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LO SFORMATO LEGISLATIVO:OVVERO LE LEGGI CHE LA GENTE NON CAPISCE

Pubblicato il 4 agosto, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

D’estate, puntualmente, fioccano i divieti. L’ultima invenzione è il porto d’armi (pardon, di sigarette) in automobile, che ha impegnato in singolar tenzone le ministre Bonino e Lorenzin. Ma la pioggia di regole ci bagna tutto l’anno, e nessun ombrello è abbastanza largo da proteggerci. Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: avremmo in circolo 21.691 leggi dello Stato. Tuttavia la stima è viziata per difetto, e non solo perché il trascorrere del tempo ci ha recato in dote nuovi acciacchi normativi. Dobbiamo aggiungervi le leggi regionali (all’incirca 30 mila). Quelle delle due Province autonome (il sito web della Provincia di Bolzano ne vanta oltre 2 mila). Nonché il profluvio dei regolamenti: 70 mila.

Troppo? No, è troppo poco. Nel Paese in cui perfino i carabinieri sono dotati di un ufficio legislativo, in questo Paese senza autorità ma con cento authority, le sartorie del diritto s’incontrano a ogni angolo di strada, e ciascuna ha un abito normativo che ci cuce addosso. Il 18 luglio il Garante della privacy ha varato un provvedimento sulle intercettazioni: 41.196 caratteri. Il 4 luglio ne aveva licenziato un altro sul contrasto allo spam: 7.767 parole. Risale invece a maggio il regolamento della Banca d’Italia sulla gestione collettiva del risparmio: 171 pagine. Senza contare statuti e regolamenti comunali (a Parma ce n’è uno sulla Consulta del verde, un altro dedica 14 articoli al Castello dei burattini). O senza ricordare le mitiche ordinanze dei sindaci-sceriffi, dal divieto della sosta di gruppo in panchina (Voghera) a quello dei bagni notturni (Ravenna), fino al divieto d’imbrattare i cartelli di divieto.

Ma di che pasta è fatto questo sformato normativo? Proviamo ad assaggiare il menu del governo Letta, accusato ingiustamente di battere la fiacca, mentre ha messo in forno 20 provvedimenti negli ultimi 30 giorni. Il più importante è il «decreto del fare», dove figura un capitolo sulle semplificazioni burocratiche. Vivaddio, era ora. Peccato tuttavia che per semplificare il decreto spenda 93 commi, oltretutto scritti nel peggior burocratese. Così, il comma 1 dell’articolo 52 si suddivide in 11 punti contrassegnati in lettere (dalla A alla M); la lettera I s’articola poi in 3 sottopunti, numerati con cifre arabe come gli articoli; e il sottopunto 2 si scinde in altri 2 sotto-sottopunti, ciascuno distinto da una lettera.

Diceva Seneca: la legge dev’essere breve, affinché possa comprenderla pure l’inesperto. E Tacito, a sua volta: quando le leggi sono troppe, la Repubblica è corrotta. Ecco, è questo doppio male che in Italia offusca il senso stesso della legalità. Sono le 63 mila norme di deroga, che mettono in dubbio la residua sopravvivenza della regola, con buona pace del principio d’eguaglianza. Sono i 35 mila reati che ci portiamo sul groppone, e che la Cancellieri non ha mai cancellato. Sono i 66 mila detenuti stipati in 47 mila posti letto, al cui destino il nostro Parlamento è indifferente, mentre viceversa grazia i colpevoli di stalking o di abuso di ufficio, con un emendamento approvato l’altroieri. Ed è, in ultimo, l’incertezza del diritto, che trasforma ogni poliziotto in giudice, ogni giudice in un legislatore. Perché in questo caso funziona un paradosso: le troppe leggi s’elidono a vicenda, dal pieno nasce il vuoto. E nel deserto dei valori torreggia uno Stato ficcanaso, che adesso vorrebbe perfino mandare a scuola chi possiede un cane, per insegnargli la buona educazione. Che maleducato. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 agosto 2013

LA BUROCRAZIA ITALIANA, OVVERO LA RAGNATELA DEL NON FARE, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 14 luglio, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

All’apparenza non ci sono spiragli. Il processo di affondamento dell’economia italiana non appare arrestabile. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ( Corriere , 12 luglio) hanno ben riassunto la situazione. Per bloccare il declino occorrerebbe tagliare tasse e spesa pubblica. Invece, la spesa continua a crescere e le tasse pure. La società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione (l’oppressione del corpo sociale mediante soffocanti lacci e lacciuoli regolamentari), anch’essa in aumento. Quest’ultimo aspetto, la burocratizzazione, merita uguale attenzione degli altri due (tasse e ampiezza della spesa pubblica) con cui ha una stretta connessione.

