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DRAGHI A BRUXELLES: MA L’AULA DELL’EURPARLAMENTO E’ (QUASI) DESERTA

Pubblicato il 1 dicembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

A Bruxelles Draghi striglia i governi  nazionali del’eurozona. Ma la reprimenda cade nel vuoto: l’aula è deserta. Che fine hanno fatto gli eurotecnocrati che chiedono sacrifici?

Oggi non doveva essere di buon umore il portavoce del Fondo monetario internazionale, Gerry Rice. Ha fatto sapere che i tecnici di New York rivedranno al ribasso le stime di crescita nel World economic outlook che sarà pubblicato a fine gennaio.

Il presidente della Bce Mario Draghi

Il fatto è che gli allarmi e i moniti si rincorrono e si infittiscono. Se non è l’Fmi ad avvertire che le maggiori potenze economiche rischiano di entrare in recessione è la Confindustria a monitorare sull’inversione di rotta nella crescita del pil nostrano, altrimenti ci pensa l’Ocse a mettere in guardia i Paesi dell’Eurozona i cui sistemi produttivi si avvicinano pericolosamente allo zero. Anche i vari capi di Stato ci mettono un gran impegno ad avvertire e ammonire. I tecnocrati di Bruxelles, poi, sciorinano teorie a go go per risolvere la crisi economica. Eppure, nonostante i patemi d’animo e i continui rischi di credit crunch di alcuni Paesi, questa mattina il neo governatore della Bce Mario Draghi ha parlato parla all’Europarlamento in un’aula deserta.

A fronte di richieste sempre più esplicite sulla disciplina di bilancio agli Stati dell’Eurozona, dal presidente della Banca centrale europea sono giunti anche possibili spiragli di apertura su un rafforzamento, in chiave futura e ipotetica, degli interventi dell’istituzione contro le tensioni sui titoli di Stato. “Per prima cosa serve un accordo con delle regole sui bilanci e sugli impegni che i paesi intendono rispettare”, ha affermato questa mattina Draghi durante la sua prima audizione da presidente al Parlamento Ue in sessione plenaria. Già, una seduta plenaria ma deserta. Poche, anzi pochissime, le persone sedute tra i banchi ad ascoltare Draghi che metteva in guardia il Vecchio Continente per l’aumento delle tensioni sui mercati e dei rischi per la crescita. Dov’erano tutti i tecnocrati che da mesi chiedono al nostro Paese di fare presto, di fare sacrifici per una crisi che non è stata causata dai contribuenti italiani, di attuare riforme strutturali che in alcuni casi rischiano di essere impopolari? Forse la prima audizione di Draghi da presidente della Bce al Parlamento europeo non era poi così interessante? Questo non possiamo dirlo. Quel che è certo, però, è che con quel che costa ai contribuenti l’Europarlamento, sarebbe opportuno che i lavori a Bruxelles iniziassero a fruttare qualcosa nel tentativo di combattere la crisi economica: di allarmi e avvertimenti, i cittadini non ne possono proprio più. Il Giornale, 1° docembre 2011

EURO: COSA DICEVANO PRODI E COMPAGNI QUANDO VI (AP)PRODAMMO. E ORA E’ VIETATO DISCUTERE DI USCIRNE.

Pubblicato il 1 dicembre, 2011 in Economia | No Comments »

Lui si è sempre sentito un padre fondatore dell’euro. Tanto che Romano Prodi nel lontano 28 novembre 1996 ammise: «Ho legato il mio destino all’euro». Naturale che in tutti questi anni abbia magnificato i vantaggi della moneta unica. Per l’Italia, prima di tutto. «Siamo entrati nell’euro», disse il premier dell’Ulivo il 2 maggio 1998, «e già se ne vedono gli effetti: è calata l’inflazione, si sono abbassati i tassi di interesse, è cominciata la ripresa dell’occupazione». Ma non solo per l’Italia. Perché Prodi si innamorò subito dell’allargamento della moneta unica. E fece il matto per fare entrare anche la Grecia: «Sarei molto contento di vedere anche la Grecia nell’euro», auspicò da neo presidente della commissione Ue nel 1999.

E pochi mesi dopo: «Sono felice che la Grecia abbia chiesto ufficialmente di entrare». Fu proprio Prodi a certificare i conti pubblici truccati di Atene che da un paio di anni stanno rischiando di fare saltare l’euro. Il professore si profuse in lodi per quel governo di falsari. Tanto da applaudire così che nel giugno 2000 ad Atene: «Complimenti alla Grecia per i duri sforzi fatti per la stabilità. E oggi Atene vanta un tasso di crescita economica ben al di sopra della media europea, dopo avere fatto passi da gigante per ridurre inflazione e il deficit pubblico». Quelle bandiere sulle medicine che la moneta unica avrebbe portato all’economia italiana, non furono sventolate solo da Prodi. Anche Carlo Azeglio Ciampi era un euro-entusiasta, e il 7 febbraio 2000 accarezzò così la pancia degli imprenditori italiani incontrati al Quirinale: «Ricordate quanto si pagava più di interessi rispetto ai concorrenti europei? Prima dell’euro lo Stato italiano era considerato un debitore meno affidabile di altri stati. Ora siamo credibili quanto gli altri».

Qualche tempo dopo l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, Vito Tanzi, sostenne: «I vantaggi dell’euro sono enormi, molto più degli svantaggi. In Italia meno inflazione, meno tassi di interesse, meno debito pubblico senza penalizzare la crescita». Anche Massimo D’Alema, che pure non aveva fatto della moneta unica una religione, arrivato a palazzo Chigi ne magnificò le doti: «Dobbiamo sfruttare i grandi vantaggi dell’euro: stabilità, spinta verso lo sviluppo economico, bassa inflazione e crescita». Ancora anni dopo – eravamo nel 2004 – l’ipnosi della moneta unica sulla sinistra italiana era ben testimoniata da questa dichiarazione di Pier Luigi Bersani: «L’euro ci ha aiutato, eccome. Ci ha regalato tassi di interesse bassi e una stabilità monetaria che mai abbiamo avuto».

