Archivio per la categoria ‘Cronaca’

CROSETTO (PDL): DA BEFERA SPREZZO PER LE ISTITUZIONI. MONTI LO CONVOCHI

Pubblicato il 1 febbraio, 2012 in Cronaca | No Comments »

Crosetto“Penso sia opportuno che il ministro del Tesoro convochi Befera, si faccia chiarire le gravissime affermazioni fatte ieri nell’intervista a Repubblica, e venga a riferire in Parlamento, prendendosi la responsabilita’ di avvallare la permanenza in un incarico di tale rilevanza e peso di una persona che ha chiaramente dimostrato di agire con pregiudizi, con sprezzo totale delle istituzioni e con un delirio di onnipotenza preoccupante”.

Lo ha dichiarato il deputato del Pdl, Guido Crosetto. “Alcuni di noi conoscono la storia di Attilio Befera e sanno valutarne l’operato tenendo conto di tutto e non delle cronache nelle quali si e’ lanciato nelle ultime settimane. Le cose dette ieri, non sull’evasione e sulla lotta all’evasione, che e’ e deve essere una battaglia di tutti, ma gli editti, le minacce, le diffamazioni, il senso di onnipotenza di cui e’ costellata l’intervista, non possono e non devono passare inosservate”. “So perfettamente di espormi, con questa dichiarazione, al rischio di vendette e ritorsioni da parte sua e della macchina che ha costruito a sua immagine e somiglianza senza rispettare anzianita’, titoli, meriti ne’ interventi della magistratura amministrativa, ma la lotta per la giustizia, contro l’evasione va fatta da persone con un profondo senso della giustizia e dell’equita’ e del cui equilibrio psicologico si sia certi”. Fonte ANSA, 1° febbraio 2012

SCALFARO: QUEL SOSIA ELETTO AL QUIRINALE, di Francesco Damato

Pubblicato il 30 gennaio, 2012 in Costume, Cronaca | No Comments »

Oscar Luigi Scalfaro Dell’uomo e del politico Oscar Luigi Scalfaro sono stato a lungo tra gli estimatori e amici. Di un’amicizia da lui ricambiata e rafforzata da una comune disavventura, al termine del congresso nazionale della Dc nel 1976, conclusosi con l’elezione diretta di Benigno Zaccagnini a segretario. Alcuni scalmanati, di notte, ci attesero all’uscita per deriderci e gridarci: «Per voi borghesi è finita». Io lavoravo al Giornale. Lui si era inutilmente speso per l’elezione di Arnaldo Forlani. Memore anche di quella notte, stentai a riconoscerlo nei panni di presidente esordiente della Repubblica nella primavera del 1992. Fui talmente sorpreso, diciamo pure traumatizzato, dal contributo che il nuovo capo dello Stato decise di dare, sotto l’effetto delle indagini e degli arresti per Tangentopoli, allo sconfinamento delle Procure della Repubblica che mi rifugiai in un’allucinazione. Pensai e scrissi che quello in attività al Quirinale fosse un sosia di Scalfaro, essendo stato quello vero sequestrato da qualche misteriosa banda. Fu naturalmente anche la fine della nostra amicizia. L’ombra del sosia mi comparve la prima volta il giorno in cui seppi che il Presidente, alle prese con gli incontri politici di rito per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 5 e 6 aprile di quell’anno, aveva ritenuto di consultare anche il capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per informarsi sulle indagini note come “Mani pulite”. E ne ricavò la convinzione che Bettino Craxi, per quanto destinato a ricevere i primi avvisi di garanzia solo a fine anno, dovesse sin d’allora pagare pegno. Al suo posto egli mandò a Palazzo Chigi Giuliano Amato, facendolo proporre dallo stesso segretario del Psi. La seconda volta l’ombra del sosia mi comparve nel 1993, quando il Quirinale annunciò che Scalfaro aveva negato la firma a un decreto legge appena varato dal governo per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Eppure l’allora Guardasigilli Giovanni Conso riteneva di avere concordato ogni cosa direttamente o indirettamente con il capo dello Stato. Ma, tra le decisioni del Consiglio dei Ministri e l’annuncio del diniego della firma del presidente della Repubblica, vi fu una clamorosa protesta pubblica del capo della Procura di Milano in persona. Si era ormai passati dalle Procure della Repubblica alla Repubblica delle Procure. Di lì a poco l’ombra del sosia tornò a farmi capolino con un messaggio televisivo del presidente della Repubblica contro il tentativo mediatico da lui ravvisato di coinvolgerlo in una brutta storia di fondi segreti passati anche per le sue mani, o i suoi uffici, negli anni in cui era stato il ministro dell’Interno di Craxi. A chiamarlo in causa erano stati alcuni funzionari finiti sotto indagine e in carcere. Ai quali poi nella Procura di Roma, anche a costo di contrasti interni rivelati in un libro da Francesco Misiani, che ne aveva fatto parte, si decise di reagire contestando loro il reato gravissimo di attentato al funzionamento delle istituzioni. «Io non ci sto», gridò il capo dello Stato nel pieno della bufera davanti alle telecamere. Ma per uscire davvero dalla vicenda, riproposta con un esposto giudiziario dal suo ex amico ed ex guardasigilli Filippo Mancuso, egli dovette aspettare la fine del suo mandato presidenziale. Un’altra volta ancora l’ombra del sosia mi comparve nella primavera del 1994. Fu quando il capo dello Stato, non potendo proprio fare a meno di conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, uscito vittorioso dalle urne del 27 e 28 marzo, decise e annunciò di accompagnarne la nomina con una lettera quanto meno inusuale di indirizzo politico. Il nuovo capo del governo avrebbe dovuto attenervisi nella sua azione, al di là degli stessi vincoli parlamentari connessi alla fiducia. Impertinente e ossessiva, quell’ombra tornò dopo qualche mese ad allungarsi. E trovò anche una descrizione nei racconti di Umberto Bossi. Che rivelò, in particolare, la cordialità e gli incoraggiamenti ottenuti al Quirinale nella preparazione della prima rottura con il Cavaliere. Fu sul Colle che il leader leghista si sentì assicurare che una crisi di governo non sarebbe sfociata nelle elezioni anticipate, temutissime allora dalla Lega. Esse infatti seguirono non di pochi mesi ma di più di un anno il primo allontanamento di Berlusconi da Palazzo Chigi e la sua sostituzione con Lamberto Dini: il tempo necessario perché la sinistra e il centro post-democristiano si organizzassero sotto l’Ulivo di Romano Prodi e vincessero le elezioni del 1996. Tre anni dopo si concluse il mandato presidenziale di Scalfaro. Ed io mi illusi che fosse finito anche l’incubo del sosia. Ma mi sbagliavo. Anche da ex presidente, o presidente emerito della Repubblica, continuarono a mischiarsi e a sovrapporsi impietosamente nella mia immaginazione i due Scalfaro: quello buono di una volta, scampato con me alla «fine dei borghesi», e quello irriconoscibile del Quirinale. E di Palazzo Madama, dove egli continuò a ritenersi mobilitato contro il Cavaliere, sia quando questi era di suo all’opposizione, sia quando questi tornò al governo. E osò varare nel 2006 una riforma della Costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi del Parlamento, per cui fu necessaria la verifica referendaria. A guidarne la campagna fu proprio Scalfaro, avvolto sulle piazze nella bandiera di una Repubblica e di una Costituzione a suo avviso minacciate dal Cavaliere. Se quella riforma non fosse stata bocciata, avremmo potuto avere già adesso, fra l’altro, meno parlamentari e un bicameralismo differenziato. Un’occasione quindi mancata grazie anche a lui. La cui morte merita naturalmente rispetto, ma non l’ipocrita partecipazione ad un coro d’elogi sperticati. Francesco Damato, Il Tempo, 30/01/2012

