi di circostanza, dove si ripetono luoghi comuni, mostre stantie, dove anche le immagini, un tempo vivide, sono condannate a divenire icone sbiadite. E tutto per un genocidio che risale a un passato ormai lontano, uno fra i tanti. Sì, perché le pagine della storia sono piene di tragedie analoghe – prima e, persino, dopo la Shoah. Come dimenticare il genocidio armeno, la bomba su Hiroshima, l’eccidio in Ruanda, i massacri in Bosnia? E perché non affrontare l’immane tragedia dei profughi? «Basta con questi ebrei che hanno preteso per anni di avere il monopolio del dolore!». «Basta con questi ebrei che hanno fatto di Auschwitz l’emblema del male assoluto!». «Basta con questi ebrei, il sedicente popolo “eletto” che rivendica una eccezionalità perfino dello sterminio». Come se «unico e incomparabile» fosse il crimine che hanno subìto. «Basta con questi ebrei che dall’Olocausto hanno tratto un redditizio business e ogni anno tornano a presentare il conto». «Basta con questi ebrei che vogliono essere le vittime per eccellenza, come se ci potesse essere una gerarchia, come se le morti non fossero sempre e ovunque uguali per tutti!».

Da anni infuria la polemica sul Giorno della memoria. Si stigmatizzano i cosiddetti «abusi». Si chiede di voltare pagina. Come se il passato non fosse indispensabile per guardare al futuro. È indubbio che la sindrome del «dovere della memoria» ha sortito effetti perversi. Così come è indubbio che, nei Paesi europei, implicati nello sterminio, la cultura, la politica e l’informazione hanno enormi responsabilità. I progetti didattici, che si limitano spesso ai «viaggi della memoria», mostrano tutti i loro limiti. Tra la ragionieristica del lager e l’emozione del momento non c’è spazio per la riflessione critica. Come spiegare altrimenti lo sconcertante aumento dell’odio verso gli ebrei? In Germania le cifre sono ormai da record. La maggior parte dei tedeschi vuole lasciarsi alla spalle Auschwitz e puntare liberamente l’indice contro Israele. L’Italia non è da meno. Ecco perché la polemica sul Giorno della memoria ha il sapore greve dell’antisemitismo, il gusto acre della cattiva coscienza. Non è difficile trovare ciò nel web, dove diffusa è anche la macabra competizione tra i genocidi.

A che cosa dovrebbe servire questa gara? A meno che lo scopo recondito non sia gettare discredito sugli ebrei. Ricordare è pensare. E della Shoah resta ancora molto su cui riflettere. Si deve parlare delle camere a gas, delle officine hitleriane, perché le morti sono tutte uguali – ma non lo sono i modi di morire. Non vogliamo che si ripeta né la fabbricazione dei cadaveri né, tanto meno, quell’esperimento del non-uomo, mai compiuto prima, in cui l’umanità stessa è stata messa in questione. Sebbene sia insopportabile, occorre ricordare quel che è accaduto, perché viviamo all’ombra di Auschwitz e, senza conoscere, si rischia di non ri-conoscere: l’odio per l’altro, il cripto-nazismo, l’antisemitismo. L’Europa non può sottrarsi. Tutto allora iniziò con le frontiere sbarrate ai profughi ebrei, chiuse a un intero popolo, che fu consegnato all’annientamento. Donatella Di Cesare, Il Corriere della Sera, 27 gennaio 2016

DA IAN PALACK AGLI SFASCIATORI DI LIBRERIE, di Emanuele Ricucci

Pubblicato il 16 gennaio, 2016 in Costume, Cultura | No Comments »

Il 16 gennaio del 1969, un giovane di universitario praghese di 19 anni, Jan Palach, si dava fuoco, suicidandosi,  nella centralissima Piazza San Venceslao della sua città, estrema e altrettanto ponderata protesta contro il regime comunista che governava dispoticamente Praga e l’allora Cecoslovacchia e l’intero Est europeo.  Dovevano trascorrere  altri 20 ani prima che il sacrificio di Palach trovasse la santificazione con la liberazione di quasi tutto l’Est europeo dal giogo comunista. Ma oggi, dopo 47 anni dalla sua morte eroica, cosa è rimasto di Jan Placah e del suo sacrificio? Così lo ricorda  nel suo blog Emanuele Ricucci. g.

C’era una volta Jan Palach. Lo racconteremo come una favola, perché se ne addolcisca il ricordo e rimanga leggero, perché sia piacevole parlarne e si smussi il dolore.

La sua generazione, e quella prima di lui, poi le successive, fino alla nostra, l’odierna. Dal trionfo nazionale al tonfo capitale. La metamorfosi, i segni della putrefazione, dal vitalismo al nichilismo solo andata. Speriamo nel Ritorno.

C’era una volta chi si dedicava l’esistenza, percorrendola, interpretandola, cavalcando le innumerevoli tigri della gioventù, e lo faceva lucidamente e consapevolmente, trovando un approdo sicuro in una lotta animata e muscolare, per l’affermazione della sovranità, senso imprescindibile per chi si ammanta di una certa identità. Jan Palach. Ancora arde il suo spirito in quella Piazza S.Venceslao, a Praga, il 16 gennaio del 1969. Ancora si sente l’odore acre del suicidio di un giovane martire europeo che vedeva una nuova speranza in una nuova primavera, repressa dall’aberrazione sovietica, da quel immenso cuscino al cloroformio sui volti delle generazioni libere. Un giovane vivo e cosciente. Tutto qui, nulla di santo e filosofico, etereo o irraggiungibile. E quell’estremo gesto, la decisione di darsi fuoco sulle scale del Museo Nazionale di Praga, quell’idea che montava in lui, giorno dopo giorno, ragionata, ponderata, macinando sentimenti, tra una lezione e l’altra all’Università, quel normale approccio non conforme, che fungeva da barricata di chiodi e legno verso chi spingeva per un’intensiva e frettolosa massificazione, verso chi imponeva silenzio alle libertà di una nazione, per chi plasmava con la violenza l’egemonia. Un gesto simbolo di una sanità generazionale. Un esempio di sacrificio combattente per quell’Europa.