Avevano torto del tutto? No, non avevano torto. L’euro avrebbe dovuto portare in Italia minore inflazione, tassi di interesse più bassi, minore debito pubblico, stabilità finanziaria, maggiore crescita. Così dicevano gli esperti. E così per qualche tempo è stato. Ma oggi non è più. Non una delle ragioni macroeconomiche per cui fu adottato l’euro oggi è ancora testimoniata da una sola cifra di finanza pubblica. L’Italia fu ammessa nella prima fase dell’Unione monetaria europea fra molti contrasti il 25 marzo 1998. A quella data il Pil era cresciuto su base annua dell’1,9%. Al novembre 2011 la crescita annua è minore: 0,7%, con una possibile recessione in vista per il 2012. Oggi l’area euro impedisce la crescita italiana, che è decisamente inferiore a quella del decennio precedente alla moneta unica. Nel marzo 1998 l’inflazione era del 2%. Oggi è assai più alta: 3,3% appena rilevata a novembre 2011. E anche la promessa sui tassi di interesse si è rivelata un bluff. Quelli ufficiali sono più bassi oggi di allora. Quelli reali sono invece più alti. Per un Bot a 12 mesi lo Stato italiano nel marzo 1998 pagava 4,71% di interessi. Nel novembre 2011 lo stesso Bot a 12 mesi ha un rendimento del 6,087%. Questo significa più deficit pubblico e più debito pubblico. Ed entrambi i dati sono peggiori oggi che nel 1998.

Se tutte le ragioni per cui l’Italia entrò nell’euro oggi sono venute meno, non si capisce perché dovrebbe essere tabù dibattere sul possibile percorso inverso: posto che i dati certificano in questo momento solo svantaggi legati alla moneta unica, quale vantaggio esiste ancora? Ce ne potrebbero essere tornando alla lira? Più svantaggi o più vantaggi? In un paese normale questo dibattito sarebbe all’ordine del giorno. In Italia è invece vietato. di Franco Bechis, Libero, 1 dicembe 2011

MONTI ZITTISCE TUTTI: SULLE PENSIONI NON TRATTO.

Pubblicato il 1 dicembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Ha ufficializzato la data    – sarà il 5 dicembre – ma continua a tenere ben nascosto il conto finale della stangata di Natale. Mario Monti è determinato. Lunedì porterà sul tavolo del consiglio dei ministri la manovra sui conti pubblici. Un mix di misure complesso. Insomma, il solito pacchetto patchwork all’italiana. La cifra non è ancora chiara e  la forchetta resta ampia: da 10 fino a 30 miliardi di euro. Una correzione necessaria sia per tentare di arginare la speculazione finanziaria sia per rimettere le casse pubbliche al sicuro.

Sta di fatto che con in tasca la promozione Ecofin, il premier punta a una approvazione lampo. L’obiettivo, ambizioso, è di varare il provvedimento anticrisi nel giro di pochissimi giorni. Il Professore della Bocconi rifiuta l’accusa di essere in ritardo e, al contrario, rivendica i «tempi record» entro i quali sta portando avanti il lavoro a palazzo Chigi. Ieri Monti a Bruxelles ha presentato il piano dell’Esecutivo all’Unione europea e ha delineato le misure. Molti partner Ue avrebbero rimarcato la «forte credibilità» del nuovo Governo. «Rigore, crescita ed equità sociale» saranno i pilastri su cui poggeranno le misure allo studio. Che insisteranno sul rilancio del Pil non perchè il consolidamento sia «meno importante», ma semplicemente perchè il Governo precedente guidato da Silvio Berlusconi ha già fatto «passi significativi» sul rigore mentre ha latitato sulla crescita.

Di numeri, però, così come il suo vice all’Economia, Vittorio Grilli, il Primo ministro si è guardato bene dal parlare. L’unico dato che conferma è lo «zero» del saldo di bilancio che l’Italia rispetterà pienamente nel 2013. Ragion per cui saranno attuate le due manovre estive, affiancandole con  «ulteriori riforme strutturali». Misure, ha precisato, che avranno «effetti di riduzione» del deficit «nel breve periodo». Solo così, anche in caso di un «deterioramento del ciclo economico», si potranno rispettare gli impegni europei. Traguardo che dovrebbe essere agevolato anche dall’inserimento nella Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio (ieri il primo ok della Camera).

È buio pesto, però, sui dettagli delle misure del Governo. I  capitoli di intervento sono quelli annunciati alla Camera e al Senato: evasione, fisco, lavoro, dunque. Ma soprattutto pensioni. Terreno minato sul quale il premier aveva sorvolato in Parlamento nei suoi discorsi di insediamento. E proprio sul delicatissimo capitolo previdenziale, sul quale si trova già il muro dei   sindacati, Monti è stato lapidario: «Penso di agire rapidamente». Tant’è che potrebbero non esserci incontr ufficiali tra il Professore e i segretari di partito. Per le pensioni si configura una stretta importante, dal blocco della perequazione automatica all’aumento degli anni di contributi (oltre i 40), dal contributivo pro-rata per tutti all’anticipo al 2012 della riforma che aggancia l’età pensionabile alle aspettative di vita. L’obiettivo è garantire la tenuta dei conti pubblici non solo nel medio-lungo periodo ma anche nel breve. Sulla questione ieri si è registrata la levata di scudi da parte dei sindacati. Di fatto è scontro aperto tra Governo e sigle. Se Susanna Camusso della Cgil ha parlato di «40 come numero magico intoccabile», Raffaele Bonanni della Cisl ha chiesto invece «un confronto trasparente» per sapere che cosa il governo intende fare anche sulla patrimoniale e sulla spesa pubblica.

