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IN ITALIA SI PAGANO TASSE SULLE TASSE

Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Secondo le stime ufficiali gli italiani pagano 107 imposte. Ma un libro di Giuseppe Bortolussi (Cgia di Mestre) ci svela che sono tantissimi i balzelli che non si conoscono. Grazie ai quali lo Stato incassa più soldi di Berlino. Usandoli peggio

Il tributo che non ti aspetti: traditi dalle tasse sulle tasse
Libero-news.it

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utti a dire che le tasse sono troppe, ma in troppi ignorano che si paga anche un’incredibile quantità di imposte nascoste: dai fondi pensione al project financing (con cui si finanziano due volte le opere pubbliche, in pratica) e dalle «tasse sulle tasse» (tipo l’Iva sulle accise della benzina) a quelle che cambiano nome ma non la sostanza. Bene, c’è un libro completo e didascalico (“Tassati e mazziati”,  di Giuseppe Bortolussi, Sperling & Kupfer) che smonta i falsi miti sulla fiscalità italiana e spiega le ricadute concrete sulle tasche di cittadini e imprese.

Ma è difficile da riassumere. Si comincia dai fondamentali, che pure, messi in fila, non smettono di impressionare: il 51 per cento del nostro reddito lordo è prelevato dal fisco, e tende notoriamente ad aumentare. In proporzione al reddito, le tasse che paghiamo sono più elevate di quelle dei tedeschi (i nostri tributi sono superiori di almeno 5 punti percentuali) il che significa che lo Stato italiano incassa più soldi di quello tedesco per erogare dei servizi: ma, quando li eroga, sono nettamente inferiori. Questo è possibile perché da noi si pagano tasse anche sconosciute che nascono da incomprensibili meccanismi di rilievo, e che ci lasciano mazziati perché i servizi scadenti che appunto riceviamo dallo Stato ci costringono a rivolgerci ai privati.

FALSI OBIETTIVI
È  d’uopo incolpare l’elevato debito pubblico, ma in realtà, anche considerando gli interessi sul debito, al nostro Paese rimarrebbe in cassa un surplus di risorse più che sufficienti per garantire buoni servizi: ma non è quello che accade. È  d’uopo incolpare anche l’evasione fiscale: se tutti pagassero – si dice – tutto sarebbe diverso. Cifre alla mano, il libro di Bortolussi dimostra che neppure quello è il punto: lo Stato italiano, anche senza i soldi dell’evasione fiscale, ogni anno incassa molti più soldi della Germania. Lo Stato non riesce a spendere bene i suoi soldi: il punto resta questo, lapalissiano ma imprescindibile.

Comprendere tutte le tasse che si pagano è davvero difficile, e questo articolo non riuscirà a riassumere quanto il libro condensa in 174 pagine zeppe di dati e di tabelle. Siamo soliti guardare solo al reddito netto, in Italia, proprio perché inconsapevoli di quanto realmente versiamo. Il cittadino medio ha in mente l’Irpef e, se ben informato, le addizionali Irpef comunali e regionali.  Pochi, tuttavia, considerano anche l’Iva e le accise che si accollano regolarmente con la spesa quotidiana: e quella la pagano tutti – studenti e pensionati – a tutte le ore della giornata. Basta usare un rasoio elettrico, farsi un caffè, usare acqua ed energia e gas, consumare benzina, comprare un whisky.

Giulio Tremonti, nel suo libro bianco del 1994, scrisse che le tasse erano almeno 100, e, di queste, 14 erano tributi sulla casa e 9 sull’auto. Ma secondo l’Istat (dati pubblicati nel giugno 2010, periodo 1980-2009) le forme di prelievo sono almeno 107, e non sono comprese, attenzione, quelle che riguardano servizi specifici come la tassa sui rifiuti. Sono però comprese le tasse che riguardano singoli eventi, tipo la maledetta Irap (Importa Regionale sulle Attività Produttive) o le tasse sul registro, l’ipotecaria, la catastale, quelle insomma più – si fa per dire – eccezionali. Nei fatti, le imposte sono corrisposte a 657 miliardi (nel 2009) a fronte di un reddito lordo nazionale di 1.521 miliardi, dato ingannevole ma che corrisponde comunque a un 43 per cento di pressione fiscale.

Perché ingannevole? Perché ci sono (prendete respiro) anche i contributi previdenziali, il contributo al Servizio sanitario, il premio Inail alle casalinghe, le citate addizionali Irpef comunali e regionali, l’Iva, la  Tia-Tarsu sui rifiuti, il bollo auto, le accise varie, l’imposta sulle assicurazioni, il canone Rai, l’addizionale comunale sull’energia elettrica, quella regionale sul gas, e ancora le ritenute d’imposta sugli interessi attivi.

DETTAGLI DIABOLICI
Il diavolo è nei dettagli, troppi dettagli. Solo i balzelli che gravano sulla casa producono un bottino che si aggira attorno ai 43 miliardi (ripartiti tra Stato, comuni, province e regioni) ma poi ci sono tasse varie su acqua, gas, energia elettrica e metratura della casa stessa: roba che può costare 300 euro annui a un single e oltre 500 a una famiglia.

E l’auto? Lo Stato finge di adirarsi per gli aumenti delle assicurazioni, ma gli incrementi dei premi convengono anche al fisco: che si becca oltre il 18 per cento del premio versato, anche se il bottino vero, com’è noto, è nei carburanti.
E qui arriviamo alle famigerate tasse sulle tasse, un rompicapo. Qualche esempio. Bollette del gas o dell’elettricità: l’Iva è calcolata sulle accise. Tassa sui rifiuti: in alcuni comuni si paga la tassa «ex Eca» sulla Tarsu, che è un’altra tassa; in altri comuni si paga l’Iva sulla Tia, che è una tariffa. Poi c’è l’Iva sul prezzo dei carburanti, che è calcolata sul valore delle accise. Ragione per cui l’aumento del prezzo della benzina, allo Stato, conviene e basta. E sarà un caso che la benzina, da noi, costa più che altrove. Tutto chiaro? No, ovviamente.

Le famigerate accise, comunque, vengono calcolate sulle quantità consumate (litro, chilo) e lo Stato le ha sempre utilizzate per fare cassa in momenti di emergenza: passata l’emergenza, però, l’accisa restava. Così abbiamo, a rendere occulta la tassazione della benzina, 1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935, 14 lire per la crisi di Suez del 1956, 10 lire per il disastro del Vajont del 1963, 10 lire per l’alluvione di Firenze del 1966, 10 per il Belice, 99 per il Friuli, 75 per l’Irpinia, 205 per la missione in Libano del 1983, 22 per quella in Bosnia, 39 lire per il contratto dei ferrovieri: fanno 0,25 euro a cui vanno aggiunti i ritocchi recentissimi per finanziare il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e per cancellare la contestata tassa di 1 euro sul biglietto del cinema, più un altro ritocco applicato dalle compagnie petrolifere per «fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria determinato dall’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti a Paesi del Nord Africa». Una cosa umanitaria.

