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SERVI LIBERI A DESTRA, CAROGNE A SINISTRA. E IN MEZZO I VIGLIACCHI. di MARCELLO VENEZIANI

Pubblicato il 17 giugno, 2011 in Cultura, Politica | No Comments »

Servi qui, carogne là e nel mezzo i vigliacchi. Se vuoi semplificare il panorama italiano poi finisci co­sì. La servitù è l’unica categoria in­terpretativa usata per giudicare il berlusconismo. Non si fanno ana­­lisi, non si notano differenze, non si valuta nel merito ma a priori e in mucchio. È solo questione di servitù. La plebe avrebbe seguito Berlusconi perché volgare, im­morale, disonesta e vota con la pancia. Salvo redimersi votando con la pancia in direzione oppo­sta. E invece chi scrive, parla, pen­sa (o meglio dice di pensare) nel versante berlusconiano lo fa solo perché asservito e pagato. Per sancire lo spartiacque tra liberi e servi si pubblicano e si ripubblica­no opere sulla servitù, da Milton a Stuart Mill e a De la Boétie, per non dire di intere collane dedica­te ai servi cortigiani e ai liberi indi­gnati. Accanimento cresciuto da quando Giuliano Ferrara ha lanciato i liberi servi, che a sinistra traducono in servi volonta­ri. Non entro nel gioco inverso accu­sando d i servilismo chi s i accoda al­la propaganda antiberlusconiana e si allinea a l potere culturale. M i limi­to solo a dire che se quattro voci di­cono l a stessa cosa e una l e contrad­dice, il conformismo riguarda i quat­tro e non il singolo. E il rapporto tra propagandisti anti-berlusconiani e filo-berlusconiani è quello: 4 con­tro 1.

Ma vorrei entrare nella categoria di servitù con spirito d’indagine e non d i fazione, per tentare una feno­menologia della servitù vera e pre­sunta. Sotto l’accusa di servitù c’è una tipologia molto differenziata. C’è chi è animato da forte spirito di appartenenza e radicalizza il «noi e loro»; ma non è un servo, semmai u n militante. C’è chi è spinto dal cul­to del Capo, per indole monarchica o predilezione decisionista, una ten­denza diffusa nei Paesi latini; egli non è u n servo m a u n seguace, a l più bisognoso di figure paterne. E così chi riversa nel legame politico qual­cosa che somiglia alla devozione, patriottica o religiosa, o perfino al­l’antagonismo sportivo. Sarà tifoso, sarà devoto, ma non servo. C’è poi chi liberamente e criticamente para­gona il leader a i suoi rivali e preferi­sce lui a loro.

Costui può esprimere giudizi giusti o sbagliati, m a è tutt’al­tro che un servo. C’è invece chi in­staura col leader u n rapporto d i pre­stazione professionale: tu mi paghi o m i gratifichi e i o ti sostengo aperta­mente. Costui più si avvicina alla tipolo­gia del servo professionale; perché i l suo può essere, sì, un rapporto for­malmente corretto e alla luce del so­le, però non trattandosi di barbe e capelli ma di libere opinioni non può trincerarsi dietro la logica del «cliente ha sempre ragione, mi pa­gano e io do quel che vogliono». Al più, h a un’idea avvocatizia della po­litica. C’è il girone endemico degli opportunisti, antica tara nazionale. C’è poi chi ha l’innata e gratuita tendenza a compiacere il leader, a blandirlo, per indole servile; c’è chi è scioccamente asservito (l’utile idiota) e chi viceversa lo è in malafe­de (servo infedele), pronto a voltar le spalle e perfino ad accusare di ser­vitù gli altri solo perché non h a avu­to quel che voleva o ha cambiato li­vrea. C’è poi l’orgoglioso che insiste nel difendere il suo leader anche quando questi ha torto o cade nel discredito e d è perdente; vuol dimo­strare che lui è leale, non lo serviva quando era potente e lo difende ora che è caduto i n disgrazia. Costui sa­rà un testardo, un decadente o un uomo d’onore m a non rientra nella categoria del servo. C’è poi chi è vici­no al potente non per servirlo ma per consigliarlo. Costui non è servo m a al più badante, e aspira a diven­tare suggeritore del suo leader. Pec­ca forse di presunzione o velleità, non di servilismo.

Vi sono poi altre forme di servitù non ad personam ma al partito, al conformismo di setta, di clan o al potere ideologico vigente. Non è servilismo anche questo? C’è poi chi commette crimini peg­giori della servitù, come l a negazio­n e della verità e dei fatti, l a subordi­nazione del vero a ciò che gli è utile sostenere; usa l’omertà, l’omissio­ne, disconosce meriti e valori per un pregiudizio di setta o di ideolo­gia. Costoro servi non sono, m a spre­gevoli e nocivi più dei servi. O colo­ro che bollano gli altri come servi perché non concepiscono diversità di opinioni ma solo di convenienze. A loro si addice un detto di Nietz­sche: per i porci tutto sa di porco. Rinfacciano agli altri la propria in­dole e la propria unità di misura.

C’è un criterio efficace per valuta­r e il grado di servitù. Provate a sepa­rare il soggetto in odore di servitù dal suo vero o presunto padrone e notate se sul piano delle opinioni mantiene le stesse idee oppure no, ovvero se aveva già prima quelle idee e s e l e h a anche dopo. E sul pia­no personale provate a verificare se, lontano dal potere, cosa rimane di lui, se conserva il suo prestigio, la sua credibilità.

Guardate infine alla sua biografia, se è stato sempre dalla parte del po­tere o se magari per lungo tempo ha scelto scomode opposizioni, da emarginato senza padroni. Così si misura la sua indipendenza dal po­tere o il suo tasso di servitù. Insom­ma, evitate processi sommari, con­danne etniche, riduzioni del nemi­co a razza servile.

Altrimenti dovremo concludere come abbiamo cominciato: a destra i servi, a sinistra le carogne e nel mezzo i vigliacchi.