Le parti  non sono state ancora contattate dal nuovo governo. Almeno formalmente perchè sarebbero in corso contatti informali. Ma la richiesta è di vedere il pacchetto completo delle misure per poter valutare quanto i sacrifici siano distribuiti. Ieri Monti ha assicurato che «le consultazioni ci saranno» ma si è anche appellato «al senso di responsabilità» delle parti sociali e del Parlamento perché altrimenti «le conseguenze sarebbero molto gravi per tutti». E ha sottolineato che il Governo è stato chiamato per «fare cose che le ritualità tradizionali forse non hanno consentito di fare». Come dire che le trattative coi sindacati si vanno a far benedire. Più morbida la linea di Confindustria: la manovra «è necessaria» ed è «importante che ci siano anche misure che aiutino la crescita, perché il Paese è in recessione», ha detto   Emma Marcegaglia.

Altro tema caldo, le tasse sulla casa. Per quanto riguarda la fiscalità immobiliare si ipotizza un ritorno dell’Ici ma che potrebbe essere progressiva, in qualche modo agganciata al reddito o al numero degli immobili. E comunque coordinata con la nuova Imu prevista dal federalismo. Sulle rendite catastali la via più rapida sembrerebbe quella di una rivalutazione secca del 15%. Sempre in materia di tasse, possibile il rincaro di 1-2 punti per le aliquote Iva del 21% (che passerebbe al 23%) e anche del 10% (all’11%). Occorrerà verificare se questo spostamento del peso delle tasse sulle cose potrà vedere da subito anche un principio di alleggerimento dell’imposizione sui redditi da lavoro e sulle imprese. Libero, 1 dicembre 2011

SCATTA IL NUOVO REDDITOMETRO. SI DOVRANNO DOCUMENTAR ANCHE I REGALI.

Pubblicato il 30 novembre, 2011 in Costume, Economia, Politica | No Comments »

Scatta il nuovo redditometro Pure la paghetta sarà tassata

Meglio farsi lasciare ricevuta da papà. Anche per la paghetta settimanale. Perché quando lo studente universitario sarà chiamato dall’Agenzia delle Entrate per giustificare il cellulare o l’Ipod con cui si era fatto bello davanti agli amici,   bisognerà dimostrare da dove vengono i soldi per l’acquisto. Ed è meglio che quella ricevuta informale sia conservata anche dalla casalinga, pizzicata mentre faceva shopping. «Da dove vengono quei soldi? Da suo marito? Può dimostrarlo? Con quali documenti?». Perché dal primo gennaio prossimo saranno proprio questi i veri incerti del nuovo redditometro che al momento è solo in fase sperimentale. Più di cento voci di spesa di ogni contribuente saranno censite dal fisco e confrontate con i redditi dichiarati da ciascuno. Attenzione, non da ogni nucleo familiare, ma proprio dal singolo contribuente, che potrà essere pizzicato dall’Agenzia delle Entrate ed essere chiamato a difendersi nel contraddittorio. E non varrà trincerarsi dietro al fatto di essere “figlio di papà” o povera casalinga mantenuta dal marito. Perché il fisco mica si fa prendere in giro: vuole prove e controprove documentali. E se il capofamiglia è andato a intestare il motorino o l’Ipod al figliolo o alla moglie nullatenente solo per sfuggire alle maglie del fisco? Bisogna indagare, capire, avere risposte esaurienti. Se si è in grado di darle, naturalmente nessun guaio, e amici come prima. Ma con il nuovo redditometro il rischio di avere l’ispettore del fisco in casa è davvero alto.

Le cento voci di spesa che verranno confrontate con i redditi dichiarati sono un ventaglio davvero ampio. Alcune – come le spese veterinarie nuove indicatrici di grande benessere – hanno già fatto infuriare verdi e animalisti, altre come i versamenti a onlus o ad opere caritative, hanno fatto infuriare i cattolici. E l’idea che all’interno del nucleo familiare ognuno debba rispondere delle sue singole spese senza potersi riparare sotto l’ombrello naturale del capofamiglia, qualche brivido lo fa venire. Perché se utilizzato senza quella saggezza che naturalmente oggi l’Agenzia delle Entrate promette, potrebbe trasformare qualsiasi tranquilla famiglia in un burocratificio da museo degli errori. Da anni si discuteva di semplificazione e sburocratizzazione fiscale per le imprese (uno dei loro costi maggiori), e invece di procedere su quella strada ora si va a complicare la vita delle famiglie.

La saggezza dell’Agenzia delle Entrate sarà pure vera, ma quel che si vede già oggi agli atti delle varie commissioni tributarie provinciali e regionali non depone certo a favore. Il 21 marzo scorso ad esempio alla Ctp di Cuneo è approdata la storia di un giovane di 24 anni, da poco laureato ed entrato in uno studio professionale. Nel 2005 aveva dichiarato 3.456 euro di imponibile Irpef e nel 2006 poco di più: 9.324 euro. Piccole somme, ma è così per tutti durante il periodo di praticantato. Il fisco però lo ha pizzicato a bordo di una Chrisler Pt Cruiser del valore di 21.500 euro, acquistata nel 2005. Non solo: il ragazzo viveva da solo in un appartamento da 150 mq, che è risultato di proprietà dei genitori. Il fisco non ci ha pensato due minuti. L’appartamento sarà pure stato dei suoi, ma almeno il 50% del presumibile affitto andava imputato al ragazzo. L’auto non poteva essere acquistata con quello stipendio da fame. A questo sarebbe arrivato chiunque. Però capita a quell’età che non avendo ancora uno stipendio degno di questo nome, la macchina arrivi in regalo da papà o dai nonni o magari anche con qualche soldino messo da parte accumulando quei regali. Il fisco comunque contesta l’acquisto dell’auto al ragazzo.