Al centro del triangolo c’è un ragno velenoso, forse immortale, quasi certamente immodificabile: la macchina amministrativa pubblica in tutte le sue ramificazioni, centrali, periferiche, eccetera. Una macchina che, mentre impone le sue regole asfissianti al corpo sociale, blocca (coadiuvata da magistrature amministrative che sono, anch’esse, organi vitali dello stesso ragno) ogni possibilità di rovesciare il trend di espansione della spesa pubblica e delle tasse. Spesa pubblica e tasse che forniscono il nutrimento al ragno.

Guardiamo al terzo lato del triangolo, la burocratizzazione. Tutti protestano da anni, in tutti i comparti sociali, per l’eccesso di burocrazia, nessuno riesce a fare niente per limitarla: a ogni passo che, con grandi sforzi, viene fatto per semplificare, ne seguono dieci che ricomplicano di nuovo tutto. La burocratizzazione crea una ragnatela normativa che, mentre soffoca la società, funziona da rete di protezione contro qualunque velleità di tagliare o razionalizzare la spesa. In ogni settore della vita sociale c’è stata, c’è, continuerà a esserci, una proliferazione continua di norme ingarbugliate che appaiono prive scopo, di razionalità e di logica alle vittime ma che uno scopo ce l’hanno: servono all’autoriproduzione degli apparati burocratici. Si pensi a tutti gli interventi amministrativi in quel ramo che potremmo chiamare «industria della lotta agli abusi».

Ampia parte delle normative da cui siamo torturati è prodotta in nome della lotta contro potenziali abusi. Peccato che ottenga esiti opposti. Perché i furbastri e i maneggioni non sono affatto intimiditi da procedure astruse (anzi, sguazzano meglio quanto più regole e procedure sono complicate). Tutti gli altri invece ne sono oppressi e angariati.

Ad alimentare la burocratizzazione che colpisce e avvolge nelle sue spire imprese, università, professioni, eccetera, ci sono interessi e mentalità. Gli interessi sono tanti. Come ha osservato Mario Deaglio ( La Stampa , 10 luglio), più complesse sono regole e procedure, più contenziosi ci sono e più lavoro c’è per ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera). E ci sono, soprattutto, gli interessi dei burocrati e dei loro uffici che dimostrano così di essere vivi e indispensabili nel ruolo di «controllori» del corpo sociale. Tutto ciò comporta, per le vittime, costi materiali altissimi e un enorme spreco di tempo e di energie. Denaro, tempo e energie distolte dalle altre attività.

Oltre agli interessi, ci sono le mentalità, forgiate da competenze e esperienze. Nessuno ne avrà mai la forza politica ma sarebbe vitale eliminare il predominio dei giuristi nell’amministrazione. Occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l’impatto – effetti e costi economici e sociali – di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.
Irrealizzabili fantasie, naturalmente.

La macchina amministrativa è così potente (la sua forza sta nella impersonalità: non c’è una testa che possa essere tagliata) da farsi beffe di qualunque denuncia e di qualunque protesta. La politica (non fa differenza che al governo ci sia Berlusconi oppure Monti oppure Letta) è impotente. Anche ammesso che abbia voglia di provarsi a rimediare, può ben poco contro la forza del ragno. I politici, in realtà, sono un po’ complici e un po’ ostaggi. Per governare (per quel poco che possono governare) hanno bisogno di non inimicarsi l’amministrazione, e soprattutto i suoi vertici. I politici contano, ma meno di quanto pensi il grande pubblico. Funzionano però benissimo come parafulmini. Gli attacchi ai politici di governo per tutto ciò che non riescono a fare non sfiorano nemmeno la macchina amministrativa sottostante, la quale procede, indifferente a tutto e a tutti, con i suoi ritmi, le sue inerzie, le sue opacità, le sue regole interne. L’importante è che nessuno riesca a mettere zeppe capaci di invertire la tendenza della spesa pubblica a crescere (spingendo così sempre più in alto i livelli di tassazione) o a spezzare le catene burocratiche che opprimono la società.

