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DELLA VALLE INSISTE E AGLI INDUSTRIALI DICE: BASTA FARE LA BELLA VITA. MA E’ UNA BURLA DEL FOGLIO DI FERRARA

Pubblicato il 4 ottobre, 2011 in Economia, Gossip | No Comments »

Diego Della Valle

E’ tutto uno scherzo. Va detto subito perché ieri sera, quando la redazione del Foglio ha anticipato l’uscita, i collaboratori di Diego Della Valle sono trasecolati. L’avviso a pagamento ospitato dal quotidiano diretto da Giuliano Ferrara e dal titolo Imprenditori ora basta è una bufala. Divertente, ma comunque una presa in giro. Il succo? All’indomani dell’addio della Fiat dalla Confindustria, l’imprenditore marchigiano avrebbe preso carta e penna per bastonare Emma Marcegaglia per le sue confidenze con il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e per bacchettare i (troppi) industriali che “preferiscono lunghi e possenti yacht e bella vita corporativa”.

Nel giro di pochi giorni il Foglio fa un tiro mancino. Oggi ha preso di mira il patron delle Tod’s che sabato scorso aveva comprato una pagina su Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, Sole 24Ore e Repubblica per dire: Politici, ora basta. Così Ferrara, dopo le critiche che ieri sono piovute da tutte le parti contro Della Valle, ha deciso di fargli il verso con una lettera per imprenditori e industriali. Una risposta ironica e tutta da gustare. Un testo piuttosto duro che smaschera tutte le mancanze degli industriali e le colpe di Confindustria in un momento di crisi in cui una certa parte del Paese è chiamata a fare di più per il bene degli italiani. “Lo spettacolo indecente e irresponsabile che molti di noi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda la buona parte degli appartenenti a tutti i settori industriali del Centro, del Nord e del Sud”. Inizia con queste parole il “contro-manifesto” del Foglio. Se in fondo alla pagina non ci fosse scritta la parola satira, quasi si potrebbero attribuire queste frasi alla penna affilata di Della Valle. Cadere nell’errore sarebbe davvero facile. Ad ogni modo fa sorridere ugualmente.

Il quotidiano di Ferrara riprovera a industriali e imprenditori un agire “attento solo ai piccoli o grandi interessi personali o di bottega” e un modo di fare che trascura “gli interessi del Paese. Insomma, atteggiamenti che starebbero portando l’Italia e gli italiani “al disastro” dal momento che sta danneggiando “irrimediabilmente il ruolo sociale dell’imprenditoria italiana” in tutto il mondo. Secondo il Foglio, il dado sarebbe tratto e lo schiaffo di Marchionne alla Confindustria (“organizzazione burocratica e obsoleta di interessi corporativi perseguiti in modo velleitario e subalterno”) ne sarebbe la riprova. La colpa della Marcegaglia sarebbe proprio quella di essersi allontanata dalla “realtà delle cose” e dai “bisogni reali del sistema economico e produttivo”.

Marcegaglia bocciata. Il “contro-manifesto” rimprovera, infatti, alla leader degli industriali di sgambettare per inseguire “le photo-opportunity in bella vista con la Camusso, magari per svuotare le politiche attive del mercato del lavoro promosse dal governo con l’articolo 8 della manovra”. Insomma, per il Foglio la Confindustria non ha più niente da dire. Il vero fallimento della Marcegaglia sta proprio nella (mancata) riforma del sistema previdenziale. Il finto Della Valle fa presente che gli industriali chiedono al governo che “i lavoratori vadano in pensione a 68 anni”, come già accade in Germania, mentre la Cgil preme perché gli operai continuino ad andare in pensione a 58.

“Come si fa con questo retroterra di fallimenti, con questa tendenza a fottere i soldi dello Stato in regime di mono o oligopolio, con questa incapacità di battersi perché un governo capeggiato da un imprenditore abbassi le tasse e la spesa pubblica – chiede provocatoriamente il “contro-manifesto” del Foglio – a dare lavoro ai giovani e a garantire a tutti, anche a Casette d’Ete (la località delle Marche dove risiede Della Valle, ndr) una vita dignitosa?”. La colpa, va detto, non è tutta della Confindustria. Gli stessi industriali devono rispondere delle proprie mancanze: “Alla parte migliore dell’imprenditoria che si impegnerà a lavorare seriamente in questa direzione, saremo in molti a dire grazie – conclude il testo – Agli industriali che preferiscono lunghi e possenti yacht e bella vita corporativa a un ruolo dirigente nella vita nazionale, saremo sicuramente in molti a voler dire di vergognarsi”. Solo satira? Spesso, con una battuta beffarda, si dicono grandi verità. 4 OTTOBRE 2011

LODO MONDADORI, SENTENZA TAROCCATA?

Pubblicato il 4 ottobre, 2011 in Economia, Giustizia | No Comments »

Fininvest accusa: la sentenza della Corte d’appello di Milano che condannò il gruppo di Berlusconi a versare 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti è stata stilata alterando, tagliandone i passaggi decisivi, una sentenza della Cassazione. Per questo Fininvest chiede al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione di aprire un procedimento disciplinare a carico di Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero, i tre magistrati d’appello che nella primavera scorsa disposero il megarisarcimento a favore dell’editore di Repubblica. In sostanza, ai tre magistrati viene contestato “un errore grave e inescusabile”, se non addirittura la malafede. Al centro dell’esposto c’è un tema cruciale della causa tra il Cavaliere o l’Ingegnere relativa al controllo della casa editrice Mondadori. Nel 1991 una sentenza della Corte d’appello di Roma assegnò a Berlusconi la vittoria, aprendo la strada alla spartizione della casa editrice. Cinque anni dopo si scoprì che uno dei tre giudici che diedero ragione a Fininvest, Vittorio Metta, era stato corrotto. Dopo quella scoperta, la Cir di De Benedetti ha chiesto che le venissero risarciti i danni causati dalla sentenza di Metta: ed ha ottenuto il gigantesco risarcimento (750 milioni in primo grado, ridotti a 560 in appello) che Fininvest ha già provveduto a versare. Ma una delle tesi difensive dei legali di Berlusconi è sempre stata: prima di chiederci i danni, Cir avrebbe dovuto chiedere ed ottenere l’annullamento e la revoca della sentenza del 1991. Poichè questa domanda non è stata mai fatta, la richiesta di risarcimento è inammissibile. Questa tesi è stata respinta sia dal tribunale di Milano che dalla Corte d’appello. Ma oggi, con l’esposto disciplinare, Fininvest sostiene che la decisione della Corte d’appello è basata su un orientamento della Cassazione sforbiciato qua e là, e che letto per intero darebbe ragione al Biscione. Negli ambienti della Corte d’appello di Milano, si fa presente che in realtà la sentenza “sforbiciata” veniva citata in tutt’altro contesto, e per motivare tutt’altro passaggio della decisione. Ma la sostanza cambia di poco: l’esposto disciplinare contro i giudici della Corte d’appello milanese segna un altro passaggio dello scontro tra le imprese del Cavaliere e la magistratura, cui fa compiere un ulteriore salto di qualità. 4 OTTOBRE 2011