IL PROGRAMMA TV DI SGARBI FA FLOP. LUI: HO PERSO MA NON CEDO ALLA TV BANALE

Pubblicato il 20 maggio, 2011 in Cultura | No Comments »

DI VITTORIO SGARBI

Difficile situazione. Non posso non assumere tutta la responsabilità dell’insoddisfacente risultato della trasmissione che fu Il mio canto libero ed è stata Ci tocca anche Sgarbi. In realtà è toccata a pochi. E quei pochi (due milioni) sono prevelentemente apparsi soddisfatti se devo giudicarlo dalle congratulazioni verbali, dalle telefonate, dai messaggi telefonici dalle e-mail che hanno sommerso me e i miei collaboratori, tutti unanimi nel riconoscere l’originalità e la novità della trasmissione dalle scenografie agli argomenti, alle sigle, alla ricostruzione della mia storia televisiva con riferimenti a Federico Zeri, a Francesco Cossiga ed altri modelli come Buster Keaton nella sua resurrezione televisiva.

Devo riconoscere che, pur nella consapevolezza di alcune sbavature e nel difficile rapporto con gli ospiti, dal vescovo di Noto a mio figlio Carlo (apprezzatissimo e premiato con il 14% di share) Morgan, Carlo Vulpio, non avrei pensato a risultati così modesti per la naturale considerazione che ho di chi, come persona, guarda la televisione e per la convinzione di persuadere all’attenzione con gli argomenti e la dialettica come ho dimostrato in innumerevoli circostanze.

E invece no. Non è bastato. Raiuno, come molti mi avevano preannunciato, ha spettatori tradizionali abituati a un’offerta facile di prevalente intrattenimento, in prima serata. Così è accaduto, insistere su Raffaello e Michelangelo e poi, addirittura, deviare su Filippo Martinez e Luigi Serafini, contemporanei più intelligenti che provocatori, è troppo audace.

Pretendere poi di parlare della bellezza dell’Italia, del paesaggio, del mondo agricolo perduto con il conforto di Leo Longanesi, Guido Ceronetti, Pier Paolo Pasolini, Thomas Bernhard, Cesare Brandi, Carlo Petrini è un azzardo intollerabile se su un’altra rete c’è una partita di calcio o Chi l’ha visto?. L’assassinio di Melania è molto più attraente che non la richiesta di riflettere sull’articolo 9 della Costituzione o di ascoltare le parole struggenti di Antonio Delfini sul padre. E poi i dirigenti della Rai richiamano i valori, e indicano la necessità che il servizio pubblico contribuisca alla formazione e alla libertà delle coscienze. Tutte parole.

Ieri ho letto soltanto una sconfortante serie di banalità a cui è impossibile rispondere perché non sono neppure in grado di ascoltare. Un giorno potremo aggiungere i loro nomi a quanti hanno deliberatamente contribuito a distruggere l’Italia, a sfregiare il suo paesaggio. Non se ne accorgono, parlano per luoghi comuni, chiamano centrodestra tutto ciò che non corrisponde alla loro, perfino ingenua, attrazione per il pensiero unico. E il loro unico problema è «quanto è stato speso», «chi pagherà il conto». Una preoccupazione che ossessiona le loro menti ma non le attraversa quando riguarda i costi del cinema, del teatro, della lirica, per cui nessuno si chiede «quanto costa» e anzi si protesta se si minacciano tagli di fondi.

Nella televisione dilagano soltanto voyeurismo e pettegolezzo, piccoli e grandi scandali, orride cucine e tinelli, consumismo e banalità. Ma questo è ciò che il pubblico vuole, secondo i dirigenti Rai, e la televisione non ha responsabilità educative, deve badare ai conti, nessuna riflessione sul fatto che nella tv si specchi la realtà e si formino i modelli culturali e che non comprendere la necessità di esprimere altri e diversi pensieri equivale a considerare che la scuola debba accomodarsi ai gusti e al piacere degli studenti rinunciando ad argomenti difficili. Perché leggere Leopardi, Guicciardini e Foscolo se agli studenti piace Jovanotti o il Grande Fratello?

Con questi principi ogni ipotesi di televisione legata al pensiero lascia il posto all’intrattenimento facile, alla pigrizia dell’ascolto. Così io non ho nulla da rivendicare e non ho alcuna intenzione di correggere, emendare o cambiare i miei argomenti che si esprime nella televisione che faccio in ogni situazione, anche nella contaminazione; ma, tanto più, se io la devo costruire come forma del mio pensiero, sono anzi certo che se l’ascolto fosse stato più alto le mie idee non sarebbero state criticate come se si potesse misurare la loro efficacia o il loro peso nella quantità di persone che le ascoltano. Questo sembra volere la Rai, non una televisione che indica ed educa suggerendo letture, stimolando suggestioni, curiosità.

Per quelle pagine e per quei pensieri io ho immaginato uno studio meraviglioso, derivato dalla «Scuola di Atene» di Raffaello, non l’avrei contaminato con le vicende di Avetrana o le storie di Ruby; mi sarei astenuto dall’ossessione di occuparmi in modo pressoché esclusivo (come «Annozero» o «Ballarò») del nostro presidente del Consiglio. Non sono stato premiato ma non cambio idea, d’altra parte ricordavo ai miei severi critici, che forse non hanno ascoltato le belle pagine di Antonio Delfini, che da molti anni nei giornali la terza pagina è stata spostata verso la fine dei giornali, nei più piccoli fra pagina 19 e pagina 25, sul Corriere ad esempio dopo le Cronache regionali, intorno a pagina 50 (ieri a pagina 55). Cosa vuol dire? Che si accetta che molti non ci arrivino, o non le leggano, in esatta corrispondenza con il modello televisivo, per cui la cultura, i libri, le mostre vanno in terza serata. Una scelta rassegnata e obbligatoria.