Il sociologo Max Weber, all’inizio del Novecento, pensava alla burocrazia come a una «gabbia d’acciaio» che avrebbe alla fine prodotto la pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia, ne avrebbe svuotato l’anima. In quei termini, la profezia di Weber non si è ancora realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono tutti. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 14 luglio 2013

………Dimentica Panebianco un ultimo eclatante esempio della politica che si intreccia con la burocrazia per rinviare le decisioni. E’ quello della nomina di una commisisone di cosiddetti  saggi (burocrati!) incaricati  di un lavoro che spetta alla politica, cioè alla sua espresisone più istituziionalemtne alta, cioè il Parlamento. Invece quest’ultimo, complici governo e partiti, è stato esautorato a favoe dei saggi che intanto che si ascoltano rinviano. E intanto le riforme e il Paese aspettano. g.

ITALIA: ESAME DI MATURITA’

Pubblicato il 8 luglio, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

La crisi italiana non è soltanto di competitività e di liquidità. È anche una crisi di fiducia. Il governo può e deve prendere misure per sostenere le imprese e favorire l’accesso al credito; ma la fiducia non può essere restituita per decreto.
Fa bene il capo dello Stato a richiamare l’attenzione sul «Paese che non si ripiega su se stesso», e sulle opportunità che lo attendono. Come ha detto Giorgio Napolitano, c’è un’Italia che resiste alla crisi e non si arrende all’idea che il futuro coincida con il destino; e c’è un mondo che guarda all’Italia come alla patria della creatività e della cultura, delle cose buone e delle cose belle. Il mondo globale è un fattore di crisi, perché il lavoro viene esportato, con la delocalizzazione, e importato, con l’immigrazione. Ma il mondo globale è anche una grande chance per il Paese dell’artigianato di qualità, della manifattura di pregio, del design, dell’arte, che non ha motivo di sottovalutarsi e deve spezzare la cappa di autolesionismo.

Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia, il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta del lancio dell’Expo 2015 – voluto da governi di ogni colore – e un luogo più indicato di Monza, alle porte di Milano. Per quanto tempo si sia perduto, l’Expo può ancora essere un grande successo. Intanto perché verte sul cibo – un settore di punta per il nostro export – e sullo sviluppo sostenibile, il che chiamerà in causa il volontariato, il no profit, le energie sociali e anche il ruolo della Chiesa cattolica, rigenerata dall’avvento di Papa Francesco. E perché l’Expo sarà per l’Italia una vetrina affacciata sul mondo di domani, sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sull’Africa, sul nuovo Medio Oriente che uscirà da una travagliata stagione. Questa vetrina non poteva che essere a Milano, una metropoli che porta la vocazione alla centralità nel suo stesso nome: Mediolanum, la città che sta in mezzo. Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio, ospedali d’avanguardia, università d’eccellenza: Milano ha radici solide, come il Paese che rappresenterà nel 2015. L’importante è che l’Italia sappia ritrovare se stessa.

Molto dipende anche dal governo Letta. Un governo che non era nei desideri di nessuno, ma è l’unico possibile. Il Paese non reggerebbe all’ennesima legislatura perduta: le misure per rilanciare l’economia, le riforme per rendere la politica più efficiente e meno costosa, il semestre di presidenza Ue sono prove da non fallire. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione, ma deve andare oltre. Non si pretende da lui il carisma, che per le larghe intese sarebbe più di ostacolo che di aiuto. Guidare un governo però richiede comunque capacità di leadership. Un premier può essere tecnicamente bravissimo, ma se non «sente» il Paese, se non lo ascolta e non lo interpreta, se non va nelle aziende e nelle scuole, se si lascia trascinare dal gorgo dell’agenda istituzionale, non riuscirà a restaurare la fiducia che oggi manca. Napolitano chiede giustamente stabilità. E la stabilità dei governi dipende anche dalla loro capacità di entrare in sintonia con un Paese che mantiene fondamenta salde, ma ha bisogno di essere rinfrancato sulle proprie capacità di ripresa.Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2013

STOP ACCATTONI E BARBONI, MESSA CON IL BUTTAFUORI (COME PER LE DISCOTECHE….)

