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TASSE SULLA CASA, DAL 2014 SI CAMBIA…IN PEGGIO. DIECI DOMANDE E RISPOSTE PER TENTARE DI CAPIRE PERCHE’

Pubblicato il 23 dicembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

L’Imu sparisce e diventa TasiL’Imu sparisce e diventa TasiL’Imu sulla prima casa sparisce – anche se non del tutto e non per tutti – nel 2013 e ritorna con il nuovo nome di Tasi nel 2014, con il rischio che per molti contribuenti il tributo che prende il posto di quello vecchio risulti più caro. È l’aspetto di maggior rilievo dei cambiamenti fiscali che riguarderanno la casa nell’anno che sta per arrivare, ma non è l’unico perché ai provvedimenti varati negli ultimi mesi dall’esecutivo e alla legge di Stabilità se ne potranno aggiungere a breve almeno due: il primo riguarderà la modifica della Tasi come uscita dalla legge di Stabilità e presumibilmente sarà presentato a gennaio; a immediato ridosso bisognerà sciogliere il nodo del miniconguaglio Imu per le abitazioni principali ubicate in Comuni che hanno deliberato aliquote superiori allo 0,4% e che andrà pagato entro il 24 gennaio. Ma è difficile pensare che ci si fermerà qui: se dobbiamo basarci su quello abbiamo visto quest’anno di aggiustamenti in corsa ne vedremo ancora molti.

1 – È vero che dal 2014 ci sarà un unico tributo legato al possesso e all’occupazione di un immobile?
Da un punto di vista puramente formale questo è vero per chi possiede un’abitazione e vi risiede; vi sarà un nuovo tributo, lo Iuc, che però si articolerà in due distinte voci: la Tasi (Tassa sui servizi indivisibili) e la Tari (Tassa sui rifiuti) e quindi in realtà si tratta di due tasse con presupposti e aliquote ben distinti. Sugli immobili diversi dall’abitazione principale oltre allo Iuc ci sarà ancora l’Imu e per chi possiede un’abitazione non locata nel medesimo Comune in cui ha l’abitazione principale c’è da pagare anche il 50% dell’Irpef sulla rendita catastale dell’immobile: in questo caso i tributi quindi sono addirittura quattro.

2 – La Tasi sull’abitazione principale in buona sostanza appare una versione riveduta e corretta dell’Imu. Quanto costerà ai contribuenti?
La risposta che possiamo dare per oggi difficilmente resterà valida anche nelle prossime settimane. La legge di Stabilità prevede che per il 2014 i Comuni non possano applicare sulle abitazioni principali un’aliquota superiore allo 0,25%, calcolato sul medesimo imponibile dell’Imu. Nulla vieta ai Comuni di applicare anche l’aliquota zero o prevedere detrazioni dall’imposta ma potranno farlo di fatto a loro spese. Se le cose rimanessero così finirebbero per pagare il tributo le abitazioni di basso valore prima esentate, mentre godrebbero di tariffe più basse gli immobili di pregio. Non solo: il meccanismo, lamentano ora i Comuni, è tale da creare mancati incassi per un miliardo e mezzo di euro, non coperti da trasferimenti statali.

3 – La prima rata dello Iuc, comprendente anche la quota Tasi, andrebbe pagata salvo proroghe entro il 16 gennaio, quali cambiamenti saranno probabilmente introdotti?
Le strade per cambiare sono due, entrambe problematiche: la prima consiste nell’aumentare l’importo dei trasferimenti statali con tutte le difficoltà conseguenti per le casse erariali, la seconda invece nel consentire ai Comuni di aumentare l’aliquota massima fino allo 0,35% per il 2014 con la contestuale introduzione di un abbattimento forfettario nell’ordine di 150 euro per immobile, mentre per il 2015 non ci sarebbero ulteriori interventi, perché si potrà comunque salire fino allo 0,6%. La seconda strada garantisce sicuramente gettito ma è impervia dal punto di vista politico, perché a quel punto le differenze con la vecchia Imu sarebbero annullate.

4 – Come funziona la Tasi per gli immobili diversi dall’abitazione principale?
Come dicevamo per tutti questi immobili l’Imu rimane in vigore con le vecchie regole. Per il 2014 è prevista una clausola di salvaguardia: la somma tra aliquota Tasi e aliquota Imu non potrà superare l’aliquota massima dell’Imu, e cioè l’1,06%. E’ una regola che nei grandi Comuni rende di fatto inapplicabile la Tasi perché l’Imu, soprattutto sulle case sfitte, è già al massimo e quindi qui spazi di manovra per trovare nuove risorse per i Comuni non ce ne sono.

5 – Sugli immobili affittati l’Imu è a carico del proprietario. Sarà cosi anche con la Tasi?
L’Imu è un’imposta e colpisce la proprietà, la Tasi una tassa e quindi in teoria dovrebbe essere il corrispettivo di un servizio a carico di chi ne usufruisce. Si è però scelta una strada ibrida, per cui all’inquilino spetta una quota tra il 10% e il 30% del tributo e il Comune potrà determinare all’interno di questo intervallo quanto si dovrà pagare. Così ci potranno essere amministrazioni che chiederanno l’1,06% sulle case affittate, imputando lo 0,96% all’Imu e lo 0,1% alla Tasi, facendo pagare il 10% di quest’ultimo all’inquilino. Altri Comuni invece potranno imputare lo 0,76% all’Imu e lo 0,3% alla Tasi e chiedere all’inquilino un contribuito del 30%. A parità di valore fiscale dell’abitazione l’inquilino del nostro secondo esempio pagherebbe nove volte più del primo.

6 – Quali novità sulla tassazione degli affitti?
Due, più di facciata che di sostanza. Il primo è la riduzione al 15% della cedolare secca sugli immobili locati a canone concordato. Si tratta di affitti stipulati nei capoluoghi di provincia a seguito di accordi tra le organizzazioni dei proprietari, degli inquilini e con i Comuni. Nelle grandi città però, per il livello molto basso dei canoni concordati, in pratica non se ne fanno. Il secondo è l’obbligo della tracciabilità di pagamento dei canoni, un divieto del contante che serve a poco perché chi registra il contratto non può sfuggire alle analisi del Fisco e chi non lo registra continuerà presumibilmente a non farlo.

7 – Come funziona il secondo braccio dello Iuc, la Tari?
Per chi quest’anno ha già pagato la Tares, non dovrebbero esserci sorprese se non quella legate a un eventuale aumento, nell’ordine del 7% dovuto alla necessità di coprire con gli incassi tutti i costi del servizio rifiuti, mentre quest’anno i Comuni potevano stornare una parte dalla fiscalità generale. Chi invece nel 2013 ha pagato sulla base delle tariffe Tarsu corre il rischio di dover sborsare cifre molto diverse. La Tari fa pagare proporzionalmente alla produzione teorica di rifiuti. Penalizzate le famiglie numerose ed gli esercizi pubblici.

8 – È ancora aperta la questione del miniconguaglio Imu di gennaio, chi lo deve pagare?
La questione riguarda i possessori di un’abitazione principale situata in uno dei circa 2.500 Comuni che per il 2013 hanno deliberato aliquote superiori allo 0,4%. A questi proprietari verrà chiesto entro il 24 gennaio di coprire il 40% della differenza tra l’Imu deliberata dal Comune e quella calcolata allo 0,4%. Per evitare questa ultima coda avvelenata dell’Imu sulla prima casa servono allo Stato circa 400 milioni di euro. Spesso le cifre in gioco sono nell’ordine di poche decine di euro e per molti contribuenti