La bella morte, la fine eroica, come Mishima, la massima purificazione, amara ambizione, forse anche illogicamente folle, che non trovava consolazione in una fede religiosa, ma confidava nella forza dell’anima, unico residuo di eternità in un mondo e in un corpo finitissimo.

Sogni di rock ‘n roll e guai a chi ci sveglia”, canterebbe oggi il nostro teneramente duro Ligabue. Sono sogni che tramutano in incubo a velocità elevata. Oggi le cose sono cambiate, eccome. Qualcuno sembra aver abituato le nuove leve a lottare per la Patria mondo, un po’ nomade, un po’ “dove c’è Barilla, c’è casa”, per formare le colonne del villaggio globale, in cui tu casa es mi casa, tu cane es mi cane, tu madre es mi madre, tu dinero es mi dinero, tu pericolo es mi pericolo, tu problema es…come il mio, non il mio. E da lì in poi, ecco interi blocchi di gioventù entrati nel Common Village, dotato dei migliori comfort tecnologici, in cui si può essere sempre informati di come va il mondo, senza strapparsi minimamente la bella blusa blu. Sì, ogni tanto qualche imbecille parte a fracassare vetrine o lanciare estintori ma sa che quando tornerà sarà al sicuro, tra un falso mito di libertà ed i titoli del Tg che gli annuncerà che la guerra, quella vera, è lontana, lontana parecchio. Come a Firenze, alla libreria “Il Bargello”, un paio di giorni fa. Completamente distrutta. Con il mondo intorno in piena crisi isterica e un’Italia sodomizzata, c’è ancora chi sfascia le librerie in nome dell’antifascismo, manifestazione platonica di un’insicurezza e di una vacuità mor(t)ale imbarazzante, residuato bellico degenerato e anacronistico. Una flotta di ragazzotti, un misto tra il Klu Klux Klan e i sette nani, V per Vendetta e Manu Chao dopo il concerto, ha pensato bene anche di aggredire l’unica ragazza presente nel locale che, alla Nazione, ha dichiarato: “mi hanno preso per i capelli e soprattutto mi hanno picchiato violenza con una spranga di ferro. Per fortuna sono riuscita a scappare in bagno”.

Farete “la fine di quelli di Acca Larentia”, avrebbero urlato i coraggiosi incappucciati prima di dileguarsi.

Nessuno chiede redenzione, né conversione (non scherziamo…), almeno dignità nel comprendere la realtà comune che degenera verso la decadenza.

Qualcosa, evidentemente, è andato storto.

Così tra annichiliti davanti a Call of Duty, devastatori di librerie, tra europeissimi e giovani volontari della Jihad reclutati sul web, riserve di rivoluzionari da tastiera, indifferenti, non tesserati, mai schierati e un filo pretenziosi barbari giovanotti, mi tengo la favola reale di un giovane che per amor di patria, si diede fuoco sulle scale, chiedendo ai miei coetanei, con la voce rotta dall’amarezza, in un’accorata preghiera, ciò che Albert Camus riuscì, nella sua grandezza, a sintetizzare con lucidità: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». Emanuele Ricucci.

NELLE SOCIETA’ DEMOCRATICHE ESISTE CORRISPONDENZA TRA LEGGI E VALORI, di Ernesto Galli dlla Loggia

Pubblicato il 13 gennaio, 2016 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »

Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli — per giunta uno scienziato di vaglia — si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto.

A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che «la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi». Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi «nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi». Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?).

Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano «regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi», sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece — secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce — auspicherei il contrario.

Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. «Le leggi vengono discusse dalla politica» scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società — e tanto più direi nelle società democratiche — tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata).

L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della «filosofia del parmigiano», cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che «ogni cultura non è mai unica», come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui «buchi neri» o a dire la mia sugli anelli di Saturno.

Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese — quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa — cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere.

Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una «tolleranza serena delle diversità», della «convivenza pacifica», di «un senso civico comune», di «una nuova identità plurale»? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando?

La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure «superstizioni» che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai «migliori studenti», come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre — che bello! — in una strada da qualche parte «i giovani di tutto il mondo si parlano ». È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo. Ernesto Galli della Loggia, Il Coriere della Sera, 13 gennaio 2016

DUE CAPITALI NON FANNO UNA NAZIONE: IL DUALISMO FRA ROMA E MILANO

Pubblicato il 30 novembre, 2015 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

La chiusura dell’Expo (dopo il successo che sappiamo) e la contemporanea apertura del processo di Mafia Capitale (con tutti i retroscena che in gran parte invece ancora non sappiamo) hanno riproposto la dualità Milano-Roma: naturalmente tutto a vantaggio della prima. Anche se il modo in cui tale dualismo viene ancora oggi rubricato – «capitale morale» da un lato, «capitale politica» dall’altro: ed è ovvio da che parte sia il primato – è uno stereotipo che non spiega molto.