Che risponde e produce anche un bel po’ di documentazione. L’auto è stata pagata per 5 mila euro con un assegno, per 3 mila euro con un assegno di mamma e per 13.500 euro con un normale finanziamento pluriennale (quindi a rate). La risposta non è bastata. E quei 5 mila euro come li aveva il ragazzo? E poi l’auto come la manteneva? E le spese di casa come se le pagava? Il fisco non ha sentito ragioni. Ha calcolato 4.364,43 euro di spese auto in un anno e 4.975,10 euro per l’anno successivo. Per le spese di casa 1.875 euro un anno e 1.947,75 euro l’anno successivo. Così l’Agenzia delle Entrate ha rettificato le due dichiarazioni dei redditi del ragazzo portando la prima da 3.456 a 34.229 euro e la seconda da 9.324 a 43.646 euro. E quindi pretendendo dal giovane, accusato di non avere abbastanza soldi per acquistare auto e mantenersi casa, nuove tasse presumibilmente con un nuovo prestito dalla madre. La commissione tributaria provinciale di Cuneo ha infilzato l’Agenzia delle Entrate e l’ha condannata anche a rifondere al ragazzo le spese del ricorso. Però ci sono voluti più di due anni, che hanno condizionato la vita di un ragazzo che aveva la fortuna di essere appena entrato nel mondo del lavoro. Il caso già ora non era affatto isolato. Il rischio con il nuovo redditometro è che diventi sempre più frequente. di Franco Bechis, Libero, 30 novembre 2011

MONTI…CHE FANTASIA!

Pubblicato il 29 novembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Si attende il 5 dicembre per conoscere le misure che l’emergenziale governo del ( nuovo)  professore Monti (il vecchio era Prodi!) ha messo a punto, facendole preventivamente “approvare” dai due “protettori” Sarkozy e Merkel, per risanare il debito pubblico e far “ripartire” la logora locomotiva Italia. In attesa che esse vengano date ufficialmente in pasto  anche al “poppolo”, ci pensano i giornali a dare qualche preavviso delle misure che scoppiano di “fantasia” tutta italiana. Si tratta di tasse, tasse e ancora tasse. E qualcos’altro che fa venire voglia di fare come in Egitto, in Tunisia e perchè no, anche in Libia. Oltre che nuove tasse sulla casa con la reintroduzione della odiatissima ICI, tra gli altri balzelli che il fantasista Monti,  che intanto si è accapparrato altri 25 mila euro al mese con la nomina a senatore a vita, ha intenzione di mettere,  ce ne sono alcuni che sono ignobili e riguardano i poveri cristi, cioè gli aspiranti pensionati e i pensionati in a.m.l (attesa morte liberatoria). Per i primi,  il super Mario pare sia intenzionato a disporre che la soglia dei 40 anni di contributi per andare in pensione sia innalzata a 42-43 anni, per i secondi invece il citato super Mario sta pensando di bloccare dal 1 gennaio 2012 il recupero dell’inflazione, mica quella effettiva, cioè il caro vita che falcidia le già miserabili pensioni del 99,99% dei pensionati italiani, ma addirittura quella formale, cioè quella che si aggira (falsamente) intorno all’1%. Insomma super Mario, che l’altro super italiano, super Giorgio detto il napolitano, ha insediato sulla sedia di primo ministro in virtù della trasformazione d’imperio della democrazia parlamentare italiana in impero presovietico, è davvero un portento di fantasia e di inventiva, tanto che se la prende con i più deboli, quelli che fanno quotidiana fatica a campare e a soppravvivere, con i quattro soldi della pensione,  mangiati dal caro vita e dalle bollette sempre più care, cioè i pensionati. Diceva Andreotti che a pensar male si fa peccato ma tante volte  ci si azzecca (un pò di Di Pietro non guasta mai!): non è che super Mario sotto sotto spera che dalla sera alla mattina, con queste sue misure   che avrebbe potuto prendere chiunque, senza aggiungere  ai già alti costi della politica (che nessuno taglia)  quelli di un goverro di non parlamentari da pagare a parte,  qualche milione di pensionati si tolga autonomamente  di mezzo,  e così, d’un colpo, faccia risparmiare tanti bei soldini all’INPS,  risollevando le strambalate sorti finanziarie di questo sgangherato paese? E vuoi vedere che a super Mario lo fanno diventare super santo? Direbbe l’indimenticato Giovannino Guareschi: cose che accadono  solo da noi, al sud del mondo! g.

MANOVRA DA 24 MILIARDI IN ARRIVO. COLPIRA’ LA CASA E L’EDILIZIA.