…………..Storace, sanguigno, ha detto che  di Scalfaro non va dimenticata la faziosità e che fu il peggior presidente della Repubblica.Damato, con elegante ironia,  lo ha dimostrato.  g.

ECCO L’ITALIA DEI SACRIFICI: IL MORALISMO FASULLO DI CELENTANO COSTERA’ A NOI CHE PAGHIAMO LE TASSE SINO A 750 MILA EURO

Pubblicato il 27 gennaio, 2012 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Come già per Benigni, il cachet del Molleggiato sarà esorbitante: 300mila euro a puntata con un tetto massimo di 750mila euro. Alla faccia dei sacrifici per tutti

Adriano Celentano ci sarà. Trecentomila euro a puntata e un tetto massimo di settecentocinquantamila euro. Niente spot pubblicitari, perché il maestro non può essere interrotto dal bieco capitalismo, e blocchi da venticinque minuti.

Adriano Celentano

I termini dell’accordo tra i vertici della Rai e il Molleggiato sono un colpo durissimo. Dopo un lungo teatrino fatto di polemiche, accuse di censura e contrattazioni serrate viale Mazzini ha raggiunto l’intesa con Clan Celentano per riuscire ad avere il cantante al festival di Sanremo. Una presenza che agli italiani costerà oltre diecimila euro al minuto.

Alla fine hanno vinto il Molleggiato e la sua cricca. Un cachet con troppi zero che di sicuro farà imbestialire non pochi italiani. Un cachet con troppi zero come già se ne sono visti per ospiti come Roberto Benigni. Questa volta, però, oltre all’esborso economico Celentano ha messo tutta una serie di paletti che, inizalmente non trovavano il consenso dei vertici di viale Mazzini. Il contratto, oltre ai punti già concordati da tempo come appunto il compenso economico, recepisce l’accordo verbale raggiunto lunedì sera al telefono dal direttore delle Risorse Artistiche Valerio Fiorespino e l’avvocato del Clan Celentano sugli altri punti: dalla massima libertà per il Molleggiato (nel solo rispetto del codice etico) al diktat sugli spot pubblicitari. Insomma, l’intesa comporta solo minime limature dopo l’invio, mercoledì scorso, da parte del Clan a viale Mazzini della bozza definitiva.