In realtà, quello tra Milano e Roma non è un dualismo tra due città. È il dualismo tra due pezzi della storia d’Italia, che lo Stato nazionale non è finora riuscito a rimettere insieme, e che forse mai riuscirà. Anche perché mentre Milano costituisce la parte di un insieme più vasto, Roma, al contrario,
è totalmente un caso a sé. E proprio in questa sua assoluta specificità sta tra l’altro l’origine dei suoi mali attuali: forse addirittura della loro irrimediabilità.

Roma non ha mai conosciuto la dimensione municipale di cui Milano è stata ed è, viceversa, un esempio tra i maggiori nella Penisola (che, come si sa, ne annovera numerosissimi altri, tutti concentrati nel Centro-Nord). Né è mai stata la capitale di un vero Stato regionale come Napoli o Torino, che proprio per questo, infatti, sono le uniche e vere rappresentanti storiche della tradizione statale italiana. Lo Stato pontificio d’altra parte è rimasto nei secoli un puro attributo patrimoniale della Santa Sede, sia pure con una significativa capacità d’innovazione. Capitale di nulla, Roma ha perciò visto da sempre la propria identità legata in modo indissolubile a una dimensione transnazionale, tendenzialmente mondiale. Il rapporto di Roma con la Chiesa è così profondo, consustanziale, infatti, proprio perché esso ripete quello con l’impero dei Cesari: la Città e il Mondo. Nella Chiesa Roma vede il solo referente rimasto di quella tensione all’universalità che sente intimamente sua.

Legata alla Santa Sede, e al tempo stesso luogo delle più celebri rovine d’Europa, Roma è rimasta nei secoli una sorta di città santuario, una meta di pellegrinaggi sia religiosi che laici. Priva di una vera identità civica (e quindi di un possibile patriottismo civico), il suo popolo, nella sostanza, è stato nei secoli una plebe di servitori, legata a una funzione di servizio per il turismo confessionale e culturale. All’altro estremo della scala, l’aristocrazia. Ma priva di una vera corte, tenuta lontana da veri compiti di governo, impossibilitata a servire in un vero esercito, essa è sempre rimasta particolaristica e feudale nell’animo, con frequenti tratti di rusticità che le venivano dal suo stretto rapporto con il contado. Che erano poi i medesimi tratti dominanti nella cerchia dei suoi amministratori, dei mercanti di campagna, degli alti dipendenti laici del Vaticano, il «generone». Chi voglia farsi di tutto questo un’idea più precisa non ha che da leggere i sonetti di Belli, il massimo testo di sociologia scritto sulla Città dei Papi. Nei quali non a caso, però, non compare mai una figura che possa dirsi quella di un vero borghese. La borghesia romana, infatti, l’hanno cominciata a formare dopo il 1870 gli impiegati piemontesi dello Stato italiano. Il Vaticano, dunque, e poi lo Stato: insomma la politica, il potere. È stata costituita da questi materiali la vera cultura civica, se così può dirsi, della Roma contemporanea. La quale, pur essendo sede della statualità italiana, non ha però mai avuto nulla in comune con quella cultura dello Stato che si esprime tipicamente nella legge e nell’idea di un ordine. Per Roma lo Stato è solo la politica e il potere, questi solo contano. Per il resto lo Stato le è totalmente estraneo: da qui la dimensione di a-legalità che le è propria e che, come si capisce, è solo a un passo dall’illegalità.

Ma a ben vedere non è la stessa estraneità – sia pure di origine e natura assai diverse – che verso lo Stato nutre Milano? Qui è innanzi tutto la cultura del fare, dell’intraprendere, del commercio, che scava un invalicabile fossato tra la propria innata praticità e l’astrattezza procedurale della macchina burocratico-statale, tra il suo quotidiano tirarsi su le maniche e l’apparente vuotaggine dell’attività politica, per tanta parte fatta necessariamente di parole. La «moralità» di cui Milano si vuole capitale, più che esibizione di una superiore onestà dei singoli (Dio sa quanto difficile da dimostrare), è innanzi tutto rivendicazione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del Paese desideroso di bruciare le tappe, insofferente delle procedure: chi vuole rappresentare l’operosità modernizzatrice, chi come un vero imprenditore desidera vedere tornare il conto dei propri voti in tempi brevi, chi la pensa come il luogo elettivo dove bisogna sfondare per conquistare l’Italia. Come Craxi trent’anni fa, come oggi Matteo Renzi: il quale infatti a Milano ci va di continuo, vi fa grandi progetti, le promette soldi in quantità, qui si spende per trovarle un sindaco. Mentre di Roma visibilmente gli interessa poco, preferendo lasciarla alle infami risse del Pd e al Papa con il suo Giubileo. Su Roma, in realtà, nella storia dell’Italia novecentesca, ha puntato solo Mussolini, che nelle sue allucinazioni di autodidatta romagnolo carducciano-nicciano vi vedeva il piedistallo di un ruolo suo e dell’Italia, proiettato non a caso sulla scena mondiale (l’Italia essendosela già presa con la famigerata «marcia»). Dopo Mussolini c’è stato solo Andreotti. Ma in questo caso non già perché egli avesse di mira il mondo, bensì perché per Andreotti ciò che veramente importava, alla fine, non era né l’Italia né altro: era solo il Vaticano.