Ma come si può sperare che un paese rinasca, che nuove idee si agitino se la televisione ha paura della cultura perché fa insufficienti ascolti, e allora non bisogna insistere, tentare di affermare un altro modo di fare televisione che non siano dibattiti regolati e confezionati ma discorsi e riflessioni argomentate, di uno scrittore (l’altroieri Gavino Ledda) di un vescovo (il teologo Antonio Staglianò), di un giornalista appassionato come Carlo Vulpio, di un cantante colto e originale come Morgan?
No. Bisogna rassegnarsi, rinunciare a una televisione diversa, accettare la legge dei numeri, chiudere tutto e lasciare spazio a pacchi, isole e caricature forzate di finti personaggi. Raiuno deve difendere la propria mediocrità e rinunciare ad ogni ambizione di mostrare forme, immagini, idee nuove. Benissimo. Obbedisco. VITTORIO SGARBI.
………… Il fatto che Sgarbi faccia autocritica non è cosa di poco conto e il fatto che riconosca che la puntata , la prima,   e pare l’ultima, del suo programma,  abbia fatto flop, è sicuramente segnale di profonda onestà intellettuale. Questa non manca a Sgarbi che può unirvi  la sua profonda e vasta cultura, quella che gli consente, talvolta al di sopra delle riga, di salire in cattedra e di urlare le sue ragioni. Quella, per esempio, che richiama nella sua autocritica a proposito delle preferenze dei telespettatori. Che ai programi di cultura preferiscono quelli di gossip, e spesso quelli che si basano sulla morbosità. Ha ragione Sgarbi in questo,  ma è anche per questo  forse che varrebbe la pena di ritentare. g.

PDL CONTRO PROFESSORI POLITICIZZATI: SOSPESI PER 3 MESI

Pubblicato il 12 maggio, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Roma - Tre mesi di sospensione ai prof politicizzati che scambiano le aule per palchi da comizio. I professori che faranno propaganda politica o ideologica nelle scuole potranno essere puniti con la sospensione dall’insegnamento “per almeno 1-3 mesi”. Lo prevede la proposta di legge presentata alla commissione Cultura della Camera dal deputato del Pdl Fabio Garagnani. “L’importante – sottolinea il parlamentare – era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori. Le sanzioni dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo. La propaganda politica non può trovare tutela nel principio della libertà dell’insegnamento enunciato dall’articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un’altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica”.

A vigilare che questo non avvenga, spiega ancora il deputato del Pdl nella sua proposta, dovrà essere “il responsabile della scuola”, cioè il dirigente scolastico. Garagnani, modificando il Testo unico sulla scuola, propone anche una norma che specifichi come l’insegnamento della religione non possa essere considerato semplicemente “lo studio della storia delle religioni”.

.…In astratto la proposta ci vede d’accordo. Il problema è la sua pratica attuazione. Purtroppo, a meno che tutte le lezioni non siano videoregistrate, sarà molto difficile dimostrare che il tal professore ha fatto propaganda in aula a sostegno delle sue idee politiche che è giusto che abbia ma che è bene che le tenga per sè. D’altra parte non è poi tanto necessario per propagandare le proprie idee che il tal professore le espliciti espressamente, gli basta dare un certo taglio piuttosto che un altro ad un fatto o ad una tesi perchè indirettamente trasmetti agli alunni il suo punto di vista piuttosto che un altro. Ci pare che siamo in un vicolo cieco e che non è tanto a valle che si deve intervenire quanto a monter, nel senso che il Valore dell’insegnamento deve tornare  ad essere precipuamente quello di trasmettere agli alunni  la capacità di autonoma valutazione e di personale critica dei fatti. A dirlo ci vuol niente, è a farlo che appare ed è una difficile scalata del Monte Bianco non avendo gli arnesi adatti. g.

INCREDIBIULE: AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO SCOMPAIONO I GRANDI DELLA LETTERATURA E SI SPAZIO AL SOLITO SAVIANO E AL SUO GOMORRA

Pubblicato il 12 maggio, 2011 in Cultura | No Comments »

Il Salone del Libro di Torino Noooo, Saviano nooo. Il guru anticamorra, il divo delle inchieste giornalistiche rigirate in romanzo mettetelo ovunque – in tv, negli editoriali di Repubblica, nelle giurie dei premi letterari. Ma nell’olimpo dei testi «fondativi» dell’Italia no. E invece oggi a Torino, in quello storico Lingotto che dalle utiliarie Fiat è passato ai libri, Roberto da Napoli s’è spaparanzato nel posto più ambito. Nella mostra «1861-2011. L’Italia dei libri» che disegna la biblioteca essenziale dello Stivale.

La faccenda funziona così. Nella rassegna sono stati inventati tre livelli. Diciamo dantescamente l’empireo, dove stanno i libri a un passo da Dio; il piano delle stelle fisse ovvero dei santi; gli altri cieli, che raccolgono gli angioletti di serie c. Ebbene, tra i 15 titoli eccelsi si è infilato «Gomorra». I «campioni» sono spalmati ciascuno su un decennio, con confini piuttosto labili e criteri non condivisibili (li hanno scelti prof, rappresentanti delle istituzioni e della filiera del libro). E allora eccoli qua sopra i «superautori»: Nievo, Collodi, De Amicis, Pascoli, Ungaretti, Svevo, Montale, Moravia, Primo Levi, Guareschi, Calvino, Gadda, Tomasi di Lampedusa, Eco e appunto Saviano.