“La firma – spiegano fonti vicine alla Rai in una anticipazione della Adnkronos – permette all’organizzazione del festival di arrivare con più serenità all’appuntamento con la conferenza stampa ufficiale del Festival, prevista al Teatro del Casinò di Sanremo martedì prossimo”. Adesso Celentano è stato accontentato in tutto e per tutto. Dopo una settimana di teatrino (con Claudia Mori che accusava la tivvù di Stato di censurare il marito), è stato superato anche l’ostacolo delle interruzioni pubblicitarie separando la prima performance di Celentano da eventuali altri interventi nelle serate successive. Con un piccolo trucco: il primo intervento del cantante milanese sul palco dell’Ariston verrà inquadrato come evento eccezionale e, per questo motivo, non verrà interrotto da alcuna pubblicità. La stessa prassi fu seguita l’anno scorsi per l’esegesi dell’Inno di Mameli fatta da Benigni.

Tutt’altro discorso è stato portato avanti da viale Mazzini per gli interventi che Celentano farà nelle serate successive: questi potranno essere interrotti solo se supereranno i tempi degli intervalli tra un break pubblicitario e l’altro. Tempi che sono comunque corposi: all’incirca 25 minuti. Se da una parte il Molleggiato “schifa” gli spot pubblicitari, dall’altra non disdegna certo i lauti compensi: come già circolato nei giorni scorsi, il Molleggiato percepirà 300mila euro a puntata per un massimo cumulabile di 750mila euro. Una cifra importante, soprattutto se a sborsarla è la televisione pubblica in tempi crisi economica in cui agli italiani vengono chiesti continui sacrifici. Il Giornale, 27 gennaio 2012

…………..Vergogna! Mentre milioni di italiani non ce la fanno più e non riescono a nemmeno più ad arrivare alla seconda settimana del mese per via delle tasse che il govenro dei professoroni  issati sul ponte di comando della sgangherata nave Italia, c’è chi se la ride alle loro spalle, alle nostre spalle! Il molleggiato, il supermoralista da barzelletta, Celentano, ha ottenuto dalla RAI qualcosa come 750 mila euro per le sue apparizioni al Festival di Sanremo, qualcosa come diecimila euro al minuto, diecimila, avete capito bene, al minuto,  per assistere per lo più ai silenzi angosciosi di  un ex cantante trasformatosi in predicatore ma solo dei peccati altrui. Ci piacerebbe che su questo schiaffo alle povertà italiane , ai 12-16 milioni di italiani che non pososno nemmeno più stringere la cinghia perchè anche quella gli è stata pignorata, se non sequestrata,  dai ministri e sottosegretari, tutti superburocrati dello Stato, che ogni giorno se ne inventano una per fingere di fare qualcosa ma che alla fine l’unica cosa che riescono a fare è tassare, tassare, e ancora tassare, facesse sentire la sua voce  il signor presidente della Repubblica e quanti pretendono di rappresentare il popolo italiano. Che anche questa volta dovrà mettersi una mano davanti e l’altra dietro e che avrà come unica consolazione quella di sedersi davanti al televisore per vedere come sperpera i soldi degli abbonati il più vergognoso carrozzone italiano, la Rai, appunto. g.

MARIANNA SCARANGELLA, UNA TORITTESE ALLA CONQUISTA DELLA RAI

Pubblicato il 15 gennaio, 2012 in Cronaca, Notizie locali | No Comments »

Martedì sera, 17 gennaio, su RAIUNO, alla trasmissione I soliti ignoti, condotta da Fabrizio Frizzi, la concorrente che si cimenterà nell’individuare le identità nascoste parlerà torittese. Infatti  sarà la nostra concittadina Marianna Scarangella, insegnante di storia e filosofia nei licei, attualmente in servizio a Gravina di Puglia, a cimentarsi nella prova identitaria.  Chi  ha la fortuna di conoscere la professoressa Scarangella ne  apprezza la vivace spiagliatezza, la  passione  per la sua professione, l’impegno che profonde in tutto ciò che fa, l’amore per la sua cittadina che vive con spirito civico esemplare. Siamo certi che si è fatta onore  e che ha fatto onore a  tutti noi,  e a Toritto,  che almeno per una volta non finirà nella cronaca nera,  ma nella cronaca degli avvenimenti che ci aiutano a sorridere. Grazie, Marianna!

LE REGALIE DEL FISCO AI SUOI DIPENDENTI

Pubblicato il 15 gennaio, 2012 in Cronaca, Economia | No Comments »

Sul ministero delle Finanze piovono regali in denaro anche se l’evasore è teorico

Roma – Premi ai dipendenti del ministero delle Finanze per le tasse evase scovate. Non è un inedito assoluto, ma uno di quei segreti ben custoditi che solo di rado filtrano dalle stanze ben sigillate di via XX Settembre.