Dunque il Municipio e l’Urbe-Mondo. Il fare senza lo Stato da un lato, e dall’altro la politica senza legge e senza ordine. Milano e Roma: questo dualismo tuttavia non fa una nazione. E infatti per molti aspetti il problema storico dell’Italia, così come alcuni problemi più concreti dell’oggi, vengono per l’appunto dalla difficile, forse impossibile, integrazione delle sue due più importanti città nella dimensione nazionale. Una dimensione che nello sfacelo attuale dell’Unione Europea, forse, però, non è molto saggio continuare anche idealmente a ignorare. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 novembre 2015

IL PD E ROMA, L’ETICA PERDUTA E LA CATASTROFE DI UNA INTERA CITTA’ , di Enesto Galli della Loggia

Pubblicato il 26 marzo, 2015 in Costume, Politica | No Comments »

Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: martedì è stato indagato Maurizio Venafro,  capo di Gabinetto del governatore del Lazio, nell’ambito dell’inchiesta di Mafia Capitale (Ansa) Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: martedì è stato indagato Maurizio Venafro, capo di Gabinetto del governatore del Lazio, nell’ambito dell’inchiesta di Mafia Capitale (Ansa)

La catastrofe del Pd romano non nasce né oggi né ieri. Essenzialmente è l’esito della catastrofe di un’intera città. Se si vuol cominciare a capire basta passeggiare una mattina per una delle sue tante strade commerciali, dove si addensano negozi e bancarelle di ambulanti. E osservare in mezzo alla confusione di quel mercatino all’aperto, dei clienti davanti alle vetrine, l’incedere lento, annoiato e superbo, del vigile e della vigilessa di turno. Furgoni e automobili stazionano regolarmente in sosta vietata, in doppia fila, ma per tutto questo i due non hanno occhi, perlopiù non se ne curano. Loro entrano nei bar o nei negozi, ai cui affari certo non nuoce che si possa arrivare in macchina fino al loro uscio; parlottano amichevolmente, celiano, scambiano battute con i proprietari, escono. Talvolta con qualcosa sotto il braccio. Passano alla bancarella dell’ambulante, quasi sempre extracomunitario. Adesso sui loro volti si disegna un certo cipiglio, il gesto si carica d’autorità, nelle poche parole il tu è d’obbligo. Il vigile e la vigilessa palpano la merce, i golfini, le borse, gli stracci. Capita anche che tirino fuori qualcosa con dei moduli, che impugnino una penna. Ma prima di scrivere ci sono sempre lunghi parlottii, conciliaboli. Alla fine quasi mai il modulo viene riempito. Il giro può proseguire. Questa, vista dal basso, è Roma, la capitale d’Italia. Dove il corpo dei Vigili Urbani insieme ai funzionari degli uffici comunali che di essi più si servono (l’Urbanistica, l’Edilizia, il Commercio) sono da sempre oggetto di inchieste e di denunce d’ogni tipo.

Ma come del resto i suddetti funzionari, loro, i vigili, sono sempre lì, indomabili, zazzeruti, a volte lavativi, quasi mai sulla strada. E al pari dei taxisti, intoccabili. Ne sanno qualcosa quei loro pochi comandanti che, poveri illusi, hanno creduto di poter cambiare le cose. Sono l’emblema di un Comune dove tutto sembra avere un prezzo (anche per riscuotere un mandato di pagamento pare che si debba lasciare una tangente). Precipitato nella voragine delle spese e dei debiti incontenibili, dell’inefficienza più spaventosa dei suoi servizi pubblici — oltre un terzo dei cui mezzi sono ogni giorno fermi per mancanza di pezzi di ricambio, con la raccolta dei rifiuti ormai in certi quartieri quasi inesistente —. Servizi pubblici che un sindaco di memorabile nullità — Gianni Alemanno — affidò solo pochi anni fa a dei veri gaglioffi, capaci di assumere in poco tempo oltre mille, dicesi oltre mille, tra parenti, amanti, mogli e amici.

Un Comune, quello di Roma, nel cui Consiglio sono ormai decenni che non mette più piede quasi nessuna persona disinteressata, appartenente all’élite sociale e culturale della città, desiderosa di offrire le proprie competenze, vogliosa di impegnarsi per il bene pubblico. Niente: da decenni quasi solo vacui politicanti di serie B, faccendieri, proprietari di voti incapaci di parlare italiano, quando non loschi figuri candidati a un posticino a Regina Coeli. Del resto non è a un dipresso così dappertutto? L’Italia del federalismo e dei «territori» non è forse, con qualche eccezione, tutta più o meno nelle mani della marmaglia? E sempre di più della malavita. Con le sue potenti risorse organizzative e finanziarie la delinquenza calabro-napoletana ha messo al proprio servizio la delinquenza romana. E dopo aver piazzato qui il grande mercato dei suoi traffici di droga, ha deciso di fare delle attività commerciali e produttive dell’Urbe lo strumento del riciclaggio dei suoi soldi. Il rapporto con l’amministrazione e la politica cittadina è stato un momento decisivo di questa infiltrazione. La vasta pratica corruttiva da tanto tempo fisiologica negli uffici comunali, della Provincia, della Regione, ma tutto sommato fino ad allora di non grande cabotaggio, si è trovata esaltata e moltiplicata. È diventata pervasiva. E per un effetto necessario, sempre più contigua a una dimensione crudamente criminale. Ormai il cuore della ricchezza cittadina è questo. E intorno ad esso è cresciuto a Roma un ceto più o meno vasto di professionisti, di «consulenti», di personaggi introdotti in alcuni punti chiave dello Stato, di veri e propri delinquenti in guanti bianchi, ma anche di uomini-ombra più di mano, tipo Salvatore Buzzi, la cui attività sostanziale è ormai quella di intermediare il malaffare con la decisione politico-amministrativa: che si tratti di un grande appalto o una di una Ong per i migranti. Con un tenore di vita, di abitazioni, di auto, di consumi, la cui origine illegale si respira nell’aria.