LIBERAZIONE FISCALE
Questo, e altro, determina che in Italia il «giorno di liberazione fiscale» sia i primi di maggio per un operaio e a fine giugno per un impiegato. Per quanto riguarda le imposte e i contributi e le tasse di cui sono debitori i lavoratori autonomi, invece, il libro di Bortolussi ne elenca 26, e non abbiamo voglia di ricopiarle. Se già è difficile conoscerle tutte, figurarsi il comprendere se si paghi il giusto. Ci sono tasse che si pagano perché lo stipendio aumenta: ma nel caso non siamo più ricchi, perché con più soldi, causa inflazione, spesso riusciamo a comprare le stesse cose di prima. Ci sono tasse che siamo costretti a pagare – come in questo periodo – per calmierare un deficit di cui magari non abbiamo colpa. E ci sono tasse per finanziare servizi di cui non fruiamo perché, complice l’inefficienza, preferiamo o siamo costretti a rivolgersi al privato: dai trasporti alla sanità (dentisti compresi) e dalle poste alla sicurezza, dagli asili alle scuole: senza contare i soldi che diamo al Vaticano e alle strutture cattoliche. Neppure il sistema giudiziario funziona, si sa: le aziende perciò si rivolgono sempre più spesso ad arbitrati privati o a camere di conciliazione.

A proposito di servizi pagati due volte: il libro si sofferma in particolare sul trucco del project financing, ossia il coinvolgimento di partner privati nella realizzazione di un’opera pubblica; si parla di autostrade, gallerie, ospedali, teatri, ponti di Messina, tutta roba che ovviamente prevedono la possibilità che gli stessi privati recuperino l’investimento e facciano quindi pagare (spesso strapagare) servizi e pedaggi. Il project financing però si concentra soprattutto nelle regioni dove già si pagano le tasse più salate, sicché i costi aggiuntivi – che ripagheranno la parte privata – alla fine gravano sulle nostre tasche come sempre. Ecco perché il costo medio per chilometro nelle tratte per esempio del passante di Mestre (finanziato da privati) è praticamente doppio rispetto ad altre tratte autostradali paragonabili.

Anche il moloch dell’evasione fiscale, secondo Bertolussi, è un problema, ma non è il vero problema. Secondo l’Istat la ricchezza che sfugge alle tasse è racchiusa tra il 16 e il 17 per cento del Pil: anche per questo la pressione fiscale, sugli onesti, arriva al 51 per cento. Ma sono loro, appunto, le vere vittime: se lo Stato restituisse loro tutti i soldi evasi, ogni anno, gli onesti avrebbero indietro almeno 2000 euro. Da immaginarsi se lo Stato utilizzasse i soldi recuperati per altra spesa pubblica: saremmo alla follia definitiva. Morale: l’evasione fiscale è un male orrendo, ma altri e più gravi mali dell’Italia sono i medesimi che la rendono poco attrattiva per gli investimenti esteri: i costi burocratici, i tempi della giustizia, le carenze infrastrutturali, tutto ciò che il denaro incamerato dallo Stato, cioè, non ha trasformato in un Paese moderno. Filippo Facci.

MANOVRA: NELLA MAGGIORANZA SI VA VERSO L’AUMENTO DELL’IVA E SI TRATTA SULLE PENSIONI

Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Verso un aumento dell’Iva di un punto, sempre che si superino le perplessità del ministro dell’Economia, contributo di solidarietà inevitabile anche se maldigerito da tutti; pensioni appese alle trattative, che andranno avanti fino all’ultimo minuto utile. A due giorni dall’inizio dell’esame del decreto al Senato e nonostante il fine settimana agostano, il borsino degli emendamenti alla manovra è in piena attività. Tanto che di certezze sulle modifiche al provvedimento che porterà il bilancio in pareggio nel 2013, ancora non ce ne sono.

Non sono mancati contatti e pressioni tra gli schieramenti all’interno della maggioranza, tanto che il ministro Roberto Calderoli, ha cercato di mettere uno stop, accusando parte del Pd e anche della Lega, di fare il gioco dei «poteri forti».

A pesare, per il vertice del Carroccio, è ancora il capitolo pensioni, sul quale i liberali del Pdl non intendono mollare. Ieri anche il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto, ha segnalato «l’assenza di riforme strutturali» sulla previdenza, come uno dei punti migliorabili del decreto. Su questo fronte restano per interventi radicali l’udc Pier Ferdinando Casini e soprattutto Confindustria. La presidente Emma Marcegaglia è tornata a chiedere misure forti sulla previdenza e la cancellazione del contributo di solidarietà, cioè l’imposta aggiuntiva per i redditi sopra i 90 mila euro.
Ma sulle pensioni la partita è politica ed esclusivamente di vertice, in mano, insomma, al premier Silvio Berlusconi e al leader della Lega Nord Umberto Bossi.

Le ipotesi di intervento sono varie, dalle più morbide (l’anticipo di un anno di «quota 97» requisito che somma età anagrafica e contributiva, che a normativa vigente scatterà nel 2013) a una graduale cancellazione delle anzianità. E poi l’accelerazione dell’aumento dell’età della pensione di vecchiaia per le donne del privato. Se il premier e il leader del Carroccio troveranno un compromesso, sarà comunque su una formula meno drastica rispetto a quelle circolate in questi giorni. Delle forzature, soprattutto sulle donne, vedrebbero l’opposizione dei sindacati, che in occasione di questa manovra si sono di nuovo divisi sull’atteggiamento da tenere verso il governo.
La Cgil farà lo sciopero generale mentre Cisl e Uil considerano l’astensione dal lavoro dannosa per il Paese e i lavoratori. Ieri la segreteria guidata da Susanna Camusso ha cercato di ricucire con le altre due confederazione attraverso una lettera aperta nella quale conferma la «ferma volontà di un’azione comune», nonostante lo sciopero generale.

Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni propone come alternativa una protesta da tenere la sera o il sabato, in modo da non incidere sulle buste paga. Non boccia il decreto in toto, ma fa proposte, come l’aumento di un punto percentuale dell’Iva.
Tra tutte le proposte, quella di un aumento dell’imposta indiretta, è proprio quella che ha più possibilità di passare. Ieri l’hanno chiesta, sul fronte della politica, anche il pdl Claudio Scajola e il governatore della Campania Stefano Caldoro.
Ma restano le perplessità di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia teme che il ritocco all’imposta scateni speculazioni e aumenti di prezzo ingiustificati come quelli che si verificarono con l’entrata in vigore dell’euro.
Stabili, nel borsino degli emendamenti, le quotazioni del contributo di solidarietà, sia pure con delle correzioni come quella pro famiglia proposta dal sottosegretario Carlo Giovanardi. Tutta da giocare, quella che riguarda i tagli ai trasferimenti agli enti locali, che sarà l’oggetto del vertice della Lega Nord in programma per domani. Partita che è ancora legata ad uno scambio con la riforma della previdenza, anche se la Lega cercherà di alleggerire gli enti locali, anche grazie all’aumento dell’Iva.
Resta in lista la vendita degli immobili pubblici e un’accelerazione sulle privatizzazioni, anche se le dismissioni danno entrate una tantum, che non possono essere utilizzate per rimpiazzare misure strutturali, come il contributo di solidarietà. Il Giornale, 21 agosto 2011