Stavolta a scoperchiare il calderone delle regalie di Stato è il leghista Roberto Castelli, che la racconta come post sulla sua pagina personale di Facebook. Scatenando le ire di chi, da cittadino comune, pur trovando odiosa l’evasione fiscale, trova ancor più odioso che ci sia una «taglia» sull’evasore. Tanto più perché i dipendenti, il loro stipendio, già lo ricevono a prescindere dai risultati ottenuti.
«A proposito di tasse – scrive l’ex ministro – vi racconto questa che non ho mai raccontato. Non tutti sanno che gli addetti del ministero delle Finanze prendono una percentuale sulle tasse evase che scovano. Pertanto hanno tutto l’interesse a trovare più tasse evase possibile in un patente conflitto di interesse. Nel 2005 i dipendenti del ministero si sono divisi 800 milioni dicasi 800 milioni di euro sulla cifra scovata (non pagata poi dai supposti evasori). Ho protestato in consiglio dei ministri ma mi hanno risposto che così voleva la legge. In soldoni gli usceri hanno preso tra i due e i tremila euro mentre i dirigenti apicali cinquantamila. Niente male come gratifica natalizia».
Già, niente male. Anche se c’è da dire che la cifra della beneficiata segnalata da Castelli è sovradimensionata: furono «appena» 410 i milioni di euro che i dipendenti delle Finanze si spartirono in seguito a un decreto firmato il 29 dicembre 2006 dall’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, come incentivo – ma trattandosi di un «regalo» a posteriori che senso ha parlare di incentivo? – per i maggiori incassi dell’erario grazie alla lotta all’evasione: 60 milioni relativi al 2004, anno evidentemente piuttosto fiacco per i blackbusters, e ben 350 relativi al 2005.
Ora, si può trovare più o meno opportuna la taglia sull’evasore. Ma ci sono alcuni punti della questione che non convincono. Prima di tutto, il fatto che il premio venga calcolato in base alle evasioni accertate, indipendentemente dal fatto che lo Stato riesca a mettere le mani sul maltolto (o meglio: sul mai versato). Particolare questo che, se permettete, ha la sua importanza. Altro punto oscuro, la suddivisione del montepremi, che secondo il testo del decreto doveva essere stabilita «in sede di contrattazione integrativa». Quel che è certo è che un po’ di quel premio andò a tutti gli allora 77.217 dipendenti del ministero, indipendentemente dal ruolo effettivamente rivestito nella caccia all’evasore. Insomma: todos caballeros, dall’usciere al dirigente. Naturalmente con qualche differenza: i dipendenti più bassi in grado si dovettero accontentare di poche migliaia di euro (comunque ben più di una tredicesima media), mentre i papaveri portarono a casa una gratifica da 40-50mila euro. A secco invece rimasero i militari della Guardia di Finanza, quelli che la guerra per lo scontrino la combattono in prima linea. Furono i rappresentanti del Cocer, il Comitato di rappresentanza dei finanzieri, a denunciare la stranezza.

Dopo qualche polemica piuttosto accesa (del resto, di Fiamme, ancorché gialle, si parla) e un pugno di articoli sui giornali i militari si dovettero rassegnare a non ricevere il premio, togliendosi una sola piccola soddisfazione: vedere esclusi dalla lista dei regali almeno i dipendenti del ministero condannati per dolo o per danni erariali.A loro, non fosse stato per la protesta dei finanzieri, Padoa-Schioppa il premio antievasori lo avrebbe erogato senza battere ciglio. Andrea Cuomo, Il Giornale 15 gennaio 2012

.…………Ogni commento ci pare superfluo: si è scatenata la guerra all’untore dove a pagtare sono quelli che incorrono nelle grinfie della macchina del fisco,invasiva e spesso oltraggiosa per i contribuenti.

INCREDIBILE, ORA SI E’ RAZZISTI SE DICI DI ESSER EITALIANO

Pubblicato il 10 gennaio, 2012 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Mai più vantarsi del made in Italy. Questo tricolore che tanto sbandieriamo, soprattutto negli ultimi mesi di enfasi unitaria, sta diventando scomodo. Abbiamo vissuto anni in cui il solo pronunciare la parola patria e mettere alla finestra una bandiera diventava oggetto di caccia all’uomo: era, quella, la stagione di una certa egemonia, che eliminava come nostalgie fasciste anche le più elementari espressioni di identità nazionale.