Il Pd arriva a questo punto. Il Pd era l’unico partito romano che conservava almeno in parte un rapporto con la base popolare, quella del vecchio Partito comunista: e probabilmente proprio questo è ciò che l’ha perduto. Una base popolare dai tratti spesso plebei — chi ha una certa età se lo ricorda — che per forza era contigua a persone e cose non proprio in regola con la legalità (ladruncoli, piccoli spacciatori, topi d’auto): ma finché a sovrintendere ci sono stati il controllo etico-politico del partito e la decisione inappellabile dei vertici in materia di cariche e di mandati elettorali, nessun problema. Come si sa, però, a un certo punto tutto questo è svanito. È accaduto allora come se quella base popolare fosse rimasta affidata a se stessa e alle regole spesso demenziali (vedi primarie «aperte») ed estranee della nuova democrazia interna. È allora che si è aperto il varco: non avendo più un vero corpo, il partito non ha avuto più anticorpi.

Mentre il Pd si confermava nella città come il partito di fatto stabilmente dominante, con tutte le possibilità di affari connesse a un tale ruolo, una parte dei suoi uomini ha capito che esso poteva essere assai utile per riempirsi le tasche. Lo ha capito anche la delinquenza più sveglia e più attrezzata, che è stata pronta a stabilire rapporti con la sua nuova classe, a mettere a libro paga persone, a costruire filiere, a organizzare complicità e ricatti. Così, servendosi dei mezzi del clientelismo politico più ovvi, è cominciata la scalata al Pd da parte del malaffare. Lo ha detto bene in un rapporto Fabrizio Barca, dopo aver indagato quanto accaduto nei circoli dem della Capitale: il Pd è diventato «un partito cattivo, ma anche pericoloso e dannoso», i suoi iscritti sono troppo spesso «carne da cannone da tesseramento». Matteo Renzi è avvertito: questa è Roma, la capitale dell’Italia del cui governo egli è a capo. Questo è — qui ma non solo — il partito di cui egli è segretario. Ma a questo punto, sia chiaro, non servono le parole e neppure l’accetta. Serve il lanciafiamme . Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 26 marzo 2015

……E’  una denucia tanto drammatica quanto circostanziata. Qualcuno, ai piani alti del Campidoglio si darà una mossa? D’altra parte,  quel che accade a Roma è in grande ciò che accade ovunque, dal più grande al più piccolo dei comuni della nostra Repubblica,  non più fondata sul lavoro ma sul malaffare  e sulla cui bandiera, accanto al  longanesiano motto  “tengo famiglia” è stato aggiunto l’altro: “chi non ruba coglione è”. Ne è meno drammatica l’altra denuncia di Galli della Loggia allorquando  evidenzia che in Campidoglio oramai non siede più una classe dirigente “onorevole” (ai consiglieri comunali di Roma spetta da sempre il titolo di “onorevole”) ma quella che nasce e vivacchia ai bordi della politica, che di politica vuol vivere e che della politica si serve senza usarla  per il bene comune. In anni ormai  lontani abbiamo conosciuto molti consiglieri comunali di Roma, ne ricordiamo uno con grande affetto,  il prof. Nicola Trani, oriundo di Altamura, oratore fervido e fluente, spesso  partecipe di manifestazini pubbliche  nelle nostre piazza,  che viveva il suo ruolo con una passione e una dedizione fuori del comune ma anche  con altrettanta modestia perchè si considerava non un privilegiato ma un servitore della città che lo ospitava che egli serviva  con spirito di servizio.  Proprio l’altro ieri Pino Pisicchio, un giovane vecchio della politica che abbiamo sempre ammirato,  in una intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, presentando il suo ultimo saggio intorno allo stessa tema, sottolineava come, senza volerla rimpiangere, nella prima repubblica le classi dirigenti si formavano nelle sezioni di partito,  imparando dal basso l’azione della politica per giungere ai piani più alti con l’esperienza utile al governo della cosa pubblica nel  suo accento più eticamente alto: servire ed operare per il bene comune. Oggi la politica è solo  uno strumento per ottenere privilegi e vantaggi, utilizzato o da spregiudicati vagabondi che mirano solo a vantaggi personali o da ridicoli comparse che  spesso considerano la politica  un palcoscenico dove esibirsi per soddisfare la propria vanità (ci viene in mente una  certa assessora  che produce incontri per lo più riservati a pochi  amici e compari al solo scopo di stampare il proprio nome in fondo a locandine  che nessuno legge  e che un giorno o l’altro metterà la firma anche in fondo ad un rotolo di carta igienica) senza alcun beneficio per la comunità. Per chi, e sono tanti, i più,  la politica l’ha amata e vissuta con  grande passione e profonda onestà , per chi l’ha sempre considerata non uno stuemento per se stesso ma per servire la comunità è una cocente delusione  dover prendere atto di quanto denuncia oggi Galli della Loggia e ogni giorno ci raccontano le cronache  dei giornali e delle  tv,  e ancor più spesso quelle giudiziarie, queste ultime sempre più frequenti anche di quelle gornalistiche. g.