Pubblicato il 23 novembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Entro venerdì, massimo sabato prossimo, i tecnici di via XX Settembre saranno in grado di consegnare al neo presidente del Consiglio, Mario Monti, la revisione integrale della spesa pubblica (spending review). Insieme alla due diligence sui conti pubblici. E proprio queste analisi consentiranno al governo di farsi un’idea aggiornata dello stato dei conti e dell’effettiva necessità di cassa per arrivare nel 2013 al pareggio di bilancio.  Secondo gli sherpa del Fondo monetario internazionale e dell’Unione europea – che stanno spulciando i conti italiani dopo i nuovi picchi del differenziale Btp/Bund e l’ulteriore rallentamento del Pil – per centrare l’obiettivo servirà, entro dicembre, una correzione dei conti pari a 1-1,5 punti di Pil. Il che tradotto vuol dire che Monti deve trovare a breve circa 24 miliardi per far quadrare i conti. Tra nuove entrate e tagli alla spesa. E considerando che i presunti e ventilati proventi della lotta all’evasione non possono dare certezza di gettito (l’Agenzia dell’Entrate punta per il 2011 a 11 miliardi di incasso), logico attendersi misure certe di prelievo che possano tranquillizzare i signori dei conti di Bruxelles e Washington. E i mercati. ù
Batosta sul mattone E qui si torna ai provvedimenti per fare cassa. Di «scelte dolorose» ha parlato Monti e di «equità». Ma servono quattrini sonanti subito e quindi gli interventi sono limitati. L’Ici (inglobata nella nuova Imu), insieme alla revisione (soft) delle rendite catastali potrebbe far affluire nelle casse dei Comuni dai 3,5 ai 9 miliardi a seconda di quanto si calcherà la mano (con la rivalutazione), e di quali soglie di esenzione verranno applicate (reddito, disabili e figli a carico, unica proprietà, valore dell’immobile). Un bancomat di prelievo fiscale certo. Non a caso il direttore generale di Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni – presentando ieri a Parigi il “Financial Stability Report” – ha messo le mani avanti: «L’Italia è l’unico grande Paese senza una tassa sulla prima casa e una reintroduzione dell’Ici per l’abitazione principale è una delle vie utili per recuperare l’evasione fiscale». Sarà una coincidenza ma giusto lunedì sera il neogovernatore, Ignazio Visco, si è incontrato a tarda sera con Monti a Palazzo Chigi. Visco – già ad agosto – aveva evidenziato l’anomalia italiana in audizione parlamentare. Legittimo immaginare che si sia parlato anche del ventilato intervento sull’Ici.

La reazione di Confedilizia
Il timore delle associazioni di categoria (Confedilizia, Federproprietà, Uppi, Arpe) è che a furia di parlarne si riesca a far passare il messaggio che le tasse sulla casa non esistano. Confedilizia parla sarcasticamente di  «tassator cortesi»  e avverte che «la patrimoniale darebbe il colpo di grazia ad un settore che è già pressoché azzerato dalla tassazione erariale e locale». Per il presidente nazionale di Federproprietà, Massimo Anderson «è bene ricordare che sulla casa già gravano una decina di imposte diverse e che da qui al 2015 altre ne arriveranno». Anderson ha chiesto a Monti un incontro ma ci spera poco. Il Centro Studi dell’Associazione proprietà edilizia (Arpe, circa 300mila soci in Italia) ha elaborato per Libero una simulazione di quanto verrebbe a costare al proprietario di 100 metri quadri l’innalzamento degli estimi catastali. Un bel salasso che potrebbe colpire oltre il 70% degli italiani, vale a dire tutti quelli che al Catasto risultano proprietari. Senza contare che un inasprimento della tassazione sugli immobili – sempre secondo le associazioni di categoria – potrebbe portare ad un ulteriore rallentamento nelle compravendite e nel settore delle costruzioni, già praticamente disastrato dall’inizio della crisi globale.

Il  “Bancomat” Iva
L’altra leva di drenaggio allo studio potrebbe essere quella dell’ennesima revisione dell’Iva. Portando l’Iva al 22 (forse anche 23%) e aggiornando di un 1% quella oggi al 10%, si potrebbero incassare oltre 6 miliardi. Il dato è certo in quanto la manovra di agosto – che ha innalzato di un punto l’Iva al 20% -  prevede un gettito di 4,2 miliardi. Ma il rischio è di deprimere i consumi penalizzando anche quelli delle fasce di garanzia (con aliquota al 10%). E poi c’è il capitolo patrimoniale. Un’imposta sui patrimoni (non solo immobiliari), incontra la timida apertura della Lega. Luca Zaia, ex ministro dell’Agricoltura e governatore del Veneto che la preferirebbe alla riedizione dell’Ici. L’ex collega del Viminale, Roberto Maroni, crede invece che la nuova super maggioranza si impantanerà nei veti incrociati, mentre piovono ipotesi e proposte. Una cosa è certa: Monti ha fretta. Lo ha detto e ripetuto ieri a Bruxelles. Non appena il “Prof” avrà il quadro completo il governo si muoverà. Le pensioni – e la revisione di quelle di anzianità tanto care alla Lega – troveranno spazio ma prima bisognerà trovare un accordo con i sindacati. E poi non danno un gettito immediato, ma risparmi sulla lunga distanza. Antonio Castro, Libero, 23 novembre 2011

NON SONO GLI INGLESI A ESSERE STRANI, SIAMO TUTTI EUROSCETTICI. L’EUROPA HA RIBALTATO I CANONI DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE

Pubblicato il 23 novembre, 2011 in Economia, Politica estera | No Comments »

Per tutta la mia vita, i problemi sono sempre venuti dal continente, mentre tutte le soluzioni sono arrivate dal mondo anglosassone”, dichiarò Margaret Thatcher a un congresso del suo partito sul futuro dell’Europa. E non fu certo l’ultima occasione in cui la Lady di ferro esprimeva un’opinione largamente condivisa e sostenuta dalla maggior parte del popolo britannico. Fin dall’epoca di quell’altra collerica, la regina Elisabetta I, i pragmatici inglesi hanno forgiato la propria peculiarità in contrasto con i continentali. L’Inghilterra ha mantenuto e sviluppato in modo indipendente, fino all’era moderna, le sue istituzioni medievali: la Common law, il Parlamento, la monarchia, i vescovi.