ORA ABBASSATE LA SPOCCHIA, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 25 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Improvvisamente, dopo an­ni di silenzio, Confindu­stria ha deciso di parlare. Ogni giorno è una ricetta, una critica, un ultimatum, con cla­morosi sconfinamenti nella poli­tica. Strano che tanta loquacità e saggezza sia arrivata a buoi, cioè milioni di euro, scappati. I più leg­gono l’attivismo della sua presi­dente, Emma Marcegaglia, al mandato in scadenza. Tra pochi mesi sarà disoccupata, e con l’aria che tira meglio posizionarsi in prima fila tra gli oppositori del governo. Ora, non è che le paure degli industriali siano intonacate o illegittime. È il tono del loro pre­sidente, quel voler chiamarsi fuo­ri da errori del passato, quel met­tere sul piatto ricette salvifiche con l’aria di chi si sente eticamen­te superiore a infastidire e inso­spettire. Anche perché, come im­prenditore, la signora non può certo fare la maestrina con la pen­na rossa.

Il suo gruppo è stato pre­miato nei giorni scorsi come quel­lo a più alto tasso di infortuni sul lavoro. Le disavventure giudizia­rie dei suoi familiari sono note e oggi noi aggiungiamo un partico­lare inedito, un condono da 9,5 milioni di euro sottoscritto nel 2002. Nulla di male né di illegale, per carità, ma evidentemente la si­gnora non può mettersi alla testa dei novelli Savonarola, non con tanta spocchia. Il vezzo di parlare bene e razzo­lare male non è nuovo, né è esclu­s­ivo della presidente di Confindu­stria. L’editore de L’Unità , non­c­hé ex governatore Pd della Sarde­gna, Renato Soru, è sotto schiaffo della Guardia di Finanza che sta indagando su sue società estere per una presunta maxi evasione fi­scale. Oppure: Berlusconi do­vrebbe giustificare come mai ha viaggiato tempo fa in aereo con Lavitola, mentre a Bersani nessu­no chiede conto di viaggi, pranzi e cene con Penati, che secondo non noi ma i magistrati potrebbe avere commesso reati ben più gra­vi e infamanti­del discusso e discu­tibile direttore de L’Avanti . Il nuo­vo che avanza dovrebbe avere al­meno il pudore di non cadere nel ridicolo. Da Di Pietro che finì nei guai per regalie a Montezemolo che ha un passato da scavezzacol­lo, fino alle macchie dell’impero Marcegaglia e alle tangenti paga­te dal gruppo dell’editore di Re­pubblica , quel Carlo De Benedet­ti (finito per questo anche agli ar­resti), nessuno passerebbe inden­ne da un assalto tipo quello cui è stato ed è sottoposto Berlusconi. Per carità, ognuno ha i suoi picco­li o grandi scheletri nell’armadio. Ma proprio per questo meglio ab­bassare i toni e la spocchia. Il Giornale, 25 settembre 2011