LA “BELLA” MORETTI RITRATTA DA GIANCARLO PERNA

Pubblicato il 23 marzo, 2015 in Costume, Cronaca | No Comments »

La graziosa Alessandra Moretti è preda di un narcisismo così acuto da preoccupare il Pd. In corsa per la presidenza della Regione Veneto, preferisce dire quant’è bella

e brava  piuttosto che parlare di politica. In diverse occasioni interviste, YouTube, apparizioni tv ha fatto sperticate lodi di sé, proponendosi a modello di quarantenne (ne farà 42 in giugno) che sa quel che vuole.

«Io» ha affermato «appartengo a una stirpe di politiche più belle, più brave, più intelligenti», agli antipodi della protozoica Rosy Bindi. «Vado dall’estetista ogni settimana e ci faccio qualsiasi cosa: le mèche… la tintura… per tacere di altro. Ho deciso di prendermi cura di me. Dovrei forse stare coi peli e i capelli bianchi? Sto attenta alla linea e ogni mattina accompagno i bambini a scuola, loro in bicicletta e io correndo». Ha poi concluso: «Il mio stile è Ladylike».

ALESSANDRA MORETTI LADYLIKE

Da allora, Moretti è Ladylike, dall’inglese «signorile, raffinata». Quando parla di sé dice «Ale», diminutivo di Alessandra. «Ale pensa, Ale vuole, Ale fa». È stato Matteo Renzi ha raccontato a volerla candidata in Veneto inducendola a lasciare il seggio di Strasburgo sei mesi dopo le elezioni Ue del giugno 2014. «”Ale abbiamo bisogno di te” mi ha detto e Ale non si è potuta tirare indietro». D’altro canto, ha spiegato, «io sono la migliore». Un genio innato, il suo, che non si limita alla politica giacché è sempre lei a farlo sapere «sono anche bravissima a cantare e in mille altre cose, per esempio in cucina». E, prima che qualcuno glielo chiedesse, ha chiarito: «Il mio segreto? La passione».

Esilarante. Va detto che questa verve da vedova allegra piace. La candidata Moretti non tedia gli elettori con muffosi discorsi politici il che, con l’aiuto degli scontri nel centrodestra, può favorirne la vittoria alle urne. Il rovescio della medaglia è che il suo ego da madamin si presta agli sfottò. E poiché non c’è nulla di più insidioso del ridicolo, il Pd lugubre per antica tradizione è corso ai ripari stringendole attorno un cordone sanitario.

Al fratello, Carlo, da sempre suo consigliere, sono stati affiancati secondo indiscrezioni giornalistiche gli esperti di Dotmedia, l’agenzia fiorentina di comunicazione, che ha confezionato dagli esordi l’immagine di Renzi. Tutto il repertorio renziano, look, battute, smorfie, nasce infatti, a quanto pare, dalla collaborazione di questi creativi. A prescindere dai risultati, che ciascuno giudica come crede, la stessa squadra è ora incaricata di imbrigliare Ladylike.

Chi scrive, dubita che ci saranno risultati. Ale è una psicovanesia endocrina irresistibilmente attratta dal centro della scena. Occhi azzurri, un bell’ovale che ricorda la Barbara Bouquet dei tempi d’oro, Ale non arretra davanti a nulla per ottenere il risultato. Ne sa qualcosa il candido Pier Luigi Bersani, principale benefattore della Moretti, che è stato da lei fumato come un sigaro e abbandonato come un mozzicone.

Pierlù le aveva dato tutto, dalla nomina a portavoce nella campagna elettorale 2013, al seggio parlamentare. Fu lui il primo a mandarla in tv dov’è da tre anni una presenza debordante e dove ha trovato nel presentatore Massimo Giletti il nuovo amore dopo un breve matrimonio con due figli, Guido e Margherita, di otto e sei anni. All’epoca, guai a chi le toccava Bersani, arca di virtù, guida imperitura del Pd e «bello come Cary Grant». Ma quando, vinte di una spanna le elezioni, Pierlù si dimostrò incapace di fare il suo governo e imporre il Capo dello Stato che voleva lui, la pupilla si disamorò. Capì che lo statista di Bettola rappresentava ormai il passato e che per l’avvenire urgeva cambiare cavallo.

alessandra moretti giletti alessandra moretti giletti

Ale tradì platealmente Bersani nel giorno più nero: quel 18 aprile 2013 quando il destino dell’infelice era appeso al voto su Franco Marini, suo candidato al Quirinale. Se l’Aula lo avesse accontentato, Pierlù avrebbe ancora avuto un futuro. Se no, finiva nel Museo delle cere. Moretti disobbedì, votò scheda bianca e condannò il suo capo agli archivi della piccola storia italiana.

Pierlù ne fu straziato e le tolse il saluto. Lei fece spallucce cominciò a cercare un nuovo trespolo su cui appollaiarsi.

Guardò alla destra del Pd e adocchiò Renzi che fino ad allora aveva combattuto per conto di Bersani prendendolo anche a male parole: «Un misogino, costruito al tavolino e maschilista». Gli lanciò segnali a distanza e li condì di moine. Ma il paravento di Firenze, ancora null’altro che sindaco, reso avvertito da come aveva bidonato l’altro, si guardò bene dall’abboccare all’amo. Allora Ale guardò a sinistra, puntando sul telegenico Gianni Cuperlo, opposto antropologico di Renzi e suo rivale. Anche il biondo triestino rabbrividì al corteggiamento, ripagandolo con freddezza inversa alle turbinose lodi che Moretti gli tributava. «Gianni, che rappresenta la sinistra berlingueriana» disse lei grosso modo «è il più vicino alla mia storia politica».