Ohibò, e gli altri? Nel secondo livello, in un truppone di 150 nomi dove si cerca di fare ammenda e si infilano i libri che hanno contribuito a plasmare «il gusto e il costume». Ci hanno infilato, bontà loro, colossi che dovevano stare nella prima scelta: il Verga dei «Malavoglia» (1881) e «Canne al vento» della Deledda (1913); i «Lirici greci» tradotti nel 1940 da Quasimodo, e l’Eduardo di «Filumena Marturano» (1947). E Pirandello? E Marinetti? E D’Annunzio? Nel terzo livello, tra i quindici che hanno «formato l’identità italiana». Come dire: sono importanti sì, però i loro scritti stufano. Ergo, prendiamoli come bandiera ma senza osannarli. Già, osanniamo Saviano. A prescindere. Lo impone il pensiero unico. Sul piazzamento di Roberto c’è molto altro da dire. Pubblica «Gomorra» nel 2006; nella lista, prima di lui, c’è Eco, con «Il nome della rosa» datato 1980. Vuol dire che per 26 anni non spunta nessuno degno di nota? Che conta meno Sciascia, autore di inchieste e romanzi di denuncia? O, per voler rimanere nel territorio della sinistra, Antonio Tabucchi? Se poi ragioniamo in termini di vendite, il posto di Saviano toccherebbe a Camilleri. Ogni suo libro è un best seller (e ne scrive a iosa, non si sa come). E poi ha rilanciato il giallo italiano. Il fatto è che al Lingotto si è voluta fare la graduatoria ma senza osare, con la fissazione del politicamente corretto. Moravia è un mostro sacro, ma al suo posto ci doveva andare la moglie, Elsa Morante, con quel monumento che è «La storia». E non è più suggestivo, arcano, stimolante «Il deserto dei tartari» di Buzzati rispetto a «Il barone rampante» di Calvino? E perché non sistemare tra i primi quindici l’«Estetica» di Croce? O il Gobetti del manifesto «Intellettuali fascisti e antifascisti» e il Gramsci di «Lettere dal carcere»? Altro grande escluso, il futurismo: Marinetti è nel terzo elenco e di Palazzeschi si sceglie «Le sorelle Materassi» e non il futurista «Perelà uomo di fumo».

Ci sono poi delle assenze gravi: dimenticato Stefano D’Arrigo di «Orcynus Orca» così come Guido Morselli, che sconta ancora oggi l’oblio che lo portò a suicidarsi. Niet per l’universo magico di Alberto Savinio, idem per Elemire Zolla che urtò assai l’intellighentia di sinistra con «Eclisse dell’intellettuale». Vabbè, per lavarsi la coscienza il «catalogo» del Lingotto ha lanciato anche il giochino del «Pozzo degli esclusi» in cui i visitatori possono ripescare il volume a loro caro, nel puro stile delle gare tivvù. Invece Il Tempo chiama a raccolta i suoi lettori. Scegliete voi il libro del cuore, quello «fondamentale» e indicatelo da oggi al nostro sito www.iltempo.it. Per fare giustizia.Lidia LombardI, 12 MAGGIO 2011


SCUOLA: ENTRO IL 2012 WI-FI PER TUTTI

Pubblicato il 10 maggio, 2011 in Cultura | No Comments »

L’annuncio del ministro Brunetta

Renato Brunetta (ImagoEconomica)
Renato Brunetta

MILANO – «Da oggi alle 12 (lunedì, ndr), diecimila scuole si potranno prenotare per avere la dotazione wi-fi». Lo annuncia il ministro della Pubblica Amministrazione ed Innovazione, Renato Brunetta, nel corso del forum Pa, parlando dell’arrivo della rete wi-fi a tutte le scuole italiane fino a coprire le stesse aule e quindi raggiungere gli studenti stessi. Si punta a completare l’operazione entro metà del 2012. Infatti, ha spiegato Brunetta, il piano toccherà «cinquemila scuole nei prossimi sei mesi e le restanti cinquemila nei restanti sei mesi successivi». Le scuole che si sono prenotate per avere il kit wi-fi sono già 800. L’investimento pubblico è di 5 milioni di euro per la prima fase e il progetto prevede il contribuito anche da parte di Regioni, fondazioni e altri enti per consentire una copertura totale. «Il mio sogno è quello di dare il kit per tutti i bambini delle scuole elementari» ha sottolineato ancora il ministro Brunetta. Fonte Il Corriere della Sera, 10 maggio 2011

LA CULTURA DI DESTRA? CLANDESTINA, MA VIVA

Pubblicato il 22 aprile, 2011 in Cultura | No Comments »

Chi ha ucciso la cultura di destra? Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlu­sconi, Fini, il suicidio. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sono le seguenti: a) l’egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla; b) l’egemonia sottoculturale del ber­lusconismo in tv e in politica l’avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata; c) l’insipienza della destra politica avrebbe de­molito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all’epilo­go indecente finiano; d) la cultu­ra di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza.

La riapertura del caso, dopo an­ni di silenzio, è dovuta alla ripubblicazione di un saggio di Furio Jesi, Cultura di destra (già Garzanti, ora Notte­tempo), uscito negli anni Set­tanta. È già un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un trattato di criminologia culturale. Jesi, che morì precocemente nel 1980, convoca in un tribunale ideologico grandi autori, da Eliade a Kerényi, da Evola a Spengler, fino a Pirandello e D’Annunzio, arrivando perfi­no a Carducci e a De Amicis, so­cialista patriottico qui accusa­to di razzismo. Per Jesi la cultu­ra di destra è connotata dal raz­zismo e dall’antidemocrazia, dalle «idee senza parole», dalla mitologia irrazionalistica e dal culto della morte. Jesi liquida la cultura di destra come «una pappa omogeneizzata» (se c’è una cosa che ripugna alla cultu­ra di destra è la pappa omoge­neizzata) che esige valori non discutibili con la maiuscola: «Tradizione e Cultura, Giusti­zia e Libertà, Rivoluzione». È curioso notare che eccetto la Tradizione, quei valori sono di­chia­rati indiscutibili e maiusco­li a sinistra; Giustizia e Libertà è pure il nome di un movimento antifascista di ieri e di oggi.

Nella prefazione alla nuova edizione, che ignora i numerosi saggi sul tema usciti nel frattem­po negli ultimi 32 anni, Andrea Cavalletti sostiene che la cultu­ra di destra è «caratterizzata, in buona o in cattiva fede, dal vuo­to ». Ora, a parte l’assurdo di de­dicare centinaia di pagine al «vuoto», ne avessero dalle sue parti di «vuoti» come quei gigan­ti del pensiero e della letteratu­ra prima citati… E conclude allu­dendo, come è ovvio, a Berlu­sconi: la cultura di destra ama la relazione tra «la moltitudine e il vate» e perciò si ritrova nel pre­sente: «un simile benefattore è il tipo politico dei nostri giorni», «il linguaggio delle idee senza parole è la dominante di quan­to oggi si stampa e si dice» (ma che dice? Oggi dominano le pa­role senza idee e la stampa non è certo in mano alla cultura di destra) e la cultura di destra è egemone perché «ciò che la ca­ratterizza è la produzione del vuoto dal vuoto» (ma crede che Evola e Spengler siano i precur­sori di Lele Mora e Fede?). Con un livello così misero, capite il disagio nel discutere sulla cultu­ra di destra. E capite perché ne­ghino ancora, al più grande filo­sofo italiano del ’900, Giovanni Gentile, una via a Firenze dove fu ucciso dopo aver predicato la concordia in piena guerra civi­le.