Il condono di Lady Marcegaglia

Emma Marcegaglia propone un nuovo manifesto per l’Italia.Di nuo­vo c’è poco, se non la sfiducia che la Signora ha nei confronti del gover­no Berlusconi. Che in effetti di riforme ne ha fatte davvero pochine. Ma della signora Marcegaglia ci possiamo fidare? E questi grandi imprendi­tori che si stanno già combattendo per la successione della Signora, hanno tutti le carte in regola per fare i moralisti? Ci sono molte imprese, come testimonia­no le ottime inchieste di Dario Di Vico e Marco Alfieri, che non ne possono più di questo governo. Speravano in una riduzione fisca­le e in uno sn­ellimento della buro­crazia che non è arrivato. Ma i ver­ti­ci di questa Confindustria non ri­schiano di fare come il governo, aver capito troppo in ritardo gli umori della propria base? Sulla lotta all’evasione, ad esempio, la posizione confindustriale più che tardiva sembra ipocrita. Così co­me sulla liberalizzazione del mer­cato del lavoro. I nuovi personalis­si­mi dispiaceri alla signora Marce­gaglia li ha procurati il governo e Tremonti in particolare. Parados­salmente proprio per venire in­contro alle indicazioni anche del­la Confindustria, l’esecutivo si è messo in testa di dare la caccia ai presunti evasori. Marcegaglia compreso. Lungi da noi pensare che ciò che stiamo per scrivere ab­bia minimamente irritato la sciu­ra. Ella, come si sa, viaggia alto, al­tissimo. Figurarsi se si occupa di quella norma introdotta dall’ulti­ma manovra estiva che estende gli accertamenti fiscali all’anno di grazia 2002. In buona sostanza il governo ha deciso che il condono fiscale del 2002, considerato ille­gittimo dalla Ue, non metta al ripa­ro da nuovi accertamenti proprio coloro che all’epoca lo sottoscris­sero. La materia è complicata:ba­sti dire che l’Agenzia delle Entrate nei prossimi tre mesi ha l’obbligo di legge di andare a verificare tutte le posizioni di coloro che aderiro­no a quel condono fiscale. E indo­vi­nate un po’ chi rischia un bell’ac­certamento? Esatto. Il gruppo Marcegaglia,che all’epoca dei fat­ti aveva proprio nella Sciura un amministratore delegato. Ma non preoccupatevi, la presidente della Confindustria è su un altro li­vello. Questa estate tuonò: «Basta con i condoni fiscali». Grazie, tut­to quello che si poteva condonare la Sciura l’ha già condonato.Senti­te qua. Bilancio Marcegaglia. An­no 2002. «Negli oneri straordinari figura l’importo di 9,5 milioni deri­vante dalle legge 289/02 sul con­dono ». E nella relazione del colle­gio sindacale: «Sono venuti com­pletamente meno i rischi derivan­ti dalla verifica fiscale generale, eseguita nel corso del 2001». In­s­omma l’azienda ha pagato 9,5 mi­lioni di condono e si è così messa a posto con la verifica fiscale che aveva subito e che con tutta proba­bilità sarebbe sfociata in un bel verbale di contestazione. Ma il punto è che oggi la Marcegaglia ri­schia di nuovo. Quel condono, per la parte di sanatoria Iva, è sta­to considerato illegittimo dalla Ue e molti dei condonati non hanno neanche pagato le rate che erano previste. Il governo italiano alla caccia disperata degli evasori ha preso la palla al balzo (non pro­prio il primo, visti gli anni passati) e ha riaperto un faro di verifica nei confronti dell’anno 2002. Senza questa norma estiva infatti quel­l’anno sarebbe prescritto e i con­donati (che poi tali non sono per la sentenza Ue) sarebbero al sicu­ro. Che colpo gobbo. Insomma la Marcegaglia do­vrebbe ben conoscere sulla sua pelle l’attivismo del governo per combattere l’evasione fiscale. Ma è il pulpito da cui arrivano le prediche ad essere ridicolo. Certo ricordare alla signora Marcega­glia del conto cifrato 688342 della Ubs di Lugano a lei intestato (insie­me al padre Steno) dove transita­vano quattrini della Scad Com­pany Ltd, o quello 688340 sempre a Lugano e sempre della Ubs dove transitavano milioni di euro frut­to della costituzione di fondi neri all’estero,può sembrare poco ele­gante se ad occuparsene è il Gior­nale . Se a farlo, come fece, è Repub­blica , è tutto ok. Così come sareb­be seccante ricordare alla sciura come 750mila euro vennero tra­sferiti dal conto di Lugano a quel­lo di Chiasso e poi presi in contan­ti tra il settembre e il dicembre del 2003 (tutte informazioni contenu­te in una rogatoria ottenuta da Francesco Greco). Mica un secolo fa. Il punto qua non è la correttez­za etica della Signora Marcegaglia e del suo gruppo (e quante impre­s­e hanno fatto altrettanto), ma è la sua inadeguatezza a spiegare al mondo cosa sia necessario fare per dare sviluppo al Paese. Glielo diciamo noi cosa è necessario alla Signora. È necessario che il grup­po della sua famiglia, in cui lei è stata anche amministratore dele­gato, competa sul mercato ad ar­mi pari con i concorrenti. Magari senza aprire troppi conti cifrati in Svizzera. Il gruppo Marcegaglia ol­tre a commettere un possibile rea­to (per la verità il fratello della Si­gnora ha patteggiato per tangen­ti) ha messo indirettamente fuori mercato le aziende che seguivano le regole. La prima vittima del­l’evasione fiscale non è lo Stato, ma è l’impresa vicina che come un gonzo paga tutte le tasse come si deve. E poi arriva Emma che fa la furbetta. E prima contribuisce a costituire fondi in nero: per Repub­blica il gruppo costituì all’estero 400 milioni di euro di fondi. Poi li scuda grazie all’odiato Tremonti. E poi da presidente della Confin­du­stria fa la maestrina e ci raccon­ta come si deve far ripartire il Pae­se. Ma ci faccia il piacere. La vicenda dei 17 conti segreti della Marcegaglia in Svizzera è ro­ba passata.
Il tutto si chiuse nel 2004 con il trasferimento di 22 mi­lioni dai conti svizzeri a Singapo­re. E lo stesso fratello della Signo­ra, Antonio, interrogato dai Pm di Milano disse a fine 2004: «Si tratta di risorse riservate che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili». Come dar­gli torto, si sarebbe trattato di mi­lioni e milioni di documenti. Quando si dice la semplificazione che le imprese a gran voce richie­dono. La Signora in materia fiscale ha poche idee e un po’confuse.Tuo­na contro i condoni, ma li utilizza a man bassa. Non vuole il contri­buto di solidarietà del Cav, ma ac­cetta la patrimoniale, con una sto­ria di conti all’estero da paperone di Mantova. Si possono accettare molte le­zioni dalla Signora Marcegaglia. Ma quella della moralista con il di­tino alzato, proprio no. Soprattut­to in materia di tasse. «Confindu­stria – ha detto la Marcegaglia ­non ha paura delle critiche». Bene accetti le nostre. E inizi a fare puli­zia a casa sua, prima di pontificare sullo sviluppo del Paese, compro­messo anche dalle furbate dei pri­vati. Il governo Berlusconi ha mol­te colpe. Ma un esame di coscien­za da p­arte di queste grandi impre­se che afferrano al volo i condoni e costituiscono conti in Svizzera, non l’abbiamo ancora visto.

FALLIMENTO E RINASCITA, di Mario Sechi

Pubblicato il 24 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Borse europee, un operatore La contemporaneità non fa sconti. Se gli Stati Uniti non riescono a trovare la cura dopo l’intossicazione finanziaria, l’Europa si lambicca su come interrompere la sua vita a debito. Parliamoci chiaro, i governi stanno seduti sulla nitroglicerina dell’inettitudine. La Grecia ha il novanta per cento di probabilità di fallire, la Bce per la prima volta non esclude il crac. Era questa la via da seguire mesi e mesi fa, senza perdere tempo e imporre a un popolo una ricetta che conduce alla guerra civile. Se la gente ha fame, se ne infischia della partita doppia degli gnomi della finanza. Brucia la casa di chi lo affama. Punto. Il collasso di Atene è in questi fatti e numeri: 353 miliardi di euro di debito pubblico (cinque volte quello dell’Argentina quando crollò nel 2001), due salvataggi inutili e tre anni di recessione. Capolinea. Credit Suisse ha messo le mani avanti e fatto i conti della dissoluzione dell’Euro. Non si sa mai. Mentre Atene brucia, Roma si contorce in una babele di ridicoli penultimatum. Confindustria presenta un manifesto che serve a fare titoli di giornale ma non aggiunge niente sul tavolo delle soluzioni concrete. I sindacati sono archeologia industriale, l’establishment sta alla finestra aspettando la caduta di Godot-Berlusconi. Nessuno tiene conto di una cosa: il nostro debito ha un rating da Paese in difficoltà ma in grado di far fronte alla sfida. L’Italia è ricca e può farcela. Basta avere visione e coraggio, perché la volatilità dei mercati sarà una condizione normale per lungo tempo e ci saranno cadute rovinose e formidabili riprese. È la storia che si fa e disfa sotto i nostri occhi. Dove qualcuno perde, altri guadagnano. È la legge di Wall Street, «il denaro non dorme mai», soprattutto quando i governi ronfano. Mario Sechi, Il Tempo, 24 settembre 2011