Era, ovviamente, una balla sesquipedale e interessata. Con la sinistra sinistra, Ladylike non ha mai avuto a che fare. Di lì a poco, finirà infatti sotto l’ala di Renzi del quale, dopo averlo svillaneggiato, è diventata oggi la sviolinante reggicoda: «Se fallisce lui, fallisce tutta la nostra generazione».

Anche i suoi lontani esordi sono stati più moderati che di sinistra. Nata e vissuta a Vicenza, la bella piddina è figlia di due insegnanti. Il babbo, marchigiano, è stato sindacalista della Cgil-Scuola, ma mai comunista. Dopo la laurea in Legge, Ale si abbandonò alla pacifica routine dell’avvocato. Il ghiribizzo della politica le prese trentaquattrenne, nel 2007, candidandosi per le Provinciali con il centrodestra in una «lista generazionale» Under 35 che sosteneva Giorgio Carollo, un ex dc legato a due pezzi da novanta del Veneto bianco Rumor e Bisaglia -, poi approdato alla corte di Silvio Berlusconi. Quando Ale ne incrociò la strada, Carollo era già sceso anche dal carro del Cav per fare il centrista in proprio.

L’avvocatessa fu trombata ma lasciò una traccia in un spot elettorale, tuttora rintracciabile sulla rete, nel quale tesse l’elogio del centrismo con la stessa eloquenza con cui oggi inneggia alle visagiste. «Il centro» disse, occhioni puntati sulla telecamera «è il luogo dove gli estremismi non trovano spazio, il luogo ideale per una politica concreta». Niente a che vedere con ciò che diceva per accattivarsi Cuperlo. È che pur di vendersi, Ladylike è pronta a tutto. Ieri come oggi.

Fu l’anno dopo che entrò decisamente in politica. Cambiata casacca, si mise in lista con Achille Variati, ex dc traslocato nel Pd e aspirante sindaco di Vicenza. Eletta con lui ne divenne il vice e, di lì a poco, ebbe l’incontro che decise della sua vita. Spedita da Vairati a Milano per una riunione di amministratori locali, fu notata da Filippo Penati, ras meneghino di Bersani. Costui ne apprezzò le forme e la grinta. Avvertì il capo a Roma di avere trovato la tipa tosta che faceva per lui nelle comparsate da Vespa & co. Bersani la prese con sé e si scavò la fossa. Giancarlo Perna, Libero, 23 marzo 2015

……Questa qui  ci ricorda qualcuna di nostra conoscenza:  identica faccina da cenerentola, identica capacità di mentire, identico volume di ipocrisia, identica ipertendenza al narcisismo egocentrico, identico  superpieno di vacuità coniugata al nullismo,  identica assoluta mancanza di etica e di morale, cui si unisce una forte vocazione al lecchinaggio  e all’esibizionismo perchè  anche lei è  una  “psicovanesia endocrina irresistibilmente attratta dal centro della scena”.

VENT’ANNI DI SOLITUDINE, di Michele Ainis

Pubblicato il 4 gennaio, 2015 in Costume, Politica | No Comments »

L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo) L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo)

Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?

A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri – che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo – viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.

Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.

Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa – ahimé – la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2015

…..Arridateci la prima Repubblica!

NATALE, ELOGIO DI QUELLO VERO, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 24 dicembre, 2014 in Costume, Il territorio | No Comments »

Fino a quando le società europee oseranno ancora chiamare Natale il Natale, e non lo trasformeranno in qualcosa come « Season’s holiday » (Vacanza di stagione), sul modello ormai invalso nei politicamente correttissimi Stati Uniti, dove per l’appunto non si mandano più auguri di Buon Natale ma « Season’s greetings »?
Anche da noi, infatti, sta succedendo precisamente questo: sta ormai prevalendo – o ormai è già prevalsa – un’interpretazione nuova della libertà religiosa. Secondo la quale questa non consisterebbe più solo in una libertà – quella per l’appunto riconosciuta a chiunque di osservare la religione che preferisce, nei modi che preferisce, cercando altresì di divulgarla o di rinnegarla come preferisce – bensì, altrettanto essenzialmente, anche in un divieto . Essa comporterebbe cioè anche la proibizione per qualunque religione di trovare posto in qualsivoglia ambito pubblico, per paura che ciò possa offendere chi non fosse un suo seguace. Fede e culto, insomma, sono ammissibili ma solo a un patto: di restare un fatto privato. La società, lo spazio sociale, invece, devono restare nel modo più rigoroso liberi da ogni presenza o richiamo di tipo religioso. E proprio per questo – come è accaduto – un crocefisso in un’aula, o un presepe in una scuola, possono divenire oggetto di un esplicito divieto.

Tutto bene se non ci fosse un trascurabile particolare. E cioè che la religione – e poiché parliamo dell’Europa diciamo pure il Cristianesimo – ha occupato un posto enorme in quel decisivo ambito pubblico che fino a prova contraria è rappresentato dalla storia del continente. La storia: vale a dire tutto il vastissimo insieme dai profondissimi echi emotivi e psicologici, rappresentato dal folklore, dalle tradizioni, dalle feste, dalle abitudini quotidiane di ogni tipo di questa come di ogni altra parte del mondo. Vorrà pure dire qualcosa o no – tanto per fare un esempio – che almeno alcune decine di migliaia di località italiane e la maggior parte degli italiani portano il nome di un santo? E non vale, mi sembra, obiettare che ormai non sono in molti a dirsi esplicitamente cristiani. È vero. Ma con le sue mille propaggini l’universo storico-religioso resta ancora oggi un cruciale deposito d’identità collettiva profondamente introiettata, che si è trasfusa in una miriade d’identità individuali.