Le rivoluzioni inglesi del 1640 e del 1689, come pure la rivoluzione americana, che ne ha raccolto l’eredità, sono state combattute all’insegna di vecchi princìpi – “Religione, libertà e proprietà” – mentre la rivoluzione francese, con “Libertà, uguaglianza e fraternità”, e quella russa, con “Pace, pane e terra”, aspiravano a qualcosa di nuovo. Per gli anglosassoni la proprietà è sacrosanta. La tassazione senza rappresentanza è un ladrocinio, così come l’incarcerazione senza un processo con giuria equivale al furto di quello che Locke definiva la proprietà fondamentale di ogni inglese: il suo corpo. Come a dire, per parafrasare J. S. Mill in “Sulla Libertà”: “Fate pure quello che volete, purché non spaventiate i cavalli”.

La tradizione continentale è fatta di diritti (concessi da chi?, strappati da chi?) da valutare in un futuro giorno del giudizio. Edmund Burke, il grande padre della politica britannica e americana, era convinto – alla pari di ogni inglese – che “un diritto privo di contesto è un torto”. Nel Parlamento di Westminster, Burke sosteneva l’appello alla base della rivoluzione americana – “Nessuna tassazione senza rappresentanza”; aveva promosso l’attacco contro l’imperialismo britannico in India e, fin dall’inizio, aveva intravisto un gulag nel tentativo della Rivoluzione francese di partire dall’anno zero, perché la mancanza di un contesto storico organico rende l’uomo primitivo, non progressista. Per citare le parole di Burke, “al limitare dei boschi della loro accademia vedo la forca”.

Burke ha ispirato il Partito conservatore di David Cameron, nonché Keynes, Beveridge e Lloyd George nella concezione dello stato assistenziale. L’euroscetticismo non contraddistingue soltanto le 81 nuove leve tra i conservatori del Parlamento inglese che hanno votato per un referendum immediato sull’adesione all’Unione europea, ma anche – e da sempre – Cameron, il suo cancelliere dello Scacchiere George Osborne, il ministro dell’Istruzione Michael Gove e il ministro degli Esteri William Hague. Ora il 49 per cento dell’elettorato britannico, cioè un inglese su due,  vuole uscire completamente dall’Unione europea. Perché? Basta guardare alla storia, e al contesto. A Bruxelles c’è un esecutivo non eletto che tassa e spende senza i voti dei rappresentanti eletti di Strasburgo o Westminster.

Nigel Farage, il deputato euroscettico che ha detto a Strasburgo: “Nessuno di voi è stato eletto”, al di là delle sfumature appartiene allo stesso popolo di Cameron, che venerdì ha provato – senza successo – a mettersi d’accordo con la cancelliera tedesca, Angela Merkel, sulla modifica dei trattati europei e su un’armonizzazione fiscale.

C’è un sistema giuridico straniero che ribalta le decisioni di giurie e corti nazionali, come pure la legislazione di parlamenti interni, in questioni quali la sicurezza, il welfare e il bilancio della nazione. C’è una congiura che – per usare le parole di Osborne – “spara una pallottola al cuore” dell’industria che da 330 anni rappresenta la spina dorsale del Regno Unito: la City. E c’è qui, al nostro fianco, una nuova valuta fallita, perché i suoi fantasiosi fondatori avevano fatalmente immaginato un altro anno zero.  Richard Newbury, FOGLIO QUOTIDIANO, 23 NOVEMBRE 2011

I LEADERS EUROPEI CONTRO LA DOMINAZIONE TECNOCRATICA, STUPITI PER LA FIACCA REAZIONE IN ITALIA

Pubblicato il 22 novembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

“Come democratico non condivido la grande gioia per un governo che non è il prodotto della diretta volontà popolare, che ha la fiducia del Parlamento ma che è un’espressione non politica. Credo che il paese, tutto il paese, abbia bisogno di politici”. L’ex premier spagnolo José María Aznar ha risposto così a Sky Tg 24 che ieri gli chiedeva una valutazione sul nuovo esecutivo italiano, a margine di un’intervista sulla vittoria dei Popolari in Spagna.
Meno fair, nonostante sia inglese, il giornalista Brendan O’Neill parla sull’Australian del nuovo spettro che “si aggira per l’Europa, lo spettro della tecnocrazia. Definitivamente stanca della democrazia, l’élite europea ne sta decretando la fine, a vantaggio di cricche di esperti spediti a governare le nazioni europee”. Invita a immaginare “quante congratulazioni internazionali ci sarebbero se, per esempio, Nigeria e Sudafrica decidessero di organizzarsi e fare pressione straordinaria sullo Swaziland per sbarazzarsi dei suoi leader eletti, per sostituirli con fantocci non eletti”.

E’ sicuro che “i politici occidentali convocherebbero conferenze stampa per denunciare un grottesco colpo di stato sul continente nero, all’Onu si terrebbe una sessione d’emergenza. Ma quando questo accade in Europa nessuno ci fa caso”. Quanto è accaduto in Grecia e in Italia, continua O’Neill, “non è una ‘svolta’ ma l’estrema e logica conclusione del progetto comunitario”, della sua “ostilità verso la sovranità nazionale e la democrazia”: “Nell’Unione europea la tecnocrazia è stata sempre messa al di sopra della democrazia e la competenza al di sopra dell’impegno”. E’ stato costruito “un forum nel quale l’élite culturale può sfuggire alla pazza folla” e anche “alla necessità di consultarla”. “In un momento di crisi economica, questo processo è stato accelerato”, e in Grecia e in Italia possiamo vedere il progetto europeo “in tutta la sua nuda, tirannica, oligarchica gloria”. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, la scorsa settimana, aveva detto al Monde di vedere in atto sia un processo di lenta asfissia del “polmone della democrazia su scala nazionale, senza che questa perdita sia compensata a livello europeo”, sia “un passaggio da un’Europa del governo a un’Europa della governance. Ma il grazioso termine ‘governance’ è un eufemismo che indica una dura forma di dominazione politica, basata sul fondamento, debolmente legittimato, dei trattati internazionali”.