GUERRA APERTA SUI NOSTRI SOLDI

Pubblicato il 23 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Soldi Le borse sono sotto un bombardamento planetario: il Dow Jones sta per bucare il pavimento dei 10 mila punti, tornando indietro di oltre un decennio; piazza Affari ha sfondato i 14 mila, considerato un supporto strategico di resistenza. Se noi siamo al Piave, gli americani sono sul tetto dell’ambasciata di Saigon, gli inglesi a Dunkerque, i francesi a Vichy. Neppure la super-Germania se la passa meglio: la Cancelleria assomiglia a un bunker, con tutte le sue sinistre memorie. Qui, chi volesse il 51 per cento di Intesa se lo prende con 8 miliardi: una bazzecola per un Warren Buffett di passaggio. Scopriamo che non c’è più nulla il cui rating non possa essere declassato: Italia, Usa, Giappone; la Fiat; le nostre banche, quelle francesi, domani le tedesche. Siamo tutti sotto downgrading, eppure sarebbe interessante capire dove vanno i soldi perché la regola che per ognuno che vende qualcuno compra non è stata ancora abrogata. Quando lo scopriremo vedremo il vincitore di questa guerra. Intanto ne conosciamo gli sconfitti: la classe dirigente americana ed europea, i banchieri centrali con le ferree e contrastanti religioni (quelli americani predicano il denaro facile, i tedeschi l’esatto opposto); gli industriali che guardano solo a Cina, Brasile e Turchia; i top manager tornati ai bonus milionari. E certo i politici. In questa situazione in Italia pare a molti un’idea vincente quella di sfrattare il Cavaliere. Fatto questo, risolto il problema. Al trio Bersani-Di Pietro-Vendola si è aggiunta Emma Marcegaglia. Partita per abolire il contratto nazionale, lascia la Confindustria a dov’era vent’anni fa, ai piedi del totem della concertazione e della Cgil. Il crollo dei mercati è impressionante. Quello dei cervelli ancora di più. Che ci sia un nesso? Marlowe,, Il Tempo, 23 settembre 2011

APPROVATA DAL SENATO LA MANPVRA BIS: 165 A FAVORE, 141 CONTRARI

Pubblicato il 7 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

E alla fine manovra fu. In tempo per affron­tare l’esame della Banca centrale euro­pea che domani deve decidere se rinnova­re l’acquisto dei nostri titoli di Stato e so­stenere quindi i conti pubblici italiani pericolosa­mente in bilico. Le novità sono ormai note. Aumen­to di un punto dell’aliquota dell’Iva oggi al 20 (sono quindi esclusi il comparto turistico e i generi alimen­­tari), aumento del 3 per cento delle tasse sopra i 300mila euro di redditi,anticipo al 2014 dell’adegua­mento dell’entrata in pensione delle donne a quello degli uomini nel settore privato, subito una legge per l’abolizione delle Province. Così i conti dovreb­bero quadrare e permettere di avviarsi verso il tra­guardo del pareggio di bilancio.

Le manovre, per definizione, non sono né belle né brutte. Inevitabilmente si paga dazio. Il compromes­so raggiunto può anche scontentare qualcuno, ma sicuramente non si accanisce contro nessuno. Quantomeno apre un varco nel muro di gomma con­tro il­quale rimbalzava chiunque tentasse di moder­nizzare il Paese. Si tocca lo statuto dei lavoratori che ingessava le aziende e alla fine danneggiava pure i la­­voratori stessi. Si scardina il veto assoluto sull’invio­labilità dell’attuale sistema pensionistico (la que­stione femminile non è decisiva ma aiuta i conti Inps). Inizia finalmente e per davvero il dimagri­mento dell’infernale macchina ( e dei costi) della po­litica. I ricchi sono chiamati a dare un contributo maggiore (sia pure modesto, poche migliaia di euro a testa) nei momenti di crisi. E ultimo, come avviene nei Paesi più avanzati,la tassazione (col balzello del­­l’Iva), comincia a spostarsi dalle persone ai consu­mi.

Fatti concreti e passi poco più che simbolici. Non si può dire che Berlusconi sia entusiasta, ma certo ha tirato un sospiro di sollievo e resta ottimista. Così facendo è stato possibile, come promesso e necessa­rio, tenere insieme le anime della maggioranza, pez­zi dell’opposizione e parti sociali. Non tutti, ovvia­mente. L’unanimità non è di questa terra,figuriamo­ci della politica. Il dissenso è legittimo, la protesta pure (quella di ieri della Cgil, peraltro, è fallita nei nu­meri e nei contenuti) ma chi di fronte a questi provve­dimenti continua sulla strada dello sfascismo è in malafede e ha obiettivi da raggiungere (la caduta del governo) diversi dal risanamento. Perché, sia chia­ro, l’alternativa non è qualche cosa di più leggero, ma di molto più pesante. Auguriamoci di non dover­ci arrivare. Il Giornale, 7 settembre 2011

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Pubblicato il 2 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Caro presidente Silvio Berlusconi, mi permetta di darle alcuni consigli sulle imposte e gli evasori in queste ore in cui il centrodestra parla tra l’altro di “caccia” ai “grandi evasori”.
Sin dalla sua entrata nel campo della politica, lei ha sventolato una bandiera liberale contro la vessazione fiscale.
Le do del lei, perché il tu potrebbe essere equivoco. Nel mio collegio elettorale  di Como-Sondrio-Varese, durante la buonanima della Prima Repubblica, nel Psi, quando non ci si conosceva, ci si dava del lei, perché ciascuno considerava gli altri come persone private. Sembra banale ma non lo è.