Ma torno alla domanda inizia­le su chi ha ucciso la cultura di destra. Sono plausibili tutte le piste indicate ma a patto di chia­rirle meglio.
Certo, la cultura dominante di sinistra, dopo un periodo di dialogo e apertura, si è reincatti­vita e condanna la cultura di de­stra alla morte civile. Sono lon­tani i tempi in cui un editore co­me Laterza pubblicava, facen­do 15 ristampe, un saggio sulla cultura della destra di un auto­re di destra. In seguito, inaspri­to il clima, lo stesso editore ha declinato l’invito a integrare quel testo con i dialoghi dell’au­t­ore con Dahrendorf e con Bob­bio. Oggi dialogano solo se ti di­chiari antiberlusconiano. Ma la cultura di sinistra era egemone e faziosa già ai tempi in cui fiori­va la cultura di destra; dunque l’ipotesi è fondata ma non ba­sta.

Certo, la sottocultura televisi­va, il frivolo e il banale domi­nanti hanno reso straniera la cultura di destra, la fanno senti­re a disagio, fuori posto. Ma quella sottocultura imperversa­va dai tempi della Carrà e dei quiz, di Giovannona coscialun­ga e affini; e allora non c’era an­cora il berlusconismo. Insom­ma pure questa ipotesi è fonda­ta ma non basta.

Anche l’insipienza della de­stra politica è storia vecchia, Fi­ni l’ha portata al suo gradino ul­timo e più infame, ma sarebbe troppo ritenere che le sue piro­ette abbiano cancellato la cul­tura di destra. Quella cultura non viveva all’ombra di un par­tito; per la stessa ragione non può essere uccisa dalla politi­ca.

All’evaporazione, infine, non credo; piuttosto è vera la ra­refazione dei talenti, anche per il clima di cui sopra, tra nemici di fuori, ignoranti di dentro e il nulla che tutto pervade. Nel ge­nerale degrado della cultura, anche quella di destra spari­sce. Della cultura di sinistra so­pravvive la cappa di potere, l’as­setto mafioso e intollerante, non certo l’elaborazione di idee. Non mancano pulsioni autodistruttive, nella cultura di destra, derivate da pessimismo endogeno e sconforto esoge­no. Ma la cultura di destra ha dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, ed è tornata al Padre. Si è fatta invisibile e celeste, me­no legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale, liberata dalle categorie ideolo­giche. Quegli autori citati, no­nostante alcuni brutti risvolti, restano grandi ed è meglio che non siano sporcati nella conte­sa politica e siano lasciati alla loro grandiosa solitudine.

Al termine delle indagini sommarie, si può dire: la cultu­ra di destra non è stata uccisa e vive sotto falso nome; o forse fal­so era il nome di «destra» che le fu affibbiato. Per metà non la ve­diamo perché abbiamo perso gli occhi della mente, accecati dal livore presente e dalla nullo­crazia. Per metà non si fa vede­re lei, perché si è spostata su pia­ni diversi, impolitici. È passata alla clandestinità e non ha per­messo di soggiorno.

LA STORIA DEL 900 RACCONTATA DALLA SINISTRA: LE FOIBE SONO DELLE FOSSE E BERLUSCONI E’ UN FARABUTTO

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Costume, Cultura, Storia | No Comments »

In questi giorni divampa nel già rovente  clima della politica italiana un altro tema: quello della rivisitazione dei libri di storia nelle scuole italiane perchè siano raddrizzate eclatanti storture e ignominiose baggianate  che in questi testi, sui cui studiano i nostri ragazzi,  compaiono con grande compiacimento della sinsitra. La proposta,  avanzata da alcuni deputati del PDL, tra cui l’on. Carlucci e il ministro  per la Gioventù, Meloni, è destinata ad arroventare ancor di più lo scontro, perchè è evidente che una equilibrata narrrazione della storia apre la strada ad una diversa epiù oggettiva valutazione dei fatti. Sull’argomento  e sulle storture storiografiche operate dagli autori dei testi di storia attualmente inuso nelle scuole italiane,   ecco uno piccolo ma eloquente saggio di Francesco Maria Del Vigo.

I gulag? “In linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà e l’ignominia dei gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente (…)”. Il Manifesto? Un comizio di Toni Negri della metà degli anni Settanta? No, un libro di testo, uno di quelli che potrebbe finire sui banchi dei nostri figli: esattamente pagina 1575, quarta edizione (del 1998) di Elementi di storia del XX secolo di Augusto Camera e Renato Fabietti.

I libri di storia faziosi? L’argomento è tornato alla ribalta in questi giorni in seguito alla proposta di una pattuglia di parlamentari del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, di istituire una commissione d’inchiesta sulla faziosità dei libri di storia. Un tema che viene da lontano, sul finire degli anni Novanta avanzò una proposta simile Giorgia Meloni, allora segretario nazionale di Azione Giovani, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale. Un’iniziativa gloriosamente inascoltata: nessuno raccolse l’invito del futuro ministro della Gioventù. Ed è proprio dai dossier di allora che emergono le aberrazioni storiche contenuti in alcuni testi poco scolastici e molto politici.

Torniamo al testo. Una decina di pagine dopo le foibe vengono licenziate come: “uno sfogo dell’ira popolare”. Il terrorismo degli anni di piombo? A quello “nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria e fascistoide”.