Pubblicato il 7 luglio, 2013 in Costume | No Comments »

Stop accattoni, messa con il buttafuori(ANSA) – VENEZIA, 7 LUG – Non uno ma addirittura due ‘buttafuori’ si sono alternati oggi davanti al Duomo di San Lorenzo, a Mestre, per evitare che i barboni e i mendicanti si presentassero durante le funzioni a molestare i fedeli chiedendo l’obolo. L’iniziativa di filtrare l’accesso è piaciuta ai parrocchiani, molti dei quali hanno espresso a mons. Fausto Bonini, fermo davanti al portone di ingresso, il loro appoggio.

Una sola eccezione: un uomo è entrato in chiesa e ha apostrofato il parroco gridando “razzista”.

……………..e Papa Francesco predica invano!

LE SENATRICI DEL PD CONTRO LE DONNE:VIETARE LA PUBBLICITA’ CON LE BELLE RAGAZZE

Pubblicato il 6 luglio, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Il Partito democratico  vuol proibire la gnocca

Vietata Belen in ogni sua apparizione. Oscurata Uma Thurman che si beve un’acqua tonica. Bruciata come una strega ogni immagine di Letitia Casta che reclamizzava un profumo di due stilisti italiani. Seppellito sotto colate di cemento lo spot di una marca di jeans girato da una sensualissima Megan Fox. Tremate, tremate, perché le cacce alle streghe sono tornate. A volere scatenare la nuova Inquisizione e fare  roteare come negli anni ‘50 le forbici della censura è un nutrito gruppo di senatrici del Partito democratico. Un drappello guidato da Silvana Amati, e con subito a ruota Manuela Granaiola, Daniela Valentini e il vicepresidente di palazzo Madama, Valeria Fedeli, che ha appena firmato un disegno di legge già incardinato dal titolo «Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media». Il titolo sembra generico, ma il contenuto non lo è affatto. L’obiettivo infatti è quello di vietare con pesanti sanzioni (fino a 5 milioni di euro) l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità televisiva o stampata (giornali e manifesti).

Siccome tutte e quattro le prime firmatarie avevano venti anni nel 1968, erano di sinistra e in prima linea a sventolare la bandiera della rivoluzione sessuale, per fare tornare l’Inquisizione nel secondo millennio provano a scegliere le parole adeguate. La sostanza è quella del rogo per tutte le pubblicità che utilizzano il corpo della donna. Ma certo scagliarsi contro «immagini che trasmettono, non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne», è modo assai più elegante e consono ai tempi per accendere il fiammifero sotto quel cumulo di manifesti e celluloide.

Una Belen o una Uma Thurman sensuale in uno spot devono rassegnarsi al rogo perché «stereotipi di genere», che «restringono dunque il margine di manovra e le opportunità di vita di donne e ragazze, ma anche di uomini e ragazzi». Come avrebbe detto negli anni Cinquanta un Oscar Luigi Scalfaro pronto a coprire la balconata abbondante di una matrona in un ristorante romano, «pubblicità e media presentano il corpo femminile come mero oggetto sessuale, esistente per l’uso e per il piacere altrui». Così – dicono le Inquisitrici del Pd, «nelle adolescenti, nelle donne giovani», diventa epidemia «un’ossessiva attenzione al corpo che provoca manifestazioni di ansia e aumento di emozioni negative, riduce la consapevolezza dei propri stati interni». Di più – perché le inquisitrici Pd hanno a cuore soprattutto la salute – vedere una Belen con farfallina evidente «provoca anche conseguenze molto serie sul benessere psico-fisico delle persone che la subiscono: è infatti correlata a un aumento dei disturbi depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari».