QUESTO GOVERNO E’ CONTRO IL CETO MEDIO

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Assalto alla borghesia. Furto senza destrezza nei confronti del ceto medio. Questo è, in parole povere, il succo delle manovre economiche adottate negli ultimi tempi da un governo che si autodefinisce di centrodestra ma che opera come un governo di centrosinistra, se non, pure, di sinistra tout-court. L’assalto alla borghesia, la rapina cioè del ceto medio produttivo – ché di rapina, di vera rapina, si tratta – è la conseguenza di una scelta culturale prima che politica. È il risultato di una mentalità socialista e statalista, che ha sempre guardato con sufficienza, se non proprio con occhio malevolo, l’iniziativa privata, soprattutto quella espressa dalla laboriosità e dall’inventiva dei piccoli imprenditori, degli artigiani, di coloro cioè che, ogni giorno, si rimboccano le maniche e, con il sudore della propria fronte, creano ricchezza, non tanto per sé, quanto per il Paese. È, ancora, il frutto di una mentalità che ha prodotto il pansindacalismo e l’assistenzialismo, la burocratizzazione della società, la crescita incontrollabile della spesa pubblica, l’invadenza sistematica dello Stato nell’esistenza dei cittadini. E, come esito finale, una società basata sul privilegio di casta e sulla rendita di posizione. Le pensioni di anzianità – caparbiamente difese dal neofascismo corporativo della Lega – che cos’altro sono se non privilegio allo stato puro, conseguenza della dilatazione senza controllo dello Stato sociale? E che cosa rappresenta la resistenza a oltranza di fronte alla prospettiva di un innalzamento dell’età pensionabile delle donne, al di là di ogni logica e al di là di ogni sostenibile motivazione economica ed etica oltre che al di là di ogni discorso sulla parificazione dei sessi, se non una difesa egoistica di uno status quo privilegiato, cascame, anch’esso, della società assistenziale? Una manovra finanziaria che colpisce, utilizzando la mannaia fiscale, i ceti medi produttivi è una manovra «culturalmente» socialista nella sostanza e antiquata nella struttura. Non tiene conto del fatto che i ceti medi – la borghesia produttiva insomma – sono la struttura portante della società contemporanea, il fattore che determina la ricchezza e la vitalità del Paese. Dovunque, e da sempre, questi ceti medi sono stati il cuore pulsante di una società in evoluzione e avviata lungo le strade dello sviluppo e del progresso. Lo sono stati agli albori dell’età moderna, quando artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari fondiari e via dicendo hanno avviato, grazie alla loro libera iniziativa, il processo di trasformazione da una economia di sussistenza a una economia fondata sullo scambio. Lo sono stati, nella parte più evoluta dell’Europa occidentale, all’epoca del decollo della rivoluzione industriale e dello sviluppo capitalistico. E lo sono stati portando avanti una concezione della vita fondata su valori quali la parsimonia, la laboriosità, il senso della disciplina, il culto del dovere, il gusto per l’innovazione e l’imprenditorialità. Lo sono stati, ancora, quando hanno contribuito a tradurre, in termini politici, nelle istituzioni democratiche e rappresentative dell’età liberale questi principi. Quelle parti dell’Europa dove la formazione della borghesia produttiva è stata ostacolata o si è manifestata con ritmi molto più lenti hanno fatto registrare, nel corso della loro evoluzione storica, un ritardo nello sviluppo non soltanto economico ma anche politico. Perché – non dimentichiamolo mai – la conquista della libertà politica procede di pari passo con la valorizzazione della libertà economica. Tanto è vero che le limitazioni e i condizionamenti della libertà economica e, più in generale, dell’iniziativa privata hanno accompagnato, nel secolo passato, la nascita e l’affermarsi dei regimi autoritari di ogni tipo e di ogni colore. Così come, nel secondo dopoguerra, il mito della «società del benessere» fondata sull’assistenzialismo di Stato ha portato all’elefantiasi burocratica, alla creazione di privilegi, a dimenticare – per usare una bella espressione dell’economista Milton Friedman, che «nessun pasto è gratis». L’assalto alla borghesia, ai ceti produttivi e tartassati del paese, così come è stato effettuato dal governo, attraverso l’arma del ricorso massiccio a un prelievo fiscale destinato a tappare soltanto buchi di bilancio, è destinato ad affrettare la corsa verso la stagnazione perché soffoca e deprime la capacità di iniziativa del ceto medio e non interviene, se non in misura risibile, sulle cause strutturali che, oltre alla congiuntura internazionale, sono all’origine delle difficoltà economiche del nostro paese. Un paese che è ben tratteggiato da una battuta di Antonio Martino: «L’Italia è una madre che ha due figli: Privato, che lavora, produce e risparmia. E Pubblico, che dissipa quanto incassa e si appropria anche dei risparmi di Privato. Un figlio creativo e laborioso che ha fatto del nostro uno dei paesi più prosperi del mondo e un fratello pletorico, inefficiente e dissestato». Gli interventi del governo, contenuti nella manovra di metà agosto, non sono soltanto un tradimento nei confronti delle promesse elettorali di dar vita a una «rivoluzione liberale». Sono, anche e soprattutto, una complice strizzatina d’occhio alla vocazione dissipatoria di Pubblico e un irridente rimprovero alla vocazione operosa e risparmiatrice di Privato. Francesco Perfetti, Il Tempo 20 agosto 2011

.…….Ci spiace doverlo ammettere ma ha ragione Perfetti. Questo governo di centro destra è di fatto un governo contro il ceto medio. Se continua così il ceto medio si trasformerà nella clava che lo butterà giù senza pietà. Berlusconi torni sui suoi passi e modifichi la manovra facendo buon uso della magggioranza in Senato dove è più facile costringere i riottosi della Lega ad accettare interventi che non si pongano sulla linea di distruzione del ceto medio italiano. Prima che sia troppo tardi. g.