Secondo Franz Böhm, il giurista tedesco che assieme all’economista Walter Eucken ha fondato il movimento di Ordo, quella del “liberalismo delle regole” è una società di diritto privato. Questo concetto riguarda anche la materia fiscale di cui sto discorrendo. Quando lei afferma che non intende mettere le mani nelle tasche degli italiani, non dice soltanto che non li vuole aggravare fiscalmente. Dice   anche e soprattutto che non vuole entrare nella loro privacy, per prelevare l’obolo per il fisco.
L’ex ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, mio maestro, ha stabilito la dichiarazione dei redditi, affinché si determinasse un rapporto di fiducia fra fisco e contribuente, portando nel rapporto tributario qualcosa di simile al contratto, cioè la società di diritto privato, non lo stato di polizia inquisitorio.

Nella mia esperienza, come ministro delle Finanze che aveva fatto la gavetta al ministero come ragazzo di bottega di Vanoni e di Tremelloni (il ministro socialdemocratico con cui ci si dava del lei, pur essendo dello stesso partito), le posso assicurare che non servono le manette agli evasori, né i libri rossi con l’elenco dei contribuenti, per incrementare i gettiti e ridurre l’evasione.
Nella società di diritto privato la dichiarazione dei redditi è un atto privato, che non va reso pubblico come se fosse una lista di proscrizione. E l’evasione tributaria non va concepita come reato penale da punire col carcere (magari preventivo, con pubblici ministeri amanti delle manette come metodo di confessione). E’ un’omissione di cifre dovute, da penalizzare con sanzioni pecuniarie e la temporanea chiusura degli esercizi che hanno evaso. Credo di essere stato il ministro delle Finanze che ha incrementato il gettito semestrale della maggiore percentuale, per colmare paurosi deficit di bilancio. E l’ho fatto attuando la trattenuta alla sorgente, il registratore di cassa sigillato, il redditometro fondato su indici oggettivi, su base statistica; attuando il principio per cui non importa la proprietà ma il possesso effettivo dei beni e la verifica contabile.
L’amministrazione finanziaria è una grande azienda. Bisogna cercare di farla operare con efficienza, con regole semplici e poco mutevoli. La moltiplicazione di obblighi invasivi complica inutilmente le cose.

La “caccia” ai “grandi evasori” è un fatto classista, in cui i “grandi” sono odiati perché capitalisti e in cui la parola “caccia” dà la sensazione che il contribuente non sia uno che deve pagare il prezzo dei servizi pubblici, ma selvaggina da impallinare. L’imposta, se è moderata, appare giusta e chi non paga è mal giudicato.

Caro presidente Berlusconi, non tradisca il suo Dna. Lasci il fisco come tortura e l’evasione come delitto alla sinistra giustizialista e ai finti liberali. Non si vergogni di  parteggiare per la società di diritto privato. Francesco Forte,  FOGLIO QUOTIDIANO, 2 settembre 2011

Perchè premiare la delazione fiscale è un vero metodo tribale

Cosa penseremmo di un governo che obbligasse i sindaci a rendere pubblici, su appositi registri, gli orientamenti sessuali dei cittadini dei rispettivi comuni? Ne saremmo, com’è giusto, inorriditi. C’è un’idea di “privatezza” che è cresciuta nei secoli, fino a diventare parte integrante del nostro vivere civile. Quest’idea si basa sul fatto che non siamo obbligati a dire tutto di noi ad altri esseri umani. Man mano che le società si sono fatte più estese, le relazioni hanno smesso di essere inevitabilmente “faccia-a-faccia”. Siamo usciti dalla logica del piccolo gruppo, imparando a sviluppare rapporti anonimi che fanno, in buona sostanza, la nostra libertà.

Il celeberrimo passo in cui Adam Smith ci rammenta che non dobbiamo appellarci alla benevolenza del macellaio per avere carne sulle nostre tavole dice tutto su quanto di più miracoloso vi sia stato nella nostra storia: l’aver trovato il modo di superare le relazioni tribali, di amicizia e inimicizia sanguigne e viscerali, che ci hanno costretto da che l’uomo è sulla terra. Oggi sono atavismi relegati ad ambiti intensi ma periferici della nostra esistenza, tipo il calcio e la politica. Il risultato non è solo “più efficiente” che andare a comprare il pane esclusivamente da parenti-dei-parenti, perché di loro soltanto ci si può fidare, ma è anche più “civile”. La “privatezza”, lo scegliere di ignorare intere dimensioni gli uni degli altri, è figlia e madre della nostra libertà. Noi sappiamo tutto dei componenti del “piccolo gruppo”, di madri padri figli e nonni, non del resto del mondo. Il non sapere ci aiuta a non giudicare. Il non giudicare ci facilita una convivenza serena e serenamente superficiale.

Per quale motivo i rapporti economici dovrebbero seguire regole diverse? Perché il denaro dovrebbe esigere una dimensione scrupolosamente “non-privata”? Costringere i sindaci a pubblicare i redditi degli italiani è lo stesso che fargli distribuire triangoli di diversi colori, da appuntare sul bavero. Se comprendiamo che esiste un diritto del nostro prossimo a selezionare cosa vuole e non vuole farci sapere di sé, non c’è ragione di fare eccezione per i redditi, il patrimonio, il quattrino. E’ proprio questo il vero nodo. Da anni ci fabbrichiamo difese contro il “controllo sociale”, cerchiamo di stemperare le influenze improprie dei gruppi sul comportamento degli individui. I comportamenti economici dovrebbero fare eccezione? Solo in questo frangente, a una società ritenuta altrimenti inabile a governarsi da sé, viene chiesto di supplire all’inefficienza dei controllori, facendo leva sull’invidia sociale. Perversa sussidiarietà esattoriale.

In un paese come l’Italia, in cui la cultura politica resta soverchiamente incapace di accettare il successo economico come altro che un’intollerabile beffa del destino ai danni di chi non è riuscito a raggiungerlo, gli esiti di un pubblico invito alle spiate fiscali sono prevedibili. E sarebbero disastrosi anche per i “controllori”, dacché la moltiplicazione delle anticamere della verità non rende certo più veloce arrivarci, alla verità.