È dunque Belen-pandemia, e di fronte ad emergenze di questo tipo le senatrici Pd sono pronte a trasformarsi in crocerossine e perfino in poliziotte della buon costume. A un solo grido: «oscurare, anzi vietare la gnocca». Si preparino i pubblicitari, perché la controriforma è pronta, e naturalmente l’oscuramento di gnocca ce lo chiede «l’Europa», pronta a metterci in mora se tergiversiamo ancora. Ecco la soluzione: «Inserire al codice delle pari opportunità un articolo 1 bis che disciplina il divieto di utilizzare l’immagine della donna in modo vessatorio o discriminatorio ai fini pubblicitari». Chi farà rispettare quel divieto? «Il ministro delle Pari opportunità, anche su denuncia del pubblico, di associazioni e di organizzazioni, nonché di ogni altra pubblica amministrazione che vi abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali». Ad applicare le sanzioni ci penserà una apposita sezione-commissione «per il contrasto alla discriminazione della donna nella pubblicità e nei media», istituita all’interno della Autorità garante della concorrenza e del mercato, che avrà perfino poteri di censura preventiva. La commissione apporrà «un apposito bollino» a «certificare la conformità del messaggio pubblicitario a criteri di qualità e finalità socio-educative per linguaggio, immagini e rappresentazioni, in linea con i criteri di tutela della donna stabiliti dalla presente legge». Sarà quindi vietata «la trasmissione sui circuiti televisivi pubblici e privati sul territorio nazionale di pubblicità o messaggi pubblicitari che non hanno ottenuto il bollino di cui sopra». Oltre all’antitrust, anche i comuni potranno brandire la scimitarra della nuova inquisizione, «inibendo a monte l’affissione di pubblicità sessiste o discriminatorie, lesive della dignità delle donne». I manifesti delle varie Belen dovranno essere «coperti con una scritta adesiva, ben visibile, che recita: SANZIONATO».  Gli operatori pubblicitari che non rispetteranno i divieti di spot e manifesti saranno puniti «con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a 5 milioni di euro. Franco Bechis, Libero, 6 luglio 2012

…..A quando l’obbligo per le donne di indossare il burqa e il velo? Forse siamo alla regola del contrappasso come suggerisce Bechis quando richiama il 68 e lo slogan femminista del 2corpo è mio e me lo gestisco io”.  Forse, più verosimilmente, si tratta solo di una “vendetta” di donne -  magari brutte – contro donne belle che senza fare mercimonuio del loro corpo lo usano per pubblicizzare ciò che non può esserlo dagli uomini. Non meraviglia però che questo ridicolo e anche grottesco tentativo di ritorno al medioevo sia opera delle donne di sinistra: come diceva Prezzolini nessuno sa essere più conservatore dei falsi progressisti. Anche nel culto della bellezza. g.

LA CRISI DEI PARTITI: UNA OSSESSIONE TRASVERSALE

Pubblicato il 27 giugno, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell’estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s’oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all’identità dell’altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l’immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent’anni del bipolarismo all’italiana. Ma dov’è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l’uno accanto all’altro sui banchi del governo?

Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L’assenza d’un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia. Vale per la maggioranza, vale – singolarmente – pure per l’opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto. La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori. E l’opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un’impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.

Nel silenzio dei partiti, un’unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S’ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d’uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c’è spazio per la politica, e non c’è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell’unico modo che conoscono: cercandosi un nemico. E trovandolo, se non all’esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.

Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un’espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all’unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario. Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.

C’è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C’è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L’anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche. Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri. E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l’esempio.

LA CONDANNA DI BERLUSCONI: HANNO FATTO UN DANNO EMORME ALLE DONNE, di Ritanna Armeni

Pubblicato il 25 giugno, 2013 in Costume, Giustizia, Il territorio, Politica | No Comments »

Diciamolo subito: il punto non è quello che avverrà dopo la sentenza e la condanna di Silvio Berlusconi o quali saranno le ripercussioni sul governo e sulle larghe intese, il punto è quello che è già avvenuto, quel che le decisioni dei giudici di Milano significano per il paese oggi, un minuto dopo la lettura della sentenza.

Una sentenza non ha solo un valore in sé. Non è indirizzata solo all’imputato. Certo Silvio Berlusconi è il condannato, ma dietro quei sette anni di carcere per costrizione e prostituzione minorile, dietro quell’interdizione perpetua dai pubblici uffici c’è la condanna di un intero mondo, di un modo di vivere il proprio privato, ci sono le “Olgettine”, le cattive ragazze che ricevono doni e denaro, le feste a sfondo sessuale, i divertimenti osé, le danze scabrose. Era bello quel mondo? Era squallido sicuramente, mette tristezza, fa capire tanto sui rapporti fra il potere e il sesso. Il problema è che in uno stato di diritto, in un stato che non arroga a sé il potere di dettare la morale e il comportamento sessuale dei propri cittadini, non può essere oggetto di condanna in tribunale. Invece nel processo non ha avuto alcuna importanza il fatto che, a cominciare da Ruby, quelle ragazze abbiano negato di aver avuto rapporti sessuali. Anzi la minaccia ora è l’accusa di falsa testimonianza. Non è possibile che chi ha partecipato ai giochi e alle danze non si sia prostituita, hanno, di fatto, affermato i giudici. Non è possibile che non si sia prostituita la minorenne Karima El Mahroug che ha fatto come loro. Puttane e bugiarde. Questo sono quelle ragazze e le loro parole al processo ora sono rinviate alla procura perché le esamini ulteriormente. Perché trovi ulteriori colpe contro di loro.