Macelleria di Treviglio (Bergamo)

In seguito la storia ha un po’ camminato. Prima gli slanci repubblicani e risorgimentali di Ciampi, poi tutto il fritto misto del centocinquantesimo anniversario, in qualche modo hanno ripulito la bandiera dalle sovrastrutture ideologiche, restituendole la sua missione originaria di unire, non certo di dividere. Un buon lavoro di tutti quanti. Ma potrebbe essere inutile. La luna di miele sembra già finita: improvvisamente, esibire il tricolore e proclamarsi italiani procura una nuova patente, nemmeno così nuova, nemmeno così originale, più che altro buona per tutti gli usi e per tutte le occasioni: razzismo. Né più, né meno.

È L’Eco di Bergamo a raccontare l’esperienza surreale di Antonino Verduci, macellaio in Treviglio, vetrina direttamente sul centro storico. Non è ben chiaro come e perché, ma ad un certo punto le sue vendite hanno cominciato a scendere in modo preoccupante, per via di un’inspiegabile nomèa nata attorno al negozio: è gestito da marocchini musulmani, si raccontava in giro, magari vende carne particolare che arriva da chissà dove.

Stanco di passare per quello che non è, bravo o cattivo che sia come venditore, comunque non straniero, il macellaio ha dunque deciso di avviare una personalissima campagna pubblica, «per fare chiarezza, per evitare qualsiasi equivoco»: sul vetro del suo negozio sono comparsi un tricolore e un cartello molto chiaro, «Macelleria italiana».

In modo istintivo e artigianale, la mossa del macellaio è un po’ quella che si vedono costretti ad adottare i costruttori di biciclette nostri per distinguersi dall’invasione dei prodotti asiatici: «Bicicletta tutta made in Italy», scrivono sui loro telai. Lo stesso fanno gli scarpari, i sarti, gli stessi fornitori di alimentari. Contro la marea dei prodotti più o meno taroccati, più o meno sottocosto, e comunque di provenienza esotica, l’ultima frontiera delle nostre aziende è puntare tutto sulla propria italianità, che per fortuna significa ancora qualcosa.

Questa l’intenzione del macellaio trevigliese, ma evidentemente anche l’intenzione più elementare, in questa era di perbenismo conformista e di buonismo tanto al chilo, diventa un boomerang pericoloso. Neppure il tempo di farsi la vetrina made in Italy e il macellaio si ritrova messo al muro, al muro più odioso dell’epoca moderna, quella rete dei social-network dove tanta bella gente sfoga tutta la sua furia inquisitrice, fustigatrice, moralizzatrice, senza mai esporsi e rimetterci in proprio. Il popolo di Facebook, come viene troppo rispettosamente definito, prontamente lancia la sua fatwa: «Orrore», «Macellaio razzista», «Boicottiamolo», «Ricorda la scritta negozio ariano ai tempi del nazismo», e via bombardando. Italiani e marocchini, più italiani che marocchini, tutti a lapidare il razzista del tricolore. In nome della vigilanza permanente antirazzista, il pessimo soggetto va perseguitato pubblicamente. Magari, dipingiamogli un marchio indelebile sullo stipite o sulla saracinesca: a suo tempo funzionava….

Diciamolo: forse dovremmo smetterla di dare tanto peso all’eminente popolo della rete. Sinceramente, sta diventando un termometro troppo autorevole per tutto, dalla politica al costume, dalla cultura alla giustizia. Stiamo attribuendo a questa massa informe e anonima, che lancia i suoi siluri da chissà dove, il ruolo di ago della bilancia su qualunque fenomeno e su qualunque questione. Anche in questo caso, la denuncia contro il macellaio razzista mobilita anime troppo equivoche e sfuocate, perché davvero l’Italia intera debba sentirsi così malmessa. Purtroppo, però, vale la famigerata regola: infanga infanga, qualcosa resterà. Così, alla riapertura del lunedì mattina, la macelleria tricolore si ritrova in qualche modo sotto protezione, con passaggi di volanti della Polizia a scanso di effetti collaterali.

Anche questo è un segno dei tempi: dal lontano pregiudizio verso le insegne «Macelleria islamica» siamo arrivati alla «Macelleria italiana» sotto scorta. Bello: potremo tutti raccontare ai nostri nipoti che ad un certo punto, chissà come, dichiararsi italiani significò essere razzisti. Purtroppo, noi c’eravamo. Il Giornale, 10 gennaio 2012

…..Lasciamo il commento ai nostri lettori. Piuttosto, chissà se il presidente Napolitano assai sollecito nel fare telegrammi e andare in visita, uno di telegrammi lo manderà al macellaio di Treviglio, magari per ordinargli un chilo di filetto da mettere in tavola al Quirinale. E quanto alle visiste , ci piacerebbe che egli partecipasse ai funerali dei due anzini coniugi baresi che ieri l’altro si sono lasciati morire causa la miseria, abbandonati da tutti, compreso lo Stato capace di pretendere sacrifici e altrettanto incapace di comprendere e alleviare  i disagi. Questo Stato può piacere a Napolitano, ma non piace a noi. g.