Ma soprattutto: vogliamo davvero essere tutti “ausiliari della tassa” in borghese, vogliamo davvero fare del sospetto fiscale un elemento costitutivo del nostro essere con gli altri, vogliamo davvero disossare di ogni elemento “economico” la dimensione del privato? I pubblici elenchi preludono alla gogna: sono pensati per quello. La lotta non all’evasione ma alla dimensione del “privato”, perché di questo stiamo parlando, farà di noi sempre meno una società libera e sempre più una grande tribù. Coi suoi stregoni, coi suoi ostracismi, coi suoi sacrifici umani.

di Alberto Mingardi, Direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni


RIDEFINITA LA MANOVRA, INTERVENTO SULLE PENSIONI, ABOLIZIONE DELLE PROVINCIE, DIMEZZAMERNTO DEI PARLAMENTARI

Pubblicato il 29 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il premier Silvio Berlusconi (S) con Umberto Bossi Si è concluso dopo circa sette ore il vertice di maggioranza ad Arcore con Silvio Berlusconi e Umberto Bossi per trovare un accordo sulle modifiche alla manovra finanziaria. Diverse auto hanno lasciato villa San Martino con Fabrizio Cichitto, Maurizio Gasparri, Roberto Maroni e Giancarlo Giorgetti.  Nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni anche se Gasparri dall’auto ha fatto segno di “ok” col pollice sollevato.

Nessuna modifica all’Iva, soppressione di tutte le province e dimezzamento del numero dei parlamentari per via costituzionale. È quanto si sarebbe stabilito nel corso del vertice di maggioranza ad Arcore. Decisa l’abolizione del contributo di solidarietà che sarà sostituito con un intervento sulle pensioni. Le pensioni verranno calcolate in base “agli effettivi anni di lavoro”, escludendo quindi dal calcolo dell’anzianità gli anni relativi all’Università e al servizio militare obbligatorio, che manterranno invece la loro validità relativamente al calcolo della pensione.

L’aumento dell’imposta sul valore aggiunto sarà prevista invece nella delega fiscale. Il contributo di solidarietà sui redditi più alti sarà cancellato dalla manovra, ma resterà in vigore solo per i redditi dei parlamentari. Non una patrimoniale anti evasione come avrebbe voluto la Lega, ma comunque una stretta sulla società “di comodo” cui vengono intestati beni di lusso come yacht, elicotteri, aerei o macchine di alta gamma, per eludere il fisco è stata decisa dal vertice di maggioranza di Arcore sulla manovra. Decisa anche la riduzione dei vantaggi fiscali per le società cooperative.
Salvi i piccoli Comuni, dimezzati i tagli agli enti locali, che avranno maggiori poteri per la lotta all’evasione e la possibilità di trattenere le maggiori entrate. L’articolo della manovra che disponeva l’accorpamento dei piccoli Comuni sarà dunque sostituito con un nuovo testo che preveda “l’obbligo dello svolgimento in forma di unione di tutte le funzioni fondamentali a partire dall’anno 2013 nonché il mantenimento dei consigli comunali con riduzione dei loro componenti senza indennità o gettone alcuno per i loro membri”. L’impatto della manovra per Comuni, Province, Regioni e Regioni a statuto speciale viene “sostanzialmente dimezzato”, spiega una fonte presente all’incontro. E agli enti territoriali saranno attribuiti maggiori poteri e responsabilità nel contrasto all’evasione fiscale “con vincolo di destinazione agli stessi del ricavato delle conseguenti maggiori entrate.”

.…….Queste le prime notizie diffuse  al termine del vertice PDL-LEGA durato molte ore. Bisognerà attendere domani per capire meglio le decisioni assunte e quali riequilibri determinano all’interno della manovra finanziaria. A prima vista sembrerebbe che Berlusconi abbia ottenuto qualche passo indietro dalla Lega sulle pensioni, abbia ceduto sul contributo di solidarietà che è stato revocato, abbia ottenuto l’abolizione delle Provincie, tutte, e il dimezzamento del numero dei parlamentari, entrambi questi due provvedimenti da assumere con legge costituzionale.  Ma la legge si farà, o meglio il disegno di legge approderà mai in Parlamento? Se avvenisse,  assisteremmo a una decisione epocale perchè non crediamo che ci possa essere nessuno dei partiti presenti alla Camera e al Senato che non voterebbero i due provvedimenti, con il rischio di divenire impopolari. Il punto è: ci arriverà mai questo disegno di legge costituzionale, per il momento solo annunciato, in Parlamento? Ma su questo Berlusconi si gioca definitivamente la faccia! g.

VIZIATI E STRAPAGATI, I CALCIATORI PROFESSIONISTI MERITANO SOLO UNA PEDATA_: NEL SEDERE!

Pubblicato il 26 agosto, 2011 in Costume, Economia | No Comments »