Non considero delle “erinni” le donne giudici di Milano che hanno letto la sentenza, non considero una “strega” Ilda Boccassini. Non mi piace il modo in cui i tanti oppositori della sentenza oggi le apostrofano, ma hanno sicuramente fatto un danno enorme alle donne. Non solo a quelle cattive ragazze che hanno tutto il diritto di essere cattive, cattivissime e anche puttane. E che non sono considerate incapaci di intendere, ma solo furbe maliziose e bugiarde. Ma anche alle altre. A quelle che pensano di essere dalla parte giusta. Perché, come la storia e la cronaca insegnano, in uno stato etico sono le donne le prime a rimetterci, buone o cattive che siano. Sono loro che in uno stato che decide il comportamento morale si trovano a rinunciare alla loro libertà. E il fatto che in tanti e in tante oggi siano felici per la condanna di quel mondo, si sentano finalmente liberate dallo squallore, dal cattivo gusto, dall’odore di stantio che da esso emana la dice lunga non solo su chi ha pronunciato la sentenza, ma anche su quella diffusa mentalità che fa il doppio errore di giudicare immorali e quindi illegali i comportamenti diversi dai propri. Possibile che un’idea di libertà, di legalità separata dall’etica, oggi debba essere rappresentata solo dalle “cattive ragazze”? Ritanna Armeni, Il Foglio quotidiano, 25 giugno 2013

…….Tra tutti i commenti che oggi si possono leggere sui quotidiani a proposito della condanna inflitta ieri a Milano da un Tribunale composto da tre donne, abbiamo scelto,  per commentare una condanna che appare agli occhi di tutti, oltre che esagerata, molto discutibile (si può ancora in Italia discutere le sentenze o si corre il rischio di essere denunciati per lesa giustizia?) questo articolo di Ritanna Armeni. Che non è una giornalista al soldo di Berlusconi, nè sul suo libro paga, nè addomesticata in una delle cene di Arcore. Ritanna Armeni, che oggi scrive sul Foglio di Ferrara, è una giornalista di sinistra, anzi della sinistra extraparlamentare e di quella più agguerrita contro Berlusconi. Per questo la sua opinione ci sembra avere un peso maggiore dei tanti e delle tante che in queste ore si sono avvicendati nella “difesa2, spesso d’ufficio,  di Belrusconi. Anche perchè la Armeni senza giri di parole issa sul banco degli imputati, anzi delle imputate, le tre giudici che pur di condannare Berlusconi, si sono a loro volta issate sul cielo della difesa della etica e della morale pubblica, pretendendo di stabilire per legge se una donna, più donne, tante donne, possano o meno avere il diritto di fare del proprio corpo ciò che vogliono. Sia chiaro, non condividiamo del tutto le tesi della Armeni, ma ci pare che in  un Paese dove il femminismo è stata più che una moda e che in questi giorni, nel bel mezzo di un gran can can,  sta varando una legge che punisce la violenza contro le donne (e quella contro gli uomini da parte delle donne a quando?) è una sopresa che un Tribunale al di là di ogni altra questione si sia posto il problema di stabilire cosa una o più donmne possano fare nel proprio spazio personale del proprio corpo. C’è del fondamentalismo esasperato in questa sentenza, al di là delle colpe, ove davvero ci siano, dell’imputato al quale peraltro è stato riservato un trattamento al quale manca solo la condanna all’evirazione da eseguire sulla pubblica piazza con tanto di constatazione formale dell’avenuto taglio dell’arnese oggetto corpo del reato. Ovviamente a cura delle donne.g.

IL MINISTREO IDEM EVADE LE TASSE MA DIFENDE IL ROM ASSASSINO

Pubblicato il 22 giugno, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Ricordate? Un giovane rom senza patente alla guida di un suv inve­stì volontariamente e uccise un vi­gile urbano di Milano.