COSI’ SI ARRIVA AL DOPPIO EURO, di Mario Sechi

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il cancelliere tedesco Angela Merkel Noi non li vogliamo. Angela Merkel ha liquidato così l’idea di lanciare gli eurobond, i prestiti garantiti dall’Europa. La cancelliera tedesca chiude la porta e la Francia gira la chiave. Se questa è l’Europa unita, cari lettori, stiamo freschi, e cantiamo il De Profundis per un sogno che si sta trasformando in un incubo. L’Italia, Paese fondatore dell’Europa, dovrebbe cominciare a organizzarsi per una dissoluzione dell’Euro che giorno dopo giorno appare sempre più all’orizzonte non come un’ipotesi scolastica, ma come un’opzione. E quando le cose diventano possibili, è bene pensarci prima. L’ingresso nell’Eurozona all’Italia è costato lacrime e sangue (ricordate le manovre di Prodi e Ciampi?), la permanenza in questo club continua ad essere fonte di sacrifici enormi e frustrazioni economico-sociali. Anche gli spiriti più ingenui oggi hanno realizzato che il nostro rapporto di cambio è svantaggioso e ha determinato una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie che tutti toccano con mano ogni giorno. La moneta unica per evitare distorsioni e funzionare bene aveva bisogno di tre condizioni base: 1. Assenza di shock e virus che contagiano gli altri Stati; 2. Mobilità e flessibilità del lavoro; 3. Armonizzazione fiscale nei Paesi che adottano la moneta unica. Nessuna di queste tre condizioni si è realizzata e la situazione invece di viaggiare verso la «normalità» sta diventando sempre più «subnormale». Il caso della Grecia manda a carte quarantotto la condizione numero uno e dimostra come il contagio del virus da una nazione all’altra oggi sia una realtà che si tramuta in moneta sonante. I tedeschi e i francesi hanno detto sì al salvataggio di Atene per mettere al sicuro i bilanci delle loro banche che detenevano il debito del Peloponneso, ma si oppongono all’estensione di meccanismi di solidarietà continentale e dulcis in fundo all’unico strumento che potrebbe davvero salvare l’Eurozona dalla rottura del patto fondato sulla moneta unica. Il professor Alberto Quadrio Curzio da anni spiega come questa idea può essere realizzata: costituire un Fondo Comunitario Europeo, garantito dalle riserve auree, il quale poi emette obbligazioni pari al 5 per cento del Pil di Eurolandia. Si ricaverebbe una «dotazione» del Fondo pari a circa mille miliardi di euro, ipergarantita dall’oro che oggi viaggia alla cifra record di 1800 dollari l’oncia, ma secondo alcuni analisti in grado di toccare quota 2000 dollari entro la fine dell’anno. Problemino: i tedeschi dicono no. E i francesi si accodano. A questo punto, paradossalmente, proprio per salvare l’Euro e quel che resta dell’Europa, riemergerà il disegno messo nero su bianco nel 2010 da Michael Arghyrou e John Tsoukalas, due studiosi della Cardiff Business School e della Nottingham University, lanciato da Nouriel Roubini, l’economista che aveva previsto il crac del 2008. La base di partenza è questa: i Paesi periferici dell’area Euro invece di adeguare le proprie politiche economiche e fiscali agli standard previsti dall’Unione, fin dal 1999 hanno proseguito la loro marcia in rosso. Anno dopo anno, siamo arrivati ai giorni nostri con debiti sovrani troppo alti per esser onorati senza avviare riforme strutturali, cioè quelle che andavano fatte fin dall’inizio dell’avventura dell’Euro e nessun Paese in crisi (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma ormai la stessa Francia) vuol fare per ragioni politiche, di mero consenso elettorale. Non avendo fatto in passato le riforme, non c’è più tempo per passaggi graduali, ma i governi non hanno il coraggio di sottoporre i propri Paesi a cure shock. Si può condurre una vita a debito, ma prima o poi si paga. E nessuno vuol staccare l’assegno, ma continuare a scaricare in avanti il fardello. La conclusione dei teorici del doppio conio è la seguente: la Banca Centrale Europea dovrebbe gestire due monete. Un euro forte e un euro debole. Il primo in circolazione nei Paesi più solidi (Germania, Francia, etc.), il secondo nei Paesi più fragili (Portogallo, Grecia, Spagna, Italia, etc.). Il debito dei Paesi da curare, continua ad essere contabilizzato con l’Euro forte, mentre l’Euro debole al momento del varo, viene svalutato di una percentuale sufficiente a consentire un recupero di competitività dei Paesi con problemi di crescita (sì, ricorda le nostre svalutazioni competitive della Lira). La Bce continuerà ad avere il monopolio della politica monetaria e avrà due tassi di riferimento per le due monete. I Paesi che oggi hanno il problema di gestire il debito sovrano avranno più tempo (quello che ora manca, insieme al coraggio) per gestire il rientro nell’Euro forte, dopo aver fatto le riforme strutturali, mentre gli Stati orientali che oggi non possono entrare nell’Eurozona potranno cominciare la loro marcia di avvicinamento verso l’Euro debole e poi puntare al top dell’Euro forte. É un sistema tutt’altro che sballato, dal punto di vista teorico, ha un suo grande fascino, inutile nasconderlo. Un Euro troppo forte – come quello attuale – è fonte di squilibri enormi, non favorisce Paesi che tradizionalmente esportano (vedi il caso Italia) e la bassa inflazione da sola non compensa la perdita di potere d’acquisto (ancora una volta, il caso Italia). Domanda: si può fare? La risposta dei signori della Bce è una sola, no. Non esistono meccanismi di uscita dalla moneta unica. Entri, chiudi la porta, ma non la riapri. Il problema è che la Storia non aspetta i trattati, si fa, a prescindere da quello che pensano gli uomini. Se gli spread restano a questi livelli, le Borse giocano al toso tutto quello che si muove sopra l’erba e l’economia mondiale entra in una drammatica recessione (Jp Morgan ieri ha tagliato seccamente le stime di crescita del Pil americano per i prossimi due trimestri), la faccenda diventa come alla roulette: i giochi sono fatti e chi ci ha rimesso la puntata non può chiedere indietro il piatto. I tedeschi si credono – e in parte certamente sono – il giocatore vincente. La Merkel non è ancora riuscita a far digerire il pagamento del conto degli allegri prepensionati greci, figurarsi garantire il portafogli della carovana di spendaccioni del Club Med. Il pasticciaccio brutto è tutto qui. Siamo di fronte a un Paese forte con l’opinione pubblica che ha il mal di tasca (la Germania) e a un’altra nazione (la Francia) che sta a Berlino come il vagone alla locomotiva. Mezza Europa di traverso. É un modo ottuso di ragionare e procedere, condurrà al patatrac del Vecchio Continente, ma la cronaca ci consegna tutti i giorni storie di ordinaria follia. Povera Europa. Mario Sechi, Il Tempo 20 agosto 2011