Calcio Il simbolo dell’ipocrisia? I calciatori. Eto’o, sbarcato in Russia per giocare con una squadra ignota ma ricchissima, ha detto: non vengo per denaro, mi interessa il progetto. Cosa c’è di più interessante di 20 milioni di euro l’anno? Così i calciatori sciopereranno nella prima di campionato non per dei princìpi ma per avidità.  La contesa è su un ipotetico contratto collettivo. Eppure non c’è atleta che non abbia un procuratore, un ufficio legale e un contratto preciso in ogni dettaglio. Stipendio, premi, bonus per lo sfruttamento dell’immagine, diritti. Tutto è precisato e pagato. Ben pagato. Come non dar ragione al presidente Beretta quando dice degli scioperanti in mutande: hanno retribuzioni da amministratore delegato e vorrebbero diritti superiori a quelli degli operai della catena di montaggio. Eppure dicono che non sono i soldi il problema. Ma allora perché non vogliono assicurare che pagheranno il contributo di solidarietà? Il problema in fondo è questo. Inutile che dicano il contrario. Loro quel contributo in realtà non vogliono pagarlo o comunque vogliono trattarlo con le società. Ma quale categoria ridiscute il contratto per il fondo di solidarietà? Nessuna. A chi verrebbe in mente di andare dal proprio datore di lavoro e dire: questo lo paghi tu? Sai che pernacchie riceverebbe. I calciatori no. Questa classe eletta, persone che guadagnano in un anno quello che molti professionisti prendono in una vita, non si vergognano nemmeno un poco. Chiedono e minacciano. Così il presidente della Federazione gioco Calcio, Abete, arriva perfino a proporre un fondo di 20 milioni messo a disposizione per eliminare il contenzioso. L’intenzione di Abete nasce dalla preoccupazione di disinnescare la bomba dello sciopero. Mettendo sul piatto quei soldi sperava di convincere le società di calcio a firmare l’intesa con la garanzia che non correrebbero il rischio di dover mettere mano al bilancio. Bene ha fatto la Lega calcio a dire no. È una questione di giustizia, di decoro. Se il mercato porta dei giocatori di calcio a guadagnare tanto non siamo qui a scandalizzarci, ma le tasse, giuste o ingiuste che siano le paghino come gli altri. Si immergano nella realtà. Così il tentativo di Abete e gli appelli di Petrucci sono caduti nel vuoto. Lo scopo era lodevole, quello di garantire la partenza del campionato. Il gioco del calcio non è solo divertimento, non è soltanto l’argomento preferito di discussione per milioni di italiani. È una vera industria che muove grandi risorse, un meccanismo che coinvolge le tv e la pubblicità. Ma dare garanzie che nessuno altro ha sarebbe stato un pessimo segnale per il Paese. Un precedente pericoloso. Così resta il braccio di ferro. Per disennescarlo basterebbe che i calciatori, senza ambiguità, si facessero carico di pagare di tasca propria il contributo. Se lo facessero darebbero un segnale forte di responsabilità. C’è un altro punto, più tecnico che alimenta la discussione: la possibilità o meno dei dirigenti di allontare dal gruppo qualche atleta. Ma parliamoci chiaro, questo non significa toccare le retribuzioni. Per il sindacato calciatori non si può isolare una persona dai compagni e farlo allenare separatamente. Ma quanto sono sensibili questi signorini. Si fanno fare dei contratti ricchi, se poi non rendono per quello che sono pagati, non fanno sconti. I soldi li vogliono tutti anche se la domenica vanno alla stadio, ma in tribuna. E se invece rendono di più ecco arrivare i procuratori per reclamare una revisione del contratto, e spesso le società devono cedere. Non hanno difese, nemmeno quello di mettere «fuori rosa». Diritti a senso unico. Solo per loro. Per i più ricchi dipendenti del mondo. Altro che attaccati alla maglia come ripetono con retorica. Sono attaccati solo allo stipendio, e che stipendio. Che scioperino pure. Se lo facessero i tifosi di calcio, quelli che pagano questo baraccone, altro che veline e Ferrari. I ragazzi viziati dovrebbero lavorare. Gli farebbe bene. Giuseppe Sanzotta, Il Tempo, 26/08/2011

.…..E come non essere d’accordo con questo articolo e anche, nonostante tutto, con Calderoli quando,  alle minacce di sciopero dei calciatori professionisti che protestano per il contributo di solidarietrà che non vorrebbero pagare, minaccia di raddoppiarglielo. Questi viziati e strapagati tiratori di calci al pallone che approfittano degli enormi vantaggi economici di cui fruiscono per vivere senza rispetto e decoro per i tanti tifosi che per andarli a vedere  giocare sacrificano  talvolta  elementari necessità familiari, non riescono nemmeno a capacitarsi che quando la corda la si tira troppo può spezzarsi…anche per loro. E allora addio a ville megagalattiche, agli alberghi di lusso, alle vacanze dorate, ai festini a base di ostriche e champagne, alle splendide veline di cui amano accerchiarsi. Per cui la smettano di fare gli schizzinosi, paghino le tasse, giochino senza riparmiarsi, altrimenti siano i tifosi a scioperare. Contro di loro. g