Nel Daily Mail di domenica, sul tema è intervenuto il parlamentare conservatore Daniel Hannan: “Due governi dell’Unione europea sono stati rovesciati da colpi di stato – gentili e senza spargimento di sangue, ma comunque colpi di stato. In Grecia e in Italia, i primi ministri eletti sono stati rovesciati dagli eurocrati”, e “solo ora, forse, vediamo fino a che punto l’Unione europea, oltre a essere antidemocratica nelle proprie strutture, richieda agli stati membri di rinunciare anche alla loro democrazia interna”. Hannan si chiede in particolare come facciano “gli italiani a sopportarlo”, come mai “un pezzo sorprendentemente ampio dell’elettorato sembra tranquillo per la sconfitta della democrazia dei partiti. Come può un popolo che si è liberato di una dittatura essere così indifferente?”.

L’eurodeputato inglese Nigel Farage, del gruppo Europa della libertà e della democrazia, in un intervento all’Europarlamento il 16 novembre, al cospetto di Barroso, del commissario economico Olli Rehn e di Van Rompuy, chiede retoricamente chi siano i responsabili del disastro in corso: “La risposta è: nessuno, perché nessuno di voi è stato eletto. Nessuno di voi ha una legittimazione democratica per il ruolo che ricoprite in questa crisi… E devo dire, signor Van Rompuy, quando ci siamo incontrati per la prima volta un anno e mezzo fa, mi ero sbagliato sul suo conto. La definii un ‘assassino silenzioso delle democrazie degli stati nazionali’. Non è più così, lei è piuttosto rumoroso nel suo operare. Lei, non eletto, è andato in Italia e ha detto: ‘Questo non è il tempo di votare, è il tempo di agire’. Ma chi le dà il diritto, in nome di Dio,  di dire queste cose agli italiani?”. Il Foglio Quotidiano, 22 novembre 2011

LA STANGATA DI MONTI TRA ICI E ALTRI AUMENTI COSTERA’ 500 EURO A FAMIGLIA

Pubblicato il 19 novembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Roma – Tra i 97 ed i 483 euro in più all’anno. Stima a cantiere aperto e per difetto quella della Cgia di Mestre su quanto potrebbe pesare sulle famiglie il nuovo governo. Il premier Mario Monti non è entrato nel dettaglio delle misure d’emergenza che saranno approvate.

Il governo Monti

Qualche particolare in più dovrebbe uscire nei prossimi giorni e si tratterà di «decisioni non facili e non gradevoli», ha precisato ieri il premier.

Non è un mistero che ritornerà l’Ici sulla prima casa. Meno scontato un nuovo aumento dell’aliquota ordinaria dell’Iva, che il premier-professore vorrebbe scambiare con un alleggerimento delle imposte sul lavoro.

Incombe una patrimoniale mentre sono certe le riforme delle pensioni e del lavoro. Ma se questo governo in piena luna di miele parlamentare ha già sperimentato qualche mal di pancia, lo si deve soprattutto al ritorno dell’imposta comunale sugli immobili e al ritocco verso l’alto di quella sul valore aggiunto.

Silvio Berlusconi giovedì ha sostenuto che gli interventi sul mattone non vanno bene perché penalizzano l’edilizia e fanno calare le quotazioni degli immobili, che restano il principale capitale degli italiani. «Siamo una società di proprietari che ha scelto di destinare i propri risparmi alla casa di abitazione e credo che una grande platea di questi debba rimanere esente», ha ribadito ieri l’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi.

Le associazioni dei proprietari confermano: sugli immobili, argomenta il presidente dell’Unione piccoli proprietari immobiliari, Giacomo Carini, «già ci sono balzelli di ogni tipo che superano il 60 per cento della rendita immobiliare».

Molto più alta, insomma, dell’imposizione fiscale sugli investimenti finanziari.
Giuseppe Bortolussi – segretario della Cgia di Mestre – spiega che quando si aggiungerà la cura Monti, «noi stimiamo un possibile aggravio fiscale per le famiglie italiane che potrebbe oscillare tra i 97 ed i 483 euro l’anno». Siamo sul campo delle ipotesi, precisa la Cgia, ma è possibile calcolare il peso sulle famiglie prendendo in considerazione diversi scenari che si basano sull’ipotesi di compromesso più realistica. Cioè l’applicazione dell’Imu (Imposta municipale unica), imposta prevista dal federalismo comunale, che sostituirà l’Ici e l’Irpef sugli immobili. Per quanto riguarda gli immobili, tutto dipende, insomma, da come Monti applicherà gli strumenti che già ci sono. Per quanto riguarda l’Iva – spiega ancora Bertolussi – «si sono considerate due diverse ipotesi: aumento dell’aliquota del 21 per cento di 1 e di 2 punti percentuali».

Con l’Imu al 3 per mille e l’aumento dell’Iva di un punto ogni famiglia pagherà 97 euro all’anno in più. Con l’imposta al 6,6 per mille e l’Iva aumentata di due punti, si arriva a 390 euro. Che potrebbero diventare 483 se si dovesse applicare anche la Res, tassa sui servizi comunali.
Stime per difetto, visto che gli artigiani di Mestre non hanno tenuto conto del probabile ritocco delle rendite catastali che farebbe lievitare l’imposta sugli immobili.