E’ IL MOMENTO DI FARE ALTRO, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 19 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Borse europee, operatori al lavoro a Francoforte O la borsa o la vita. Questa è la scelta che abbiamo di fronte. E un’altra non esiste. Chi cerca la terza via è un povero illuso. Stiamo navigando in un mare in tempesta, e allora siamo obbligati a fare un rapido punto nave per capire dove stiamo andando. I grandi trend sono essenzialmente tre: l’America è in declino, l’Europa affonda e l’Asia si prepara a dominare.
Sono direttrici della Storia che la classe politica e una fetta enorme del ceto intellettuale occidentale stentano a comprendere, addirittura le considera inaccettabili. Ma la realtà delle cose non lascia scampo. Ieri il mercato ha dato l’ennesima prova di essere dominato da «animal spirits» che se ne infischiano di quello che pensano, dicono e fanno i politici. Stati Uniti ed Europa sono due grandi malati. Il presidente Obama è ridotto a fare i comizi in campagna, con alle spalle un trattore che sembra uscito dall’Ottocento, per inseguire i voti di un’America rurale devastata dalla globalizzazione dei mercati. La cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy hanno preso un caffè a Parigi e senza prendere alcuna decisione operativa hanno già fatto suonare la campana a morto per l’euro.
È una situazione grave per il Vecchio continente, tanto che il settimanale Time ha titolato così la copertina dell’ultimo numero: «Declino e caduta dell’Europa». Il mondo è dominato da forze sempre più indipendenti dai governi e dunque dalla volontà popolare. Andiamo scrivendo da almeno un anno su questo giornale che senza un radicale cambiamento della politica economica globale e un ricambio della leadership finiremo tutti contro gli scogli. Ieri sul Financial Times Jeffrey Sachs, professore della Columbia University, ha scritto un bellissimo articolo sul «grande fallimento della globalizzazione». Improvvisamente stanno venendo al dunque tutti i problemi rinviati: la politica macroeconomica ha fallito nel creare posti di lavoro e non risponde più ad alcun valore sociale positivo, favorendo solo la classe dei super ricchi, come testimoniato dall’intervento di Warren Buffett l’altroieri. Di fronte a uno scenario così grave, l’Europa spera ancora che gli Stati Uniti trovino una via d’uscita ai loro problemi e salvino così anche il Vecchio Continente.
È un’illusione. L’America non è più l’America, e rischia addirittura una doppia recessione. L’Europa in queste condizioni rischia lo sfascio. Ci vorrebbero leader che hanno lo stomaco e il coraggio per salvare l’euro, ma per ora all’orizzonte non s’è visto nessuno. Per la prima volta negli ultimi sei mesi una grande banca europea ha cominciato ad acquistare dollari al posto dell’euro: 500 milioni al tasso fisso dell’1,1 per cento. È un segnale. Significa che la fiducia in quella che era l’unica forza dell’Europa, cioè la sua moneta, sta scricchiolando, e il bigliettone verde è destinato a tornare – nonostante gli americani facciano di tutto per tenerlo basso – l’incontrastata moneta di riferimento dei mercati. Le borse ieri hanno guardato a uno scenario economico più che politico, gli operatori sono nervosi, la parola d’ordine è panico, improvvisamente il mercato dei prestiti interbancari ha cominciato a raffreddarsi e la parola tanto temuta da tutti è “freezing”, “congelamento”, cioè il momento in cui nessuno compra e vende denaro, il blocco totale del sistema del credito. Era già successo con la crisi dei mutui subprime, la crisi di liquidità fece schiantare in pochi giorni i colossi del credito che non avevano più soldi per ricoprire le loro posizioni esposte nel mercato della finanza creativa.
A differenza della recessione del 2008 siamo in una prospettiva persino peggiore: non c’è nessuna bolla da far scoppiare. Morgan Stanley ieri ha sfornato un report in cui vede la crescita globale al 3,9 e non al 4,2. I mercati hanno registrato la cifra e hanno cominciato a vendere i titoli della Old economy: chi produce cemento, acciaio, materie prime legate al mondo delle infrastrutture e dell’edilizia ha visto deprezzare le sue azioni. Stiamo assistendo a una partita a poker in cui tutti mentono e i governi non riescono a uscire dalla spirale del debito, degli stimoli fiscali a tempo, delle agenzie di rating che ne condizionano le politiche fiscali ed economiche, tutte concentrate sui bilanci e completamente assenti sul fronte della creazione di ricchezza e lavoro. Se questo è lo scenario – e potete star tranquilli che è così – il governo italiano si sta letteralmente impiccando da solo. Né la maggioranza né l’opposizione hanno compreso che è arrivato il momento di fare altro.
È inutile mettersi col calcolatore a varare manovre che non risolvono il problema del debito, ma al limite solo del deficit. Al posto di Berlusconi io avrei bussato alle porte dell’Europa e avrei detto: toc toc, è permesso? Cari Sarkozy e Merkel, ma non vi siete accorti che stiamo affondando? E tu, cara Angela, com’è possibile che dici “no” a una politica europea comune di salvataggio, chiudi la porta agli eurobond, e ti sia dimenticata della storia della Germania? Non ricordi come siete usciti dalla seconda guerra mondiale? Ti dice niente la parola Piano Marshall? E non ricordi chi ti ha pagato la riunificazione dopo la caduta del muro di Berlino?

Tu puoi, insieme a Nicolas, decidere di non decidere, lasciare che l’euro si sfasci, introdurre due monete nel Vecchio Continente; ma allora cari amici di Parigi e Berlino, io vi dico che preferiamo cavarcela facendo le nostre scelte, consultandoci con gli amici del Club Med, la Grecia, la Spagna il Portogallo e gli altri che pensano stiate sbagliando e proviamo un’altra via. Quale? Quella del rigore, certo, ma anche quella che prevede la crescita, lo sviluppo, la creazione di lavoro per i nostri giovani e per le famiglie. Falliremo? Non lo sappiamo, ma almeno saremo liberi di fare crac un po’ più tardi invece che subito per effetto della politica della vostra Banca centrale e delle vostre piccole idee. Tra la borsa e la vita, scusateci, scegliamo la vita.  Mario Sechi, Il Tempo, 19 agosto 2011

.………..L’editoriale di Sechi è stato scritto prima ancora che riaprissero le Borse e di nuovo queste  affondassero, dall’Ovest all’Est, investite come  da uno tsunami inarrestabile. E mentre le Borse affondano il duo Merkel e Sarkozy continuano imperterriti a conclamarsi padroni delle scelte di tutti. Ieri sera un “uomo della strada”, non un esperto di economia e finanza,  diceva le stesse cose che oggi scrive Sechi sul Tempo. Bisogna impedire al duo Merkel e Sarkozy di  affondare l’Europa e con essa i Paesi che talvolta senza crederci hanno imboccato la strada dell’euro. Bisogna che ai due venga tolta la leadsership europa che si sono presa senza che nessuno gliela abbia mai affidata, e occorre farlo prima che sia troppo tardi. E prima che sia troppo tardi occorre che ciascuno faccia la sua parte. Anche l’Italia, il suo governo, la sua opposizione. Mentre tutto crolla intorno a noi, non si può continuare a giocare a tamburello, rilanciandosi a vicenda accuse e contraccuse, senza tentare di trovare intese reciproche che rinviino a tempi successivi la disputa politica ed elettorale. Il Parlamento riesamini la manovra, la ritocchi lì dove appare zoppicante e inadeguata. L’altro ieri Montezemolo ha proposto di vendere la Rai, privatizzandola: è una buon idea. In nessun Paese al mondo, ad incominciare dalla democraticissima America,  esiste una TV di Stato con tre canali che si fanno concorrenza tra loro, sperperando quattrini ed energie. Si impedisca che l’egoismo “padano” intralci riforme strutturali come la eliminazione delle pensioni di anzianità che tanto male hanno fatto alle casse dello Stato e come la eliminazione di tutte le Provincie, come sostiene oggi sul Giornale il deputato PDL Santo Versace, sia perchè fonte di sprechi, sia perchè  la loro eliminzione era prevista dalla riforma regionale del 1970: dopo 40 anni è tempo di rispettare la legge. Lo stesso  Versace sostiene anche che utile e opportuno sarebbe l’accorpamento dei Comuni sino a 25 mila abitanti come accade  in altri paesi europei. Non è una cattiva idea sia sul piano economico, sia sul piano della riduzione di sprechi e disperdimento di risorse.   E poi i costi della politica e della casta. I timidi provvedimenti assunti,  e qualcuno solo annunciato,   sono poca cosa. Basta leggere le inchieste giornalistiche . assolutamente bipartisan – per rendersi conto che ci troviamo di fronte a pozzi senza fondo nel quale si nascondono  privilegi e benefici tenuti sinora accuratamente nascosti e difesi da tutti, senza eccezioni, perchè tutta la “casta” vi trova il proprio tornaconto. Non occorrono leggi speciali o riforme costituzionali per eliminare privilegi e benefici che oggi più che mai appaiono insulti alla gente comune che ogni giorno deve rimboccarsi le maniche per far quadrare i bisogni della propria famiglia. Bastano la volontà e una legislazione “normale”  g.