GERMANIA INGRATA, MERKEL SENZA MEMORIA

Pubblicato il 22 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il canceliere tedesco Merkel Ogni studente di economia sa che la Germania ha tra i fondamenti della costituzione la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione. Frutto, anche questo è noto, della svalutazione a sei cifre del marco durante la repubblica di Weimar.  Il più studiato è l’articolo 115, che afferma: «Le entrate provenienti dal credito non possono superare la somma delle spese previste nel bilancio per gli investimenti». Vincolo esteso allo statuto della Bundesbank, la banca federale, e da essa imposto all’Europa prima con i parametri di Maastricht (dove il tetto all’inflazione di ogni paese è fissato al 3 per cento, pena sanzioni economiche), poi alla Bce, che continua a fissare la propria bussola sul contenimento dei prezzi prima ancora che sullo sviluppo. Difatti mentre le altre banche centrali dell’Occidente continuano a tenere i tassi a zero, l’Eurotower di Francoforte li ha già riportati all’1,5 per cento, con minaccia di ulteriori rialzi. E ora Angela Merkel, cui si è accodato Nicolas Sarkozy, chiede a tutta l’Europa di adottare il pareggio costituzionale di bilancio e pesanti manovre di austerity. Non solo. Sul Sole 24 Ore l’economista Luigi Zingales ha ricordato come per convincere i tedeschi ad abbandonare il marco a favore dell’euro il governo di Berlino pretese due condizioni: «1) La Banca centrale europea sarà altrettanto brava della Bundesbank nel tenere l’inflazione sotto controllo; 2) la Germania non dovrà mai intervenire per salvare altri paesi». Ed è appellandosi a queste condizioni giugulatorie che Angela Merkel insiste nei suoi «nein»: no al decollo del piano di salvataggio della Grecia, benché sia passato oltre un anno; no agli eurobond; no a qualsiasi altra cosa possa urtare la sensibilità finanziaria dei contribuenti-elettori di là dal Reno. Giusto? Forse: se la Germania avesse a sua volta la coscienza a posto in fatto di dare e avere. Ma se guardiamo alla storia, da quella tragica della Seconda guerra mondiale, a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, agli anni più recenti della caduta del Muro di Berlino, e fino ai giorni d’oggi, scopriamo che non è proprio così. La Germania ha avuto dal mondo, Occidente in particolare, molto più di ciò che ha dato e di quel che pretende adesso. E di questo non c’è traccia né nella sua Costituzione né tantomeno nella sua «constituency», quel codice magari non scritto che è alla base della condotta e delle tradizioni dei paesi avanzati. Non parliamo dei sei milioni di morti che la follia hitleriana causò nei campi di sterminio: non è il caso di far ricadere su figli e nipoti le colpe dei padri o dei nonni. Si può però far riferimento al costo economico della Seconda guerra mondiale, che certamente ebbe nella Germania la sua causa: di recente il Congressional research service americano lo ha quantificato in 5 trilioni di dollari senza tener conto dell’inflazione. Si tratta cioè di 5 mila miliardi di dollari che aggiornata ai giorni nostri è pari, grosso modo, a metà del Pil mondiale di 74 mila miliardi. Sconfitto il nazismo, gli americani vararono poi il piano Marshall da 22 miliardi di dollari che permise all’Europa sconfitta, tedeschi su tutti, di rimettersi in piedi mentre dall’altra parte si alzava la cortina di ferro. Non tutto filò liscio: la Francia chiese che la Germania fosse esclusa dagli aiuti proprio per la sua responsabilità nella guerra. Alla fine il presidente Usa, Harry Truman, si impuntò, fece digerire il piano all’opinione pubblica americana – non meno insensibile al portafoglio di quella tedesca di oggi – e altrettanto fecero inglesi, canadesi, australiani, svizzeri, norvegesi, svedesi, perfino spagnoli. La Germania ebbe 1,5 miliardi di dollari di aiuti, più dell’Italia, un po’ meno della Francia. Ma a questo sussidio d’emergenza che terminò nel 1951 si aggiunsero i costi per l’Occidente (Usa, Francia e Gran Bretagna) dell’occupazione di Berlino e della tutela della Germania Ovest. Il solo ponte aereo con cui gli americani scongiurarono che i berlinesi morissero di fame e freddo per il blocco imposto nel 1948 da Stalin fu un regalo tanto generoso quanto gigantesco: ogni tonnellata di carbone venduta a Berlino al prezzo politico di 21 dollari, ne costava 150 agli Stati Uniti. Alla fine le tonnellate furono 1,5 milioni, mentre quelle di cibo raggiunsero i 2,4 milioni. La più grande e costosa operazione umanitaria della storia. Non è tutto. L’ombrello militare occidentale e americano permise ai tedeschi di dedicarsi in tutta tranquillità al proprio boom economico. Nessuno ha mai calcolato quanto sarebbe costato alla Germania difendersi da sola contro le mire sovietiche, e del resto l’interesse strategico era anche degli Usa. Si sa però che la spesa militare cumulata è la causa principale dei 14.400 miliardi di dollari di debito pubblico Usa, che ha provocato il downgrading di Standard & Poor’s e innescato buona parte dell’attuale rischio di recessione globale. Ma anche i tedeschi ci hanno messo del loro. La riunificazione del 3 ottobre 1990, dopo un anno dal crollo del Muro, è giustamente considerato un capolavoro strategico e di lungimiranza del governo allora guidato da Helmut Kohl. Il suo costo è stato però stimato dalla Freie Universitat Berlin in 1.500 miliardi di euro dell’epoca, una cifra allora superiore al debito pubblico tedesco che adesso sfiora i 2.100 miliardi. La parità tra marco occidentale e orientale, voluta per motivi politici, si tradusse in un crollo di competitività dell’industria tedesca, che a sua volta provocò una recessione che dalla Germania si estese a tutta Europa, Italia compresa. A tutt’oggi Berlino eroga ai territori della ex Germania Est un trasferimento speciale di 100 miliardi di euro l’anno in conto «ricostruzione»: il doppio dei sacrifici imposti in questi giorni all’Italia. E siamo ai giorni nostri. La Merkel sostiene che il salvataggio dei paesi europei a rischio si risolve con il rigore e non può essere pagato dai contribuenti tedeschi. Tanto che le rigorosissime banche di Francoforte, tipo la Deutsche Bank, hanno venduto a piene mani Btp italiani. Bene: ma qual è l’esposizione di queste banche teutoniche nei paesi maggiormente a rischio e declassati dalle agenzie di rating? Secondo la Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, si tratta di 65,4 miliardi di dollari verso la Grecia, 186,4 verso l’Irlanda, 44,3 verso il Portogallo, 216,6 verso la Spagna. Totale, 512,7 miliardi che il sistema finanziario tedesco ha «investito» nei Pigs. Cifra che si confronta con i 410 miliardi delle banche francesi, i 370 di quelle inglesi, i 76 di quelle italiane. Il risultato è che tra le dieci banche europee che fanno più ricorso alla famigerata leva finanziaria (che cioè contabilizzano maggiori crediti e capitale speculativo in rapporto al patrimonio) ben quattro sono tedesche: la Commerzbank, che occupa la prima posizione assoluta con una leva del 76,91 per cento, e poi la Berlin Landesbank, la Deutsche e la Deutsche Postban. Nessuna banca italiana figura in questa top ten. Nessun altro paese vede esposto il proprio sistema creditizio quanto la Germania. A questo punto la domanda è ovvia. Il rigore – giusto, per carità, e tanto più in un paese indebitato come l’Italia – imposto all’Europa dalla Cancelleria e dalla Bundesbank, serve a salvare gli stati o le banche? Soprattutto quelle di Francoforte e dintorni? Curiosità ancora più legittima se andiamo a guardare chi in questi mesi ha fatto più ricorso ai crediti della Bce. Ebbene, tra marzo e giugno 2011 il Tesoro e le banche tedesche hanno bussato alla porta dell’Eurotower per 247 miliardi di dollari, la Francia per 79, l’Italia per 149, la Spagna per 197. Soltanto a luglio l’Italia con altri 80 miliardi, ha portano il nostro conto a quota 229: ancora meno, comunque, della Germania. Insomma: mentre i rappresentanti tedeschi nel board della Banca centrale si opponevano al soccorso ai nostri Btp, salvo pretendere condizioni durissime, Berlino e Francoforte ottenevano crediti in abbondanza. D’accordo, loro hanno la tripla A: ma forse premia più la finanza che la riconoscenza, o la memoria. Marlowe, Il Tempo, 22 agosto 2011

…………..La riconoscenza, per gli uomini, si dice che sia l’attesa di nuovi favori. E’ ovvio ( e accade sempre e ovunque…)  che quando l’attesa è improduttiva, cessa la riconoscenza. La Germania non è diversa dagli uomini per cui non aspettandosi nuovi favori dopo  i tanti che ha ricevuto,  non ha ragione di essere riconoscente nè di doverlo ricordare. Però, non si sa mai….