IN SEMILIBERTA’ UNA DELLE BESTIE DELLA UNO BIANCA

Pubblicato il 9 gennaio, 2012 in Costume, Cronaca | No Comments »

Semiliberta’ per Marino Occhipinti. Fu condannato all’ ergastolo per omicidio guardia giurata. I parenti delle vittime sono  ‘fuori dalla grazia di Dio’

VENEZIA – Marino Occhipinti, uno dei componenti della ‘banda della Uno bianca’  che seminò terrore e morte a Bioklogna e dintorni,   condannato all’ergastolo, ha ottenuto la semiliberta’ dal Tribunale di sorveglianza di Venezia. L’ordinanza e’ stata depositata dopo che e’ stata emessa in camera di consiglio, come si apprende da autorevoli fonti del Tribunale stesso.

Occhipinti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, compiuto durante un assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio (Bologna) il 19 febbraio 1988. Occhipinti, ex poliziotto della Squadra mobile di Bologna, è in carcere a Padova dal 1994 ed ha già usufruito di un permesso nel 2010.

PARENTI VITTIME: FUORI DA GRAZIA DIO – “Siamo fuori dalla grazia di Dio”. Questa la reazione di Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, informata della semilibertà ottenuta da Marino Occhipinti. “Gli auguro solo – ha detto al telefono con l’ANSA – di non pentirsene”. La notizia “amareggia” l’associazione, anche se dopo la richiesta fatta nei giorni scorsi “io me lo immaginavo, ma speravo che tenessero conto di quello che lui ha fatto. Ne prendo atto, ma sono perplessa. Non so cosa dire”. Forse la decisione del tribunale è dovuta, ha detto ancora Zecchi, “a questa cosa che vogliono liberare le carceri”. Occhipinti, ha sottolineato la presidente dell’associazione, “ha ucciso una persona, un giovane. Poi si è dissociato dicendo che fu un atto di debolezza. Ma non è stato così: è stato zitto per sette anni. Se avesse parlato, altri si sarebbero potuti salvare. Lui sapeva che cosa agiva nella questura di Bologna”.

PADRE DI BECCARI: MARCISCA IN GALERA – “Non accetto niente. Lui deve star dentro, deve marcire dentro”. Così Luigi Beccari, anziano padre di Carlo, ucciso dalla Banda della Uno Bianca, ha commentato la notizia della semilibertà ottenuta da Marino Occhipinti. Che è stato condannato all’ergastolo proprio per l’omicidio della guardia giurata, compiuto durante un assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio, alle porte di Bologna, nel 1988. “Sono avvelenato, siamo tutti avvelenati”, ha spiegato Beccari. “Mi hanno detto – ha aggiunto – che sua madre vuole venire in casa mia, a chiedere perdono. Ma quale perdono, quali scuse? Io ho un figlio morto, e ora sono solo, in una carrozzina. Mia moglie è in una casa di riposo e non abbiamo nessuno. Quel delinquente lì deve stare dentro”.Fonte ANSA, 9 gennaio 2012

..…..Siamo vicini ai parenti di questa e delle altre vittime degli ex poliziotti della Questura di Bologna che per passare il tempo organizzavano rapine e uccisioni a freddo. Presi sono stati condannati all’ergastolo, cioè, come si scrive in questi casi, “fine pena mai”, Invece prima del previsto è arrivata la fine della pena, perchè come è consuetudine della magistratura italiana ora è stata concessa la semilibertà, cioè di giorno fuori e di notte in galera, ma tra breve si passerà alla libertà vigilata e quindi alla libertà totale. Alla faccia della povera guardia giurata che facendo il suo dovere per un misero stipendio ci rimise la vita. A Lui, alla vittima, come alla altre vittime,  non c’è possibilità che qualcuno gliela restituisca la vita come la si sta restituendo ora a uno degli assassini, e poi a tutti gli altri. E poco importa che, come sostiene il legale dell’assassino, si sta solo applicando la legge. Ebbene, è la legge che è sbagliata e va cambiata. g.

IL GIALLO DEL SOTTOSEGRETARIO “SCAMBIATO”

Pubblicato il 1 dicembre, 2011 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Insomma, il ministero dei “perfettini” presieduto dal più perfettino dei perfettini, cioè il super Mario, nella nomina di un sottosegretario scambia uno per l’altro. Ce lo racconta il Corriere della Sera di oggi in un articolo che riportiamo, ripreso appunto dal Corriere della Sera. Ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è da piangere  nel constatare cosa è capace di (non) fare la super pagata burocrazia italiana di cui il ministero dei perfettini è l’emblema. g.