Cambiamo libro e passiamo al Manuale di storia 3 L’età contemporanea di Giardina, Sabbatucci e Vidotto: “La politica staliniana in tema di nazionbalità non fu solo di carattere repressivo. Bisogan tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento”. Beh, se sono minoritarie…

Nel Vocabolario della lingua parlata in Italia Di Carlo Salinari le foibe sono spiegate così: “Fosse (…) in cui durante la guerra 40-45 furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista”. E qui siamo al paradosso: la frittata è totalmente ribaltata. Viee da chiedersi da chi sia parlata questa fantomatica lingua…

E poi non può mancare Silvio Berlusconi, ancora in vita e saldamente al governo ma già storicizzato dagli intellettuali engagé e, ovviamente, descritto con le fattezze del cattivo. Sull’esposto del governo in cui si denuncia l’attacco della procura di Milano: “Qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio Di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale”. Questo è un testo per addetti ai lavori: Dizionario giuridico italiano-inglese di Francesco de Franchis.

La lista dei soggetti bersagliati dalla censura storiografica è infinita: dal fiumanesimo a Marinetti, da D’Annunzio a Nietzsche passando per poeti, pittori e personaggi pubblici. Omissioni, menzogne, morti che valgono meno di altri morti, solo perché sono caduti dalla parte sbagliata.  Francesco Maria Del Vigo

CI PARLA MALE, PENSA MALE. E LA SINISTRA PARLA MALISSIMO

Pubblicato il 23 marzo, 2011 in Cultura | No Comments »

È vero che molte parole sono scomparse dal lessico quotidiano: non ci sono più i «fotoromanzi», per esempio, non si gioca più a «flipper», non si parte più per la «villeggiatura» e tantomeno per il «confino» o la «naja». Tantomeno ci sono più gli «scapoli» né le «signorine», non ci si mette più la «brillantina» e non si parla più delle «plutocrazie» e la sera non si va al «night» a sentire Buscaglione e Carosone. Eppure a leggere il libro di Raffaella De Santis Le parole disabitate, edito da Aragno, anche se lei non lo scrive, ci si rende conto che la maggior parte delle parole sono state aggiornate e riabitate, e in questo senso vorrei chiosarlo suggerendo all’autrice le sostituzioni moderne. I «compagni», per esempio, ci sono ancora, si chiamano antiberlusconiani. La «controcultura» non è scomparsa, si è anzi affermata e bestsellerizzata, è quella che fa chiunque si opponga a Berlusconi, e ha preso il posto della cultura ufficiale: se ti appelli a Leopardi o De Roberto ti prende per un alieno anche colui che un tempo sarebbe stato definito un «professorino» e oggi conferisce la laurea honoris causa a Saviano che la dedica ai Pm di Milano che combattono Berlusconi. Idem per la «cultura giovanile», visto che perfino il grigio Bersani, Pierluigi non Samuele, durante un comizio il cui tema sono le dimissioni di Berlusconi, cita Vasco Rossi: «come dice Vasco Rossi: eh già!». Invece la vecchia «alienazione» marxista è stata sostituita dalle «vittime della propaganda berlusconiana», alle quali si contrappone la «società civile», antiberlusconiana per definizione. I «capelloni» non ci sono più, in tema tricologico si ama piuttosto evocare i capelli trapiantati di Berlusconi, argomento che, dopo anni, ancora ricorre nelle conversazioni provocando un obbligatorio brivido di sagacia satirica. La «dolce vita», va da sé, non c’è più, né in via Veneto né altrove, tranne ad Arcore, e si chiama bunga-bunga: nessuno ha ancora capito bene cosa sia esattamente e come funzioni ma tutti ne parlano perché suona strano, misterioso e esotico, tanto che lo stesso Berlusconi ci gioca e chiude gli incontri pubblici con l’invito corale «Venite tutti al bunga-bunga!», dimenticandosi però di dire dove e quando ma tanto nessuno ci fa caso. Il «dibattito» al Cine Club, il dibattito di C’eravamo tanto amati, «il dibattito no!» dell’autarchico Moretti è stato rimpiazzato dalla «lite» (si veda youtube), in particolare dai politici di destra e di sinistra che litigano in televisione su Berlusconi: chi a favore, qualsiasi cosa faccia, chi contro, qualsiasi cosa faccia. Il «commendatore», ha ragione la De Santis, non esiste più: «Il “commendatore” sapeva vestire, poi era simpatico e sapeva lusingare una donna; la quale cosa era molto apprezzata, soprattutto dalla “signorina d’ufficio”, una giovane che avrà avuto poco più di vent’anni, dunque per età e indole molto sensibile alle carinerie», verissimo, e però, a pensarci, oggi al posto del commendatore c’è il Cavaliere. Il «discorso» («il discorso della gelosia», il discorso «da portare avanti», il discorso interrotto, da riprendere, di cui riannodare i fili) è stato sostituito dalla «narrazione», parola come è noto molto usata da Nichi Vendola in svariate declinazioni (in frasi del genere: «La narrazione berlusconiana è piena di smagliature»). Quanto all’«emancipazione», specie se femminile, quella che gridava in piazza «l’utero è mio e me lo gestisco io» e «rivendichiamo il diritto alla proprietà del nostro corpo», oggi scende in piazza contro i corpi altrui, specie corpi di altre donne, e specie se il proprio corpo e il resto lo danno a Berlusconi. A proposito, la «piazza» regge, e anzi è la sede permanente dell’opposizione («la sinistra scenderà in piazza» non è più una notizia), quindi si scende in piazza ogni due settimane: per la dignità delle donne, vale a dire contro Berlusconi, in difesa della Costituzione, vale a dire contro Berlusconi, e perfino tatutologicamente contro Berlusconi, che è anche, in sintesi, il programma dell’opposizione. Non si parla più di «radio libere», casomai di «televisioni libere», qualsiasi emittente non sia di Berlusconi, e «giornali liberi», quelli non di Berlusconi. Il «campo» non evoca il campo di concentramento, «il recinto che chiude, il perimetro che nega l’aperto, la prigione fortezza», gli ebrei, Primo Levi, Adorno, Agamben, Auschwitz; oggi se dici «campo» viene solo in mente che Berlusconi è sceso in campo. Nessuno, d’altra parte, fa più del «volantinaggio», in compenso si è sommersi dalle mailing list di Micromega che annunciano ogni settimana una manifestazione contro Berlusconi alla quale poi non si presenteranno neppure quelli di Micromega. Non ci sono più le battaglie contro i «tabù» (le battaglie per liberarsi dai tabù sessuali, dal tabù del corpo, il tabù della nudità, il tabù dei pregiudizi) né i «perbenisti» né i «bigotti», e però mentre un tempo l’Azione Cattolica si scandalizzava per il bikini, perché «contrario al pudore cristiano della nostra terra», oggi ci pensano gli oppositori alle scosciature delle veline come Gad Lerner e a brandire le tavole mosaiche la Presidente del Partito Democratico Rosi Bindi («Berlusconi ha violato il secondo comandamento»). Non esiste più il «Piccì», ma neppure il PDS, tantomeno i DS, e tra poco finirà il PD: oggi l’essenza del partito di sinistra è rappresentato dalla parola «oltre», che non significa oltretomba, come ha malignato Oliviero Toscani, ma oltre Berlusconi, così, tanto per essere autonomi negli orizzonti. Infine sarà anche vero, come dice la De Santis alla voce «playboy» del suo libro-dizionario, che «abbiamo imparato tutti a giocare, trasformandoci in una playhumanity in cerca di eccitazioni momentanee» e quindi «finisce che il vecchio playboy non sappia davvero con chi flirtare», ma alla fine, se proprio vogliamo, indovinate chi è l’ultimo playboy? 23 MARZO 2011