Contro un ulteriore aumento dell’Iva, oltre alle associazioni dei commercianti, si sono schierati i consumatori. Il Codacons ha calcolato quanto costerebbe per ogni famiglia il solo aumento di un punto di Iva, cioè l’ipotesi meno forte tra quelle allo studio del governo. Il Giornale 19 novembre 2011

ORA SARKOZY NON RIDE PIU’

Pubblicato il 18 novembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il premier francese Sarkozy Ieri lo spread della Francia ha toccato il picco di 204 punti rispetto al Bund. Era a quota 37 il primo luglio, a 100 il 28 ottobre. In quattro mesi si è più che quintuplicato, con un rush che nelle ultime tre settimane ha portato al raddoppio. L’asta di titoli a medio termine francesi è andata male: 6,9 miliardi richiesti rispetto ai 7 previsti, rendimenti in aumento di mezzo punto. Immediatamente gli Oats, i decennali di riferimento, sono saliti intorno al 3,8 per cento. Nettamente più della metà dei Btp italiani, non molto distante dalla media di rendimento dell’intero nostro debito pubblico. Poco prima anche Madrid aveva offerto le sue obbligazioni, anch’esse bocciate dai mercati: i Bonos decennali sono stati collocati per 3,5 miliardi rispetto ai 4 offerti; con rendimenti reali, tra cedole e prezzi, al 7 per cento.
Di conseguenza lo spread della Spagna ha nuovamente superato quello italiano. Tutto ciò può servire da effimera consolazione per Berlusconi: l’Italia e il Cavaliere non sono evidentemente il movente degli spread e della malattia europea, come invece sostenuto da autorevoli banchieri e politici. Ma appunto si tratta di considerazioni molto italocentriche e fini a se stesse. Mentre il governo Monti si insedia tra grandi e giuste aspettative, è il resto d’Europa e del mondo che rischia di andare in default. Martin Wolf, vicedirettore e più influente editorialista di finanza strategica del Financial Times, lo ha scritto senza mezzi termini: «L’Europa rischia una gigantesca crisi di credito, una carenza di liquidità senza precedenti che si trasmetterà all’intero mondo occidentale se la Germania non fa la sola mossa utile: autorizzare la Bce a trasformarsi in prestatore di ultima istanza. L’euro è la sola valuta che non ha una banca centrale che la garantisca. E questo avviene mentre Federal reserve, Bank of England e Bank of Japan utilizzano tutti gli strumenti classici a loro disposizione: dallo stampare moneta a prestare soldi ai rispettivi paesi». Wolf, come molti, punta l’indice contro la sindrome prussiana che sembra paralizzare Angela Merkel e la Cdu, il suo partito. «La sua linea è: fare il minimo indispensabile all’ultimo momento utile. Finora si è tradotto in: troppo poco e troppo tardi».
Di fatto con uno spread a 200 e oltre appare difficile che la Francia possa mantenere la tripla A. E che dunque continui a far parte del nucleo duro del fondo che dovrebbe salvare gli stati periferici. Potrà, come l’Italia, fornire garanzie collaterali per i bond che il fondo emette; ma non contribuire direttamente. E se a sua volta il salva-stati perde la tripla A, viene giù tutto. Il credit crunch è una minaccia reale e globale. Secondo un report riservato della Banca d’Italia, «alcune banche italiane presentano deficit di liquidità».
A settembre la Bce ha fornito loro 91 miliardi, a prezzi salatissimi. Ma non è bastato: «Le banche devono affrontare anche il problema della raccolta. Nel 2012 scadono 88 miliardi di obbligazioni. E in questo momento l’approvvigionamento sui mercati internazionali è bloccato». Non è una questione di alta finanza, è una faccenda che si ripercuoterà sulle famiglie e le imprese. Gli 88 miliardi di bond bancari in scadenza rappresentano un terzo dell’intero debito pubblico da rifinanziare l’anno prossimo. Obbligazioni pubbliche e private entrano quindi in conflitto, in una concorrenza di rendimenti al rialzo che di fatto impedirà agli istituti di credito di sostenere Bot, Btp e Cct. Ma non solo: un altro spread molto più familiare, quello sui nuovi mutui, tocca punte del 4 per cento sommandosi agli indici Irs ed Euribor. Il mercato immobiliare ed il credito al consumo possono essere il prossimo anello della catena. E’ una situazione di gran parte dell’Europa che ricorda pericolosamente quella che precedette il crac dei mutui subprime e della Lehman Brothers. Anche in quel caso la crisi fu preceduta da un giro di vite su mutui e prestiti, che misero in ginocchio prima le famiglie, poi Wall Street. Dopodiché intervennero la Casa Bianca e la Fed, «gettando dollari dall’elicottero», nazionalizzando banche e fondi, imponendo alle altre di fondersi tra loro.

Ora gli Usa sembrano faticosamente riprendersi, sia pure a costo di un debito federale che ha raggiunto il 99 per cento del Pil. Ma l’Europa? Qui non solo non si gettano euro dagli elicotteri, ma la moneta unica si ritira dai mercati. Perfino la Deutsche Bank, che normalmente affianca la Cancelleria, ha chiesto alla Merkel di imporre alla Bce di allentare i cordoni. Una prima risposta è arrivata ieri: la Banca centrale potrebbe prestare soldi al Fondo monetario, che a sua volta li girerebbe ad Eurolandia. Ennio Flajano diceva che in Italia la via più diretta per collegare due punti è l’arabesco: ora il bizantinismo contagia l’Europa. Che cosa ha in mente la Merkel? Lo spread archivia il direttorio franco-tedesco. Oggi avrà un incontro non facile con il premier inglese David Cameron, che da tempo invoca «il bazooka» per ridare liquidità ai mercati. Per carità, non scarichiamo su altri le nostre colpe (ed infatti abbiamo cambiato governo): ma l’idea di una Germania che pianta la propria bandiera sulle macerie dell’Europa non è esattamente ciò che ci aspettavamo dalla moneta unica. Marlowe, Il Tempo, 18 novembre 2011