Josefa Idem, ministro per le pari opportunità

Era il 12 gennaio del 2012. Poche settimane fa il ragazzo è stato condannato a 15 anni di reclusio­ne, una pene lieve se paragonata ai 26 chiesti dall’accusa. Lo sconto è stato mo­tivato dai giudici così: «È cresciuto in un contesto di vita familiare caratterizzato dalla commis­sione di illeciti da parte degli adulti di riferimento e in una so­stanziale assenza di scolarizza­zione ». Noi titolammo, sintetiz­zando la questione: «Se il killer è rom, l’omicidio è meno gra­ve», perché ci era parso che tra le righe si dicesse chiaramente che era stata riconosciuta un’attenuante specifica carat­teristica di quella etnia.

Bene, la ministra alle Pari op­portunità, Josefa Idem, ha fat­to fare dal suo dirigente un esposto all’Or­dine dei giornalisti considerando la no­stra sintesi offensiva dei rom. Punite quei razzisti, chiede la signora, politicamente corretta con noi del Giornale quando si tratta di rom assassini, ma molto scorret­ta in quanto a etica personale. Già, per­ché è lei quella che ha fatto la furba per non pagare l’Imu, inventandosi finte resi­denze in palestra e non solo. Visto che an­che io, alla pari dei rom, voglio godere di pari opportunità, le chiedo, signora: a chi mi rivolgo per non avere al governo un ministro evasore visto che io l’Imu l’ho pagata?  Alessandro Sallusti, 22 giugno 2013

…….L’antico detto secondo il quale “fai come dico io e non fare come faccio io” è sempre in voga, spercie quando si dvee gustificare se stessi o i propri amici. E comunque il caso della Idem non è isolato e purtroppo non riguarda solo chi sta in alto, ma anche e spesso chi sta in basso.

CHIUDE LA RAI GRECA E I DIPENDENTI (2700) TUTTI A CASA

Pubblicato il 12 giugno, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

La decisione, comunicata dal portavoce del governo ellenico, Simos Kedikoglou, rientra nell’ ambito del programma delle privatizzazioni delle aziende a partecipazione statale concordato con la troika. Resteranno a casa i circa 2.800 dipendenti. Sospese, dalla mezzanotte, le trasmissioni della tv e della radio. La Ert sarà sostituita “da una struttura moderna ma non di proprietà dello Stato”, che operareà con personale ridotto. I lavoratori della Ert riceveranno un indennizzo.

Kedikoglou ha spiegato che “in un momento in cui al popolo greco vengono imposti sacrifici non ci possono essere entità intoccabili che possono restare intatte quando si applicano tagli ovunque”. E la Ert è un caso particolare di “sacche di opacità e incredibile spreco di denaro pubblico. Costa da tre a sette volte le altre tv e ha da quattro a sei volte il personale di altre strutture con ascolti ridotti”. Proprio per questa ragione il governo di Atene ha deciso di chiudere le trasmissioni, azzerare tutto e ripartire.

……Pensate per un attimo se al posto di “greca”  ci fosse stato scritto “italiana”: che festa. Finalmente tutti a casa i super pagati  giornalisti, conduttori, ballerini e ballarò di ogni genere, a incomiciare da Fazio per finire alla Clerici, costretti da ora in poi  a guadagnarsi il pane come ciascuno di noi, poveri mortali, costretti   a sorbirseli mentre  versano lacrime di coccodrillo sui poveri italiani e loro appena possono se la spassano sulle meravigliose spiagge e sulle montagne innevate di mezzo mondo. Purtroppo la notizia non riguarda gli sperperi italiani che alla faccia di tutte le promesse del mondo rimangono esattamente come erano un paio di anni fa…purtroppo la RAI italiana continua ad essere come l’acquedotto pugliese che nella sua storia ha dato più da mangiare che da bere, parola dell’indimenticabile Montanelli. g.

UN’AMBIZIONE TROPPO TIMIDA

Pubblicato il 23 maggio, 2013 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

Serve ancora a qualcosa l’Italia? E a che cosa? Può ancora immaginare in quanto Nazione di avere una vocazione, un destino, suoi propri? E qual è il suo ruolo, se ce n’è uno, in relazione agli altri Paesi del mondo?