SAVIANO E LA MACCHINA DEL FANGO: OSSESSIONE CHE LO COPRE DI RIDICOLO

Pubblicato il 17 marzo, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Sarà colpa della stanchezza dovuta al massacrante tour cui l’editore Feltrinelli lo sta costringendo per promuovere il nuovo tomo Vieni via con me: le presentazioni in libreria (una al giorno, da Nord a Sud dello Stivale) e le apparizioni a ripetizione nei programmi televisivi – per lui che ha sempre detto di vivere blindato, segregato per motivi di sicurezza – devono essere parecchio faticose. Fatto sta che ormai Roberto Saviano vede fango dappertutto. Le osservazioni di Libero non gli vanno a genio? Subito tira in ballo la Macchina del Fango. Il Tg1 gli fa notare un’imprecisione? Di nuovo dà la colpa alla Macchina del Fango. E se al risto- rante gli dovessero servire un piatto di spaghetti poco saporiti, che farà Saviano? Dirà che li hanno conditi con il fango?

La psicosi sulla melma gioca brutti scherzi all’autore di Gomorra. L’ultimo dei quali riguarda il direttore uscente del Sole 24 Ore, Gianni Riotta. Appreso che il giornalista non avrebbe più guidato il quotidiano di Confindustria, Saviano ha immediatamente trovato traccia di un complottone, una oscura trama di cui è responsabile – di nuovo! – la Macchina del Fango. Lo scrittore campano ha dichiarato alle agenzie: «Mi dispiace molto che Gianni Riotta abbia deciso di lasciare il Sole 24 Ore, perché la sua direzione ha realizzato un giornale libero, con al centro la battaglia contro la mafia». Come mai Gianni ha mollato l’incarico? Colpa, dice Saviano, delle bugie prodotte in serie dalla Macchina del Fango di cui sopra: «Il fango insinua che con la direzione Riotta il Sole perdeva copie, la verità è un’altra e basta vedere i dati reali, in Italia fare il giornalista è un mestiere pericoloso se si vuole essere liberi e senza condizionamenti». Ecco fatto, con l’imposizione delle sue mani dotate di stimmate da romanziere impegnato, Saviano ha tramutato Riotta in un martire, un giornalista scomodo che qualcuno ha voluto eliminare perché parlava di mafia.

Il fatto singolare è che a smentire Robertino è intervenuto proprio un giornalista ed ex componente del comitato di redazione del Sole 24 Ore, Nicola Borzi, il quale ha inviato agli organi di stampa una lettera in cui si legge: «Il tono della “lotta antimafia” di Riotta è sempre stato a corrente alternata: forte con la criminalità “bassa”, quella che strangola i commercianti col pizzo (specie se i commercianti in questione sono i suoi cugini della “Antica Focacceria San Francesco” di Palermo), debolissimo, quasi assente, con la criminalità “alta”, quella dei colletti bianchi». Borzi, s’intuisce dalla sua missiva, non è certo un fan di Berlusconi. Anzi, lamenta che Riotta avesse rifiutato un’intervista (poi pubblicata dal Fatto) a un banchiere siciliano il quale «negli anni ’80 incon- trò Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri» che chiedevano prestiti per conto di Silvio. Prosegue il giornalista del Sole: «Saviano (…)
fa un torto all’intelligenza dei lettori, offende noi che viviamo e lavoriamo in un’azienda in crisi (solo ieri sono stati pubblicati i ri- sultati del bilancio 2010: 40 milioni di perdite dopo i 52 e mezzo del 2009), sputa sui 27mila piccoli risparmiatori che hanno visto il loro investimento in azioni del Sole 24 Ore decurtato del 75% da una gestione editoriale fallimentare». Che il Borzi sia stato corrotto dalla Macchina del Fango? Non sarebbe il primo. Persino Marta Herling, nipote di Benedetto Croce – che è si sentita offesa da un passaggio del libro di Saviano contenente un aneddoto falso su suo nonno – secondo l’autore di Gomorra si sarebbe «prestata al gioco» della orrenda Macchina.