I SOLDI NON CI SONO? ALLORA NON SPENDETE!

Pubblicato il 15 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

di Credo che nessun pasto sia gratis e che si debba pagare di tasca propria. Mi secca perciò essere chiamato a fronteggiare sprechi di Stato che non avrei mai voluto e che detesto. La crisi economica come dice il Cav è mondiale, ma il debito pubblico che ci azzoppa è italiano.
Governo e opposizione, hanno le loro ricette sui sacrifici da fare. Nessuno dice però se lo sforzo sia un lenitivo o una vera soluzione. Il Cav anziché ripetere che gli sanguina il cuore per la mazzata che ci dà, dica se vale la pena darcela. Se restituisce un futuro al Paese, ci sottomettiamo. Se è un furtarello i cui effetti si esauriranno in pochi mesi, la politica è in coma. Ciò che impressiona nell’ansimante dibattito, in cui la paura spadroneggia e la razionalità è abbandonata, è che non si pensi ad accompagnare la pretesa di sacrifici con ferme garanzie che il caos non si ripeterà.
Prima di essere spremuto, avrei voluto sentirmi dire dal centrodestra quanto segue. Caro Perna ti stiamo impoverendo per un debito non tuo, contratto da noi politici dimentichi delle regole del buon governo. Non accadrà più. Inseriremo l’obbligo del pareggio del bilancio nell’articolo 81 della Costituzione. Ciò significa che lo Stato spenderà annualmente solo il denaro delle tasse. Non una lira di più. Rinunceremo ai prestiti – cioè Bot e compagnia – buoni solo a espandere l’ingerenza pubblica. Sono 30 anni che il debito è incontrollato. Come sai ha raggiunto la cifra di 1.843 miliardi equivalente al 120 per cento del Pil e ci costa 70 miliardi di interessi l’anno (quasi il doppio dell’attuale dura manovra che, per di più, è diluita in due anni). Senza contare che il 40 per cento è in mano estera e così siamo in balia di altri.
Con l’obbligo del pareggio, i nostri unici introiti saranno le tasse. Ovviamente, stabiliremo nello stesso articolo 81 il limite massimo delle imposte da pagare, così da evitare che per megalomania spendereccia i futuri governi le portino alle stelle. Già adesso siamo largamente sopra il limite, poiché sottraiamo ai cittadini circa il 50 per cento del loro reddito, come dire che lo Stato succhia ogni anno metà del Pil: 750 miliardi sui 1500 di fatturato nazionale. Un’idrovora che soffoca la libertà economica degli individui e delle imprese. Con la conseguenza che il denaro che i privati farebbero fruttare con nuove iniziative, è utilizzato dallo Stato per la spesa corrente, ossia sterile.
Che questa modifica costituzionale dell’articolo 81 sia assolutamente necessaria, è provato non solo dalle regole dell’economia classica liberale – vai a rivedere Perna quanto scriveva Luigi Einaudi, che oggi ci osserverebbe inorridito -, ma anche dalla contrarietà di Bersani, Bindi, Prodi & Co, di inserire l’obbligo del pareggio nella Costituzione. Sono il partito della spesa pubblica, quello dei keynesiani, che vuole dare mano libera allo Stato paventando situazioni eccezionali – una grave recessione, per esempio – in cui il governo potrebbe avere bisogno di indebitarsi per tenere botta. È quello che sostengono anche otto Nobel americani che in una lettera a Obama – evidenziata pour cause dall’Unità – lo sconsigliano di introdurre il pareggio di bilancio nella Carta Usa. Naturalmente, in queste perplessità c’è del vero. Ma noi abbiamo un altro imperativo: stroncare il vizio italiano del debito sistematico. Quindi ben venga il divieto costituzionale. Se poi sarà necessario un indebitamento antirecessivo – una volta ogni trent’anni – la politica farà un’eccezione, come è avvenuto nei giorni scorsi in Usa.
Dimenticavamo, ma è sottinteso: nella spesa statale – quella che ha il suo tetto nelle entrate fiscali – sono inclusi i 70 miliardi annui di interessi del debito pubblico in atto. Perché è vero che, con la regola del pareggio, non andremo più in deficit, ma l’indebitamento precedente resta. E finché non sarà estinto, costa. Dunque – problema ulteriore – bisognerà cominciare a ridurre i 1.800 miliardi di prestiti fino all’azzeramento. Se ogni anno paghiamo, senza rinnovarli, il 3 per cento di titoli pubblici, in 33 anni saldiamo. L’operazione ci costerà ulteriori 48 miliardi annui.
Queste sono le cifre. Un quadro tremendo, ma tiene conto degli italiani che verranno. Non c’è spazio per sprechi, né per furti e resta meno della metà di quanto spendiamo oggi per le solite cose, vitali ma improduttive: stipendi pubblici, previdenza, sanità, ecc. L’unico modo di uscirne è quello finora inutilmente caro al premier: produrre di più. Moltiplicare il Pil, lavorare molto, esportare come tedeschi. Più redditi, più entrate fiscali, più ricco il bilancio pubblico. Dimenticate una cosa, dico io. Togliete ai parlamentari il potere di presentare leggi di spesa (per ingraziarsi il collegio), lasciandone il monopolio al governo. Compito delle Camere è controllarne la correttezza. Se invece maneggiano anche loro, chi controllerà il controllore? Hai ragione Perna, sarà fatto. Questo avrei voluto sentirmi dire. Inserita in questo quadro d’insieme, considererei la mazzata dolorosa ma utile. In mancanza, la vivrò come quella cialtronata del governo Amato che, vent’anni fa, ci lasciò più poveri ed egualmente vulnerabili. Il Giornale, 15 agosto 2011

IL VALORE DELLA PATRIA, di Mario Sechi

Pubblicato il 11 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il 13 agosto del 1961 iniziava la costruzione del Muro di Berlino. Quarantatré chilometri di cemento, filo spinato e torrette. Sono trascorsi cinquant’anni, il Muro è crollato, la Germania riunificata, l’Europa in pace e con un benessere insperato in quegli anni di Guerra Fredda. Ma lontano s’ode uno scricchiolìo. L’Unione è senza una linea comune che non sia quella del gettito, del debito e del credito. E la politica? Non pervenuta. Travolti dal crac americano, gli Stati procedono a fari spenti nel buio. La Francia teme di perdere la «tripla A», i listini azionari tedeschi crollano, la Spagna è zavorrata dalla sua finanza creativa, la Grecia è salvata ma fallita. E l’Italia? Ha un debito pubblico abnorme ed è guidata da uno spirito neocorporativo in cui i veti della politica, delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati si annullano a vicenda. Fino a confondersi. La Cgil ha già minacciato uno sciopero generale. A prescindere. E la Lega è il suo insolito alleato sul no all’innalzamento dell’età pensionabile. Così non si riforma niente. È la metafora di un immobilismo che non taglia la spesa pubblica improduttiva, non ferma il welfare scaricato sulle spalle delle generazioni future, non liberalizza, non combatte l’evasione e l’elusione, non disegna un Fisco dal volto umano. Il momento è straordinario. Da più parti si invoca un provvedimento per fare subito cassa e allora è giunto il momento di fare chiarezza: il governo dica se vuole istituire una patrimoniale sulla liquidità e gli immobili. Sì o no. Noi siamo contrari all’assalto al risparmio e al capitale. Ma vogliamo un futuro per i nostri figli e crediamo in un valore superiore: siamo patrioti. Post scriptum. Ai partitanti: siamo patrioti, non scemi. Tagliate davvero i costi della politica. Mario Sechi, Il Tempo, 11 agosto 2011