Tra i molti nodi che oggi stanno venendo al pettine c’è anche questo. Un nodo creatosi, a ben vedere, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sul cui significato di cesura non metabolizzata si apre, non a caso, con alcune acute osservazioni, il bel libro di Giuliano Amato e di Andrea Graziosi Grandi illusioni (Il Mulino) appena andato in libreria. Fino a quella data le classi dirigenti della Penisola – di estrazione invariabilmente borghese, con qualche rarissima eccezione sia pure assai significativa come nel caso del fascismo con Mussolini e pochi altri – furono tutte convinte che lo Stato nazionale fosse sorto con una «missione». Quella di riportare l’Italia al centro dello sviluppo storico, di farne in vario modo una «potenza» in grado di rivaleggiare con le altre del continente, di restaurarne l’antico prestigio civile e culturale, di elevare le sue plebi alla dignità di «popolo». Declinata in senso nazional-liberale prima, e nazional-fascista poi, questa convinzione fece naufragio nella catastrofe del 1943-45. All’indomani, la Repubblica dei partiti si trovò più o meno d’accordo nel fondare la civitas democratica, ma – animata com’era da visioni storiche tra loro diversissime, e sotto il peso del disastro appena passato – non poté porsi la questione della nazione. (Anche se questa, in modo perlopiù tacito, era ancora ben presente e talora visibile negli uomini e nelle idee dei partiti di quella stessa Repubblica).

Ingabbiati nel doppio bipolarismo Est-Ovest e comunisti-democristiani, decidemmo quindi – prima a maggioranza, ma in seguito alla caduta del muro di Berlino praticamente all’unanimità – che il nostro solo destino erano l’Occidente e l’Europa. Che il nostro orizzonte era assorbito per intero da quelle due dimensioni. Che la nostra storia finiva lì. Oggi ci accorgiamo che siamo stati un po’ troppo sbrigativi. Che in un’Europa che è ancora (e chissà ancora per quanto) un’Europa degli Stati, cioè delle sovranità, la nostra sovranità non è meno importante delle altre. Ma che se essa vuole contare qualcosa, se vuole essere forza e sostanza di un vero soggetto politico, deve fondarsi necessariamente su un’idea d’Italia. Cioè sul presupposto che questo Paese abbia un insieme di retaggi, di qualità, di vocazioni e di aspirazioni peculiarmente suoi, e che precisamente queste peculiarità esso sia chiamato in qualche modo a riunire e a esprimere entro la moderna forma dello Stato nazionale.

Immaginare ed elaborare un’idea d’Italia corrispondente ai bisogni dell’ora è oggi il compito storicamente più urgente della politica italiana. Essa deve mostrarsi capace di additare un senso e un cammino complessivi alla nostra presenza sulla scena storica. Solo in tal modo la politica stessa sarà in grado di riscoprire e rinvigorire la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità, sperando così di ritrovare un rapporto con il Paese capace di animarlo e motivarlo di nuovo.
Solo così riusciremo a riprenderci, a ricominciare. Sono ormai anni che le energie della società italiana appaiono paralizzate, i suoi animal spirits bloccati. Che il Paese è immerso in una crisi di sfiducia nelle proprie forze, in una sorta di apatia, di sfibramento psicologico, che minacciano di divenire una cupa rassegnazione. L’economia con ciò ha molto a che fare. È difficile infatti che a qualcuno venga in mente d’investire in un Paese che non sa quello che è, né ciò che vuol essere. È difficile che qualcuno avvii qualcosa d’importante e a lungo termine in un Paese che non ha idea di che cosa esiste a fare, che non guarda al proprio passato come al trampolino per un avvenire. Nella dimensione esclusiva dell’oggi, infatti, al massimo si sopravvive: per esistere con pienezza di vita bisogna, invece, sapere da dove si viene e dove si va. Ma la politica solamente può e deve dirlo. Come essa ha fatto altre volte nel nostro passato, quando si è dimostrata capace di mobilitare risorse, di sollecitare energie, di concepire vasti disegni. E ogni volta, non a caso, ritornando a quel nesso profondo, all’origine della nostra storia unitaria, che lega indissolubilmente lo Stato nazionale italiano a un’idea d’Italia. Senza la quale neppure il primo, alla lunga, riesce ad esistere. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 23 maggio 2013