A noi, sinceramente, sorge un altro sospetto. Che Roberto, da rockstar letteraria qual è, si indi- spettisca quando qualcuno lo contraddice o critica i suoi amici. Per esempio Riotta, che da direttore del Tg1 gli dedicò una lunga intervista e sul Sole ha celebrato a ripetizione i suoi libri. E se si irrita, Saviano scomoda la Macchina del Fango. La quale è suggestiva e divertente, ma presenta una controindicazione: quando si gioca troppo con la melma, si rischia di finire coperti. Oltre che di fango, pure di ricolo. Francesco Borgonovo, Libero, 17 marzo 2011

150 ANNI: VERDE BIANCO ROSSO

Pubblicato il 17 marzo, 2011 in Cultura, Storia | No Comments »

Oggi si celebrano i 150 anni dell’Unità Nazionale. E’ quindi il giorno delle commemorazioni, non certo il momento delle polemiche, sebbene ne siamo  tentati: per esempio dal proverbio secondo il quale “il troppo storpia”, oppure dalle risposte che ieri sera parlamentari di tutti i partiti hanno dato alle domande delle Iene: una fra tutte, perchè Garibaldi era definito l’eroe dei due mondi? uno ha risposto: perchè Garibaldi ha combattuto (udite, udite) al nord e al sud d’Italia, oppure, ancora dalla ipocrisia di tanti che sino a pochi anni addietro hanno pensato all’Italia come ad una piccola contrada della grande madre Russia, come i comunisti, i quali per bocca di Bersani oggi  si sono definiti “i veri patrioti” e in polemica con la Lega che non ha partecipato alle manifestazioni unitarie si sono recati, dopo Napolitano, a depositare anche loro, evidentemente non identificandosi in Napolitano che rappresenta tutti, anche loro,  una corona al Vittoriano,  Monumento eretto dalla Nazione, nel 1911, in onore del Padre della Patria Vittorio Emanuele secondo e dove riposa per sempre il Milite Ignoto, simbolo di tutti i Caduti per la Patria che per molto tempo non fu la patria di Bersani e di quelli come lui…..e potremmo continuare ancora. Ma non è il caso. Preferiamo dedicare all’avvenimento,  che va celebrato ogni anno, anno dopo anno, come fanno i popoli che si riconoscono Nazione, l’articolo che oggi scrive il direttore de Il Tempo, Mario Sechi, non a caso intitolato:VERDE BIANCO ROSSO . I Colori, i Valori, i Prinicipi cui  ci siamo ispirati tutta la vita. g.

Palazzo Wedekind, sede de Il Tempo, illuminato per i 150 anni dell'Unità d'Italia Italia. Europa. Quando penso alla nostra nazione non posso fare a meno di associarla al Vecchio Continente. È un link meno automatico di quanto si pensi, soprattutto in questo scenario contemporaneo. E lo faccio perché guardo con preoccupazione alla sorte di entrambi. Il nostro Paese festeggia i suoi 150 anni di unità mentre l’Unione europea mostra segni di cedimento e tentazioni di ripiegamento che si conciliano forse con l’interesse di qualche Stato ma non con il destino comune di noi europei. Scrivo quest’ultima parola senza enfasi, ma penso che sia fondamentale guardare al nostro passato e soprattutto al nostro futuro in un quadro globale, in un teatro più grande di quello dei nostri confini, non disgiunto dalle fortune degli altri Paesi. Questo anniversario è un’occasione unica – e spero vivamente non episodica – per riflettere sulla costruzione della nostra unità, sui suoi motivi fondanti ieri e su quelli che la possono cementare, rafforzare, rendere dinamica e creativa domani.


Centocinquant’anni di storia sono un periodo lungo per una nazione e cortissimo per la storia del mondo. Il nostro carattere in un secolo e mezzo si è forgiato su alterne fortune e biografie tragiche, uniche, scintillanti. Un amico banchiere soleva dirmi: «Le cose sono più forti degli uomini». Vero, ma solo in parte. Perché gli uomini e le donne che hanno costruito questo Paese sono quelli che hanno messo in moto «le cose», le stesse che poi prendono vita autonoma e determinano la nostra esistenza.


Non farò una carrellata di personaggi, né cadrò nella tentazione agiografica o, peggio, nella retorica. Tuttavia, come possiamo parlare di Italia senza considerare la nostra grandiosa letteratura del passato? Come possiamo immaginare lo Stivale senza conoscere chi fu Camillo Benso di Cavour e quel personaggio incredibile, controverso e lucente come la lama di una spada, Garibaldi? È semplicemente impossibile concepire l’Italia senza queste figure. Quando ero un piccolo studente, il fascino del Medioevo e del Rinascimento mi conduceva verso il sentiero di un’Italia che ancora non c’era, eppure già palpitava nei testi poetici, nelle rime perfette del Petrarca e nella cosmologia grandiosa di Dante.


La memoria mi riporta sui banchi di scuola. Ieri e oggi ritrovo nel Manzoni il talento del narratore di una società in fieri, un magma in cui il genio del Gran Lombardo forgiava la lingua della nostra unità, edificando il nostro futuro di casa comune in una lingua comune a tutti.

Ognuno di noi porta con sé i frammenti di questa Italia, forse atomizzata, certamente un po’ dimenticata e sottovalutata. Voltarsi indietro però non significa abbandonarsi al facile sentimento dei «bei tempi andati». Non è così. Il nostro Paese ha vissuto anni terribili e ha dimostrato di saper costruire il suo avvenire nella pace, nella prosperità e nella solidarietà. Questi elementi non sono persi per sempre né sono spariti. Sono vivi, hanno bisogno di uno stimolo, di un orizzonte per ritornare ad essere energia viva. Ho la fortuna, ogni giorno, di poter scrivere e rappresentare le mie idee – e quelle dei miei lettori – su questo straordinario giornale che è Il Tempo. Anche noi abbiamo una nostra storia. Dal 1944 facciamo parte del libro della storia repubblicana e della borghesia italiana. Amo pensare al nostro quotidiano come a una «forza tranquilla», un punto di riferimento per chi nella tradizione e nel coraggio delle proprie opinioni ritrova il Paese che amiamo: quello che sa pensare e costruire. Bianco. Rosso. Verde. Viva l’Italia. Mario Sechi, Il Tempo, 17 marzo 2011