.……………..Siamo d’accordo con Sechi di cui apprezziamo sempre più la chiarezza e la capacità di non essere fazioso oltre i limiti degli interessi generali. Come quelli che oggi sono stati ragione di dibattito alla Camera in occasione della audizione del ministro dell’Economia Tremonti dinanzi alle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato in seduta congiunta. Fumose, ha detto delle dichiaraziomi di Tremonti, Bossi che pure di Tremonti è amico e gran protettore. Non solo fumose, aggiungiamo noi, che abbiamo ascoltato l’intervento di Tremonti dinanzi alla TV, ma inutilmente accompagnate da citazioni e  dotti riferimenti del tutto superflui in considerazione della gravità del momento e comunque prive di veri e propri impegni e di punti fermi dell’azione che il govenro deve mettere in atto per bloccare la crisi. Ma non solo Tremonti è stato fumoso, altrettantolo sono stati i suoi interlocutori, da quelli della maggioranza a quelli della opposizione, tutti incartati dalla logica, forse, della ripresa televisiva e timorosi, ciascuno, di dire parole in più del necessario attendendo di fare gioco di rimessa rispetto agli altri. E così chi si aspettava chiarezza e precise indicazioni per l’immediato futuro è rimasto completamente deluso, salvo, forse, ci duole ammetterlo ma è la verità, per l’intervento di Di Pietro che pur usando un linguaggio poco consono al suo e al ruolo delle istituzioni ha tirato il sasso nello stagnante lago delle chiacchiere che anche oggi l’hanno fatta da padrone nel palazzo del potere, senza che nessuno abbia avuto il coraggio di indicare la ricetta e l’amara medicina che servono al Paese per salvare il presente e, sopratutto, il futuro. Post scriptum: ha ragione Sechi, “qua nessuno è fesso”. E chiunque ha seguito il dibattito di oggi alla Camera ha potuto constatare che nessuno, nè della maggioranza nè della minoranza, si è avventurato sul terrerno dei costi della politica, quelli che, per intenderci si possono tagliare subito, senza leggi costituzionali, e che se non possono da soli risanare la situazione debitoria del Paese, almeno, come ha scritto oggi Sole 24 Ore, possono essere d’esempio e di stimolo ad accettare i sacrifici che il partito della casta vuole imporre agli italiani. Imporre sacrifici agli italiani non può essere disgiunto dall’imporre sacrifici ai tanti che mungono la vacca: dai parlamentari ai consiglieri comunali. Senza indugio e scuse di sorta. g.

SPECULATORI DELLA POLITICA, di Francesco Damato

Pubblicato il 8 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

C’è qualcosa di peggio della speculazione finanziaria internazionale, ai cui polsi il nostro Marlowe vorrebbe giustamente mettere le manette. È la speculazione politica che cerca di farne in Italia il principale partito di opposizione, il Pd. Immagino, e mi auguro, con quanto disappunto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, vista la presenza da quelle parti di molti suoi ex compagni. Gli può essere tuttavia di conforto, per quanto gramo, il fatto che a speculare di più politicamente sugli “speculatori” finanziari – le virgolette sono dell’Unità- sia nel Pd un uomo di provenienza non comunista ma democristiana, il capogruppo dei deputati Dario Franceschini. Che è stato il predecessore più immediato, e temporaneo, di Pier Luigi Bersani alla segreteria. E che, sconfitto dallo stesso Bersani nella corsa congressuale per la successione a Walter Veltroni, è stato singolarmente premiato con il maggiore incarico istituzionale del partito, costituito appunto dalla presidenza del più consistente dei due gruppi parlamentari: quello di Montecitorio. È proprio in questo ruolo che Franceschini è arrivato a sostenere, testualmente, che la formazione di un nuovo governo, cioè una crisi, equivarrebbe da sola a “tre manovre economiche messe insieme”. Gli ha fatta eco ieri il solito Marco Travaglio, in una gioiosa sospensione delle ferie appena annunciate, scrivendo che con una crisi di governo “Piazza Affari, anziché chiudere per eccesso di ribasso, riaprirebbe di domenica per eccesso di tripudio”. Ma torniamo a Franceschini e alla sua strana visione dei mercati e della politica. Di fronte alla quale viene voglia di chiedere al segretario del suo partito se più opportune e urgenti delle dimissioni di Silvio Berlusconi dalla guida del governo, non siano quelle dello stesso Franceschini da capogruppo del Pd. Al quale peraltro l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, già capo dell’Ulivo e dell’Unione, le due alleanze di cosiddetto centrosinistra sperimentate negli ultimi quindici anni, e già presidente della Commissione dell’Unione Europea, sembra ancora più bollito del Cavaliere per avere osato schierarsi nei giorni scorsi contro una crisi. E avvertire che «nella tempesta non si cambia pilota». Ciò varrebbe, secondo Franceschini, in «tempi ordinari». Che non sarebbero naturalmente questi. Ci sono evidentemente tempeste ordinarie, durante le quali è bene tenersi stretto il pilota, e tempeste straordinarie, al cui arrivo l’equipaggio e i passeggeri della nave debbono subito provvedere a buttarlo a mare. È proprio un intelligentone, questo capogruppo, smanioso con il suo predecessore Veltroni di un governo tecnico, o di analoga denominazione, sapete per quale astuto motivo? Perché, non avendo i suoi componenti l’onere di candidarsi alle elezioni, potrebbe fregarsene della impopolarità ed assumere tutte le decisioni drastiche e necessarie a mettere a posto le cose. Emanuele Macaluso, il direttore del giornale il Riformista, al quale Franceschini ha affidato sabato queste sue convinzioni, è stato il primo a sobbalzare sulla sedia a leggerne le stravaganze. Egli ha infatti ricordato onestamente nel suo editoriale che «l’opposizione ha la responsabilità di non sapere proporre al popolo italiano un governo alternativo in grado di fronteggiare meglio l’emergenza». Evidentemente Macaluso, buon amico peraltro del Capo dello Stato, non considera tale il governo dei tecnici sognato da Franceschini, e magari guidato dall’ex commissario europeo Mario Monti. Che da tempo si lascia tranquillamente candidare a questo ruolo discettando della crisi sul Corriere della Sera, come ha fatto anche ieri. Spero senza condividere la presunzione alquanto cervellotica di Franceschini, e compagni, che possano esonerarsi dalla impopolarità dei provvedimenti di un suo o analoghi governi, e dagli effetti elettorali, i partiti necessariamente chiamati ad approvarli. E naturalmente a dare la fiducia parlamentare, ancora imposta dalla Costituzione. A meno che Franceschini, preso dai suoi romanzi, non se lo sia dimenticato. Francesco Damato, Il Tempo, 08/08/2011

……………….Franceschini è la versione aggiornata e al maschile di Rosy Bindi. Dio ci liberi dei fustigatori a senso unico, con gli occhi coperti dal prosciutto. Sono peggiori dei moralisti della domenica. g.