È per l’appunto in relazione a questo universo storico-identitario – di cui il fatto religioso costituisce un sostrato decisivo – che nelle società europee si sta delineando l’ennesima spaccatura tra masse ed élite . Tra una maggioranza della popolazione che, seppure in gran parte non condivida più lo sfondo trascendente di quell’universo, tuttavia ancora sente con esso un rapporto tenace, ancora lo percepisce come vitalmente proprio, e dall’altra parte la maggioranza delle élite . Le quali, viceversa, sono rispetto ad esso indifferenti quando non insofferenti. Si tratta di una frattura che riguarda tutto l’universo identitario nel suo complesso (e dunque anche i temi decisivi della nazione, della sovranità nazionale e insieme della lingua). Cioè il vasto insieme del passato che, aggredito oggi capillarmente dalla globalizzazione, vede i «felici pochi» benevolmente disposti a prenderne le distanze, a lasciarne andare via interi pezzi, mentre gli « have not » non ci stanno e fanno resistenza. Sicché in tal modo le élite – come da tempo si nota specialmente nei Paesi deboli come il nostro – divengono tendenzialmente «progressiste», spregiudicatamente «moderne», mentre le masse sempre di più tendono oggettivamente ad apparire «reazionarie». Quelle masse che però quando festeggiano il Natale chiamandolo ancora Natale, festeggiano in qualche modo, pure se non lo sanno, una storia che finora era di tutti. Ernesto Galli dellaLoggia, Il Corriere della Sera, 24 dicembre 2014

……Come non essere d’accordo con Galli della Loggia?  E come non sentirci parte della “massa” piuttosto che della “elite”? Dove massa non vuol dire reazionario ma conservatore nel senso prezzoliniano del termine. g.

TANTE SPERANZE (QUASI) TRADITE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 20 novembre, 2014 in Costume, Politica | No Comments »

Jobs act, legge di Stabilità, Italicum, illazioni sul Quirinale, e poi tutto il resto che ogni giorno ammannisce la politica italiana, fatta di progetti di legge discussi per anni, di sentenze del Tar, di pronunce del Csm, di dibattiti tra i partiti più o meno sempre eguali. Ma non è solo la politica italiana. È questa in genere la politica democratica: fatta di riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri. E infatti finora è stata più o meno quasi sempre questa la politica anche negli altri Paesi d’Europa: in quell’Europa dove, non a caso, siede oggi alla testa dell’Unione un grigio politicante lussemburghese come Jean-Claude Juncker, abile a restare per decenni al potere tra servizi segreti ed evasori fiscali.

Ma almeno nel nostro continente, e qui da noi in modo particolare, tutto l’universo storico in cui questa politica delle democrazie – grigia e costosa, ma per molto tempo efficace – è stata iscritta, scricchiola. Il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali: aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha, così come la differenza tra i destini dei singoli o tra ciò che significa vivere in un luogo o in un altro, mentre la secolarizzazione aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità). In tutta Europa, insomma, si profila una crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo sbando, mentre si afferma dovunque e ad ogni occasione un rabbioso sentimento di rivolta contro le élites .

L’Italia vede tutti questi fenomeni aggravati dalla congenita inconsistenza, non solo organizzativa, del nostro Stato – mangiato dal partitismo, dalle corporazioni, dall’ordinamento regionale e dalla malavita, spesso uniti in un unico intreccio – corroso dalla sostanziale latitanza della legge. La disintegrazione ormai fisica della Penisola a cui assistiamo in queste ore appare quasi il segno di una metafora e insieme di un presagio. Naturalmente di fronte a tutto ciò c’è chi pensa che ogni cosa finirà comunque per aggiustarsi (anche se non si sa come). Ma forse è più ragionevole chiedersi se l’Europa che abbiamo conosciuto non sia ormai entrata nella prospettiva di una vera e propria nuova fase storica, segnata tra l’altro dai terremoti che dal Medio Oriente all’Europa sud orientale, all’Africa subsahariana, stanno sconvolgendo tutti gli scenari nelle nostre vicinanze. Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida. Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente « discutidora » che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.

Alla fine, riscoprire il «politico» dovrebbe voler dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica. La sfida che essa dovrà affrontare in futuro consisterà probabilmente nel restare se stessa, con i suoi principi costitutivi – il consenso, le libertà individuali e il «governo per il popolo» – ma avere il coraggio di osare, di uscire dalle forme del suo stesso passato, di trovarsi vesti nuove, un nuovo soffio ispiratore.

I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione. E io credo che proprio in quest’ottica molti italiani, con maggiore o minore consapevolezza, hanno guardato a Matteo Renzi. L’impressione, però, è che il presidente del Consiglio non sia riuscito finora a compiere lo scatto necessario per andare nella direzione auspicata. Che egli, ad esempio, fatichi molto a mettersi al di sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle schermaglie; che neppure per un giorno riesca a sottrarsi all’attrazione fatale del triangolo romano delle Bermuda (Parlamento – Palazzo Chigi – largo del Nazareno) e al gorgo del chiacchiericcio politicistico che vi staziona. La sua eloquenza – scoppiettante quando si trattava di mettere nell’angolo gli avversari da «rottamare» – non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica. Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa. Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente, esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di peggio. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 20 novembre 2014