Quello vero, Franco Braga (a sinistra). L'omonimo, Francesco Braga (a destra)Quello vero, Franco Braga (a sinistra). L’omonimo, Francesco Braga (a destra)

ROMA – Il quasi omonimo, sotto la neve canadese di Guelph, ormai se n’è fatto una ragione e rilascia interviste a raffica: a «Un giorno da Pecora», a Radio 24, e perfino in diretta alla Bbc. Era il Braga sbagliato, finito nei registri del ministero in virtù di un nome quasi uguale, Francesco, a quello del vero sottosegretario, Franco. Il quale invece non risponde al cellulare neanche sotto tortura fino a sera e pare non se ne sia ancora fatto una ragione. Di essere lui il nuovo sottosegretario e soprattutto di esserlo diventato nel ministero sbagliato: Politiche agricole invece delle agognate Infrastrutture. E dunque per ora è un sottosegretario «in sonno»: designato ma non effettivo. E ancora del tutto sconosciuto al ministero (e al ministro) a cui è destinato. Si attende che sciolga la riserva, anche se Palazzo Chigi (r)assicura: «Tutto a posto, giurerà tra pochi giorni».

Tutto parte con la segnalazione di Altero Matteoli, che indica un «bravo sottosegretario» per quello che è stato il suo ministero, le Infrastrutture: si tratta di Franco Braga, ingegnere, docente, alla Sapienza, di tecnica delle costruzioni, presidente dell’Associazione italiana di ingegneria sismica. La segnalazione rientra nella quota di tecnici spettanti ai partiti e alle correnti e come tale viene accolta. Ma nella girandola dei ministeri, Braga finisce sulla poltrona sbagliata: al ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Nella sede del Mipaaf, nulla si sa di questo Braga. E così, nella notte fatidica, parte la caccia su Internet. Che approda a Francesco Braga, munito di curriculum perfettamente calzante, per quanto risieda in Canada da qualche anno di troppo (28): di qui la commedia degli equivoci, la email del ministero e poi la telefonata di Palazzo Chigi che chiede al Braga sbagliato se è lui il sottosegretario. Comprensibile l’agitazione del Braga canadese («Non dovreste essere voi a dirmelo?»), mentre l’ignaro ministro Mario Catania si congratula con lui e parla di «valore aggiunto».

A equivoco sciolto, resta Franco Braga. Che però non ha giurato insieme agli altri, indispettito dal cambio di poltrona. In queste ora sta prendendo la sofferta decisione. Quando giurerà? Al ministero non lo sanno: «Aspettiamo notizie». Palazzo Chigi minimizza: «A giorni giurerà». Il presidente di Fedagri Confcooperative, Maurizio Gardini, anche lui ingannato dall’equivoco, stima «entrambi» ma è chiaro: «Pur non conoscendo nessuno dei due accademici, basta dare una rapida lettura ai due curriculum per scorgere quale dei due profili sia più adatto. Visto che nel comparto agricolo è in corso un difficile negoziato in Europa, sarebbe evidentemente un gran vantaggio per il nostro ministro tecnico Catania l’essere affiancato da un sottosegretario altrettanto tecnico e che abbia una comprovata esperienza nel settore». Cioè, da Francesco Braga.
Il quale, tra un’intervista alla Bbc e una a Sabelli Fioretti e Lauro, ha appena ricevuto una email di scuse dal ministero: «Cortesissima. Non lo scrivono, ma tra le righe intuisco che avrebbero preferito me. Ho pieno rispetto per il collega, ma mi chiedo chi sia più adatto tra un ingegnere che si occupa di problemi sismici e un agronomo che si occupa di agribusiness». La neve e la distanza attutiscono le ultime parole di Braga. Che però si intuiscono: «Iddio protegga l’Italia». Alessandro Trocino, il Corriere della Sera, 1° dicembre 2011

4 NOVEMBRE 2011: GIORNO DELL’UNITA’ NAZIONALE E GIORNATA DELLE FORZE ARMATE

Pubblicato il 4 novembre, 2011 in Cronaca, Storia | No Comments »

4 novembre: “Giorno dell’Unità Nazionale” e “Giornata delle Forze Armate”

Le celebrazioni del 4 novembre, “Giorno dell’Unità Nazionale” e “Giornata delle Forze Armate’”, sono iniziate questa mattina alle 09.00, con la cerimonia dell’alzabandiera e la deposizione di una corona di alloro al Sacello del Milite Ignoto presso l’Altare della Patria, da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.


Il Capo dello Stato è stato accompagnato, oltre che dal Ministro della Difesa Ignazio La Russa, dai Presidenti del Senato e della Camera,   dal Presidente della Corte Costituzionale  e dal Capo di Stato Maggiore della Difesa Gen. Biagio Abrate. Alla cerimonia hanno altresì partecipato Autorità politiche, civili, religiose, i Vertici delle Forze Armate e numerosi cittadini.

Successivamente il Presidente della Repubblica, insieme con il Ministro della Difesa, si è recato al Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.


…………Alle 11 di questa mattina il Capo dello Stato, on. Giorgio Napolitano, dopo la l’Omaggio all’Altare della Patria, ha fatto il suo ingresso, accompagnato dal Ministro dell Difesa on. Ignazio Larussa, nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove riposano le salme di 70 mila Caduti della 2° Guerra Mondiale, la maggior parte delle quali provenienti dai campi di battaglia del Mediterraneo, delle Isole greche, dell’ex Africa Orientale Italiana. Il Presidente della Repubblica ha deposto una corona d’alloro, raccogliendosi  in silenzio dinanzi ai Caduti, prima che il Ministro della Difesa pronunciasse un breve discorso.

E’  stata la prima volta che un Presidente della Repubblica ha partecipato  al Sacrario di Bari alla solenne cerimonia di omaggio ai Caduti nella ricorrenza del 4 Novembre. Siamo particolarmente grati al Presidente Napolitano per questo suo atto  di grande rispetto per i Caduti che a Bari, sulle sponde dell’Afriatico, riposano  per sempre di fronte al mare che attraversarono, pieni di speranza e forti della loro giovinezza, ignari della sorte e della morte cui andavano incontro,  caduti combattendo a testa alta contro il nemico. Tra tutti, e tutti meritevoli della nostra ammirazione e della nostra gratitutudine, ricordiamo i Caduti della Divisione Acqui, immolatisi a Cefalonia, subito dopo l’8 settembre, testimoniando con il loro Sacrificio che la Patria non era morta e che anzi essa risorgeva nel sangue della loro Fede. Tra i tanti della Divisione Acqui, che riposano lì, nel Sacrario che fu inaugurato nel 1967,   le cui spoglie furono accolte a Bari, nell’ormai lontano 1953, in una atmosfera di straziante commozione,  dal presidente Luigi Einaudi, v’è anche la salma del nostro concittadino Marcello Bonacchi, Medaglia d’Oro al Valor Militare. Fu sua madre che  fortissimamente volle che la salma dell’Eroe riposasse per sempre insieme a quelle dei suoi soldati, quelli che con l’esempio  aveva incitato a resistere difronte al soverchiante nemico, e degli altri sfortunati commilitoni. L’omaggio del Presidente Napolitano è l’omaggio di tutta la Nazione, di tutto un Popolo, di tutti noi che mai abbiamo rinunciato, neppure per un istante della nostra vita, ad aver fede nella Patria. Grazie, Presidente. g.

P.S. Domenica 6 novembre, con inizio alle ore 10 presso il Comune, avrà luogo la cerimonia commemorativa del 4 Novembre  organizzata dal Comune di Toritto, per conludersi alle ore 11,30 con l’omaggio alla lapide del Milite Ignoto.

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Pubblicato il 19 ottobre, 2011 in Cronaca, Politica | No Comments »

DI DAVIDE GIACALONE

Il ragazzo che durante gli scontri lancia l'estintore Non cadiamo nella loro trappola, non finiamo tutti quanti ostaggi dei violenti. Sono “solo” dei criminali, degli spiantati, gente che non vale l’inchiostro dedicato loro. L’errore è già stato commesso, consentendo loro di fermare i lavori dell’alta velocità in Val di Susa e lasciando credere che contino qualche cosa. Vanno solo individuati, arrestati e puniti, reprimendo una rete che non è un movimento politico (anche in quel caso andrebbe represso), ma un insieme di teppisti che puntano a imporsi scassando e a realizzarsi nella violenza. Quello fotografato nel mentre lancia un estintore dice: non sono un black bloc. Gli credo, più semplicemente è uno che merita la galera. Attenti anche a non credere che si debba limitare la libertà di tutti, per poterli ingabbiare. É sufficiente far funzionare la giustizia e affrontare senza paura i tanti che sono pronti a dir minchionerie sul disagio sociale, l’esclusione, le loro buone ragioni e la necessità di comprenderli. Non c’è un accidente da comprendere, questa è gente che sfascia per il gusto di sfasciare. Non servono leggi d’emergenza, semmai servono leggi ragionevoli e serie. Prendete il caso concreto delle telecamere e delle intercettazioni telefoniche: a Londra sono strumenti di prevenzione, utilizzati dalle forze dell’ordine, in Italia sono o materia per discutere (del tutto a sproposito) di privacy, oppure roba messa nelle mani dei magistrati che sbobinano per poi passare ai giornali. La legge deve cambiare, ma nel senso di offrire più garanzie ai cittadini e all’ordine pubblico, prendendo esempio dagli inglesi: le intercettazioni non sono prove, ma strumenti d’indagine, non si depositano e non si pubblicano, non arrivano al magistrato (se non in casi eccezionali), ma si usano per prevenire e per raccogliere prove, con le quali, in pochi giorni, si ottiene la condanna di chi mette a ferro e fuoco le piazze. Non lasciatevi distrarre da questi criminali, né lasciatevi traviare da chi vi suggerisce di doverli «capire». Se siamo nei guai è perché la nostra giustizia non funziona e non è capace di condannarli alla giusta pena (non esemplare, giusta). Corriamo dei rischi perché la giustizia ha deragliato. Rimettiamola sui binari e puniamo la teppa. Saremo più sicuri e più civili.  Davide Giacalone, Il Tempo, 19/10/2011