L’EURO FINISCE IN COMA. LA FINE DEL MONDO

Pubblicato il 5 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Una tempesta perfetta. Così un banchiere ci­nico ma realista ha definito la giornata di ie­ri sui mercati finanziari mondiali. Solo uno sprovveduto può legare la questione ai soli affari di casa nostra (non proprio ben condotti dal punto di vista economico). Anzi, converrebbe chie­dere allo sprovveduto di sottoporsi alla prova del nove.

Una controprova dei propri pregiudizi è a disposizio­ne di chiunque la voglia saggiare. Chi crede che il virus sia italiano si metta a comprare sulle piazze finanziarie a sua scelta di tutto il mondo. E buona fortuna. Parliamo piuttosto di cose serie e cioè di cosa sta ac­cadendo. Peraltro come già abbiamo scritto, solo po­che settimane fa, il grande tema oggi si chiama euro. Un esperimento che alla prova dello stress non sta reg­gendo. Non è possibile immaginare una moneta uni­ca, con politiche fiscali ed economiche divergenti. Non si può immaginare la Germania che cresce al 3 per cento e con tassi a breve dell’1 e a lunga del 2 per cento, competere con l’Italia o la Spagna che crescono meno dell’1%,ma con tassi quattro volte più alti.Con l’aggra­vante di disporre una moneta unica e soprattutto di una politica monetaria che tiene in considerazione so­lo l’economia più virtuosa. Non stiamo bestemmian­do in chiesa, stiamo semplicemente sostenendo che le economie europee sono malate, quasi terminali, tran­ne una.

E, nonostante ciò, al corpaccione europeo inve­ce di prescrivere un antibiotico si somministra una blanda aspirina. Quando gli Stati Uniti si trovarono, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009,nel panico più totale, furono investiti da una cura da cavallo targata Fed (la loro banca centrale). Quando a marzo del 2009 i merca­ti a stelle e strisce ripresero a girare, fu solo per l’inter­vento massiccio della loro banca centrale che senza tante regole iniziò a comprare titoli di debito a piene mani.

Oggi la situazione, se vogliamo, è ancora più complessa. L’Europa soffre per l’immenso debito pubblico che i suoi Stati hanno accumulato. I virtuosi tedeschi hanno un debito pubblico pari, in termini assoluti, a quello italiano, e hanno poco da brindare. A ciò si aggiunge che le loro banche private hanno in portafogli titoli di Stato di Paesi a rischio in notevole quantità. E se questi Paesi dovessero saltare, si trascinerebbero anche i bilanci delle banche di Berlino. Insomma ce n’è per tutti.

Per un’Europa che piange c’è un’America che non ride. La soluzione del suo problema del 2008, dal punto di vista delle politiche fiscali (non quelle monetarie adottate dalla Fed) è stata suicida. O per essere più semplice è stato come nascondere la polvere sotto al tappeto.

Il gigantesco debito che avevano contratto i privati con i loro mutui, con le loro carte di credito, è passato dai privati appunto al settore pubblico. Il problema non è stato cancellato: è solo stato intestato a qualcun altro. E ora si trovano con la loro economia che vale la mostruosa cifra di un quinto di quella globale, impantanata: non cresce, la disoccupazione è alta.

Come se non bastasse nei Paesi emergenti si rischia di soffocare, per il motivo opposto: troppa crescita. I loro tassi di interesse sono stati alzati a livelli per noi occidentali favolosi.

E il loro contributo alla crescita globale non è detto che continui ai livelli del passato.

Chi ha un euro in banca non sa cosa fare. Difficile puntare su un’America così conciata. Troppo a rischio andare sugli emergenti.L’Europa oggi sembra la Lehman. Insomma, le vendite sui nostri mercati, tutti, hanno gioco facile.

Non è la fine del mondo. Ma la fine di un mondo forse sì. Quello del debito e della moneta unica senza guida politica. Ieri sui mercati c’erano solo venditori: il che è apparentemente privo di senso. Ma il gioco era vendere tutto sapendo che dopo poche ore si poteva ricomprare quel tutto con un buono sconto. Dall’inizio della settimana la Borsa italiana ha perso il 13 per cento: roba da brividi. La natura, diceva quel filosofo greco, fa di tutto per nascondersi. E così abbiamo fatto noi con i nostri debitucci. Oggi si sono finalmente mostrati nella loro dimensione e la via per risolverli è scritta, ma politicamente molto difficile.

Per quanto riguarda noi europei, vi è una strada con due tappe. La prima è quella di tamponare l’emergenza, spegnere il fuoco. Insomma i quattro big dell’euro (Spagna, Italia, Francia e Germania, fanno l’80 per cento del Pil europeo) devono mettersi d’accordo per una politica economica unitaria. Devono, è molto difficile, obbligare la Bce a emulare i cugini americani della Fed: interventi forti sui mercati del debito. Insomma, comprare quei titoli pubblici che oggi la speculazione getta nel cestino. È la prima tappa, ma non basta.
Ci dobbiamo poi mettere in testa che sono finite le generazioni sulle quali possiamo caricare debiti. Basta, stop. Non ci sono più pasti gratis. Abbiamo un sistema di welfare che non regge più. Non possiamo, ad esempio, permetterci pensioni e tutele di un piccolo mondo che era fatto solo da Noi….Il Giornale, 5 agosto 2011

CAPITALI VOLANTI COME CAVALLETTE, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 3 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Non mi stanco mai di scrivere che è l’economia che fa l’economia e, aggiungo, è la finanza che fa la finanza. Stati e banche centrali hanno poteri limitati, i mercati finanziari sono liberi e ingovernabili, si muovono come organismi che hanno vita propria e nessun capo di Stato può staccare la spina a un mondo dove «il denaro non dorme mai». La fine dell’ordine di Yalta, il declino dell’era americana, il tramonto dell’euroforia, l’ascesa di Pechino e la globalizzazione in tempo reale sono i veri temi dell’agenda contemporanea. In mezzo a questa tempesta, il governo italiano cerca di difendere il nostro debito sovrano, il risparmio, le banche e la stabilità economica. Uno dei più grandi imprenditori del Paese ieri mi diceva: «Ai nostri tempi sapevamo che cosa era bene e male. Oggi decidiamo di svoltare a destra, non succede niente. Proviamo a svoltare a sinistra, non succede niente. Solo che la macchina non si può spegnere e sta andando contro un muro». Sono i frutti della teologia di Maastricht, è il vero volto del totem dell’euro senza politica. Berlusconi oggi parlerà alle Camere. Se la Borsa andrà su non avrà meriti. Se andrà giù non avrà colpe. Non siamo di fronte a una crisi del credito ma dell’insolvenza, è l’era dei titoli tossici e dei derivati, un castello di carta dieci volte più grande della ricchezza mondiale: 63 trilioni di dollari di Pil contro 615 trilioni di dollari di derivati in giro per il mondo. Flying capitals, capitali volanti. Somigliano maledettamente alle cavallette e nessuno ha il coraggio di usare l’insetticida.Mario Sechi, Il Tempo, 3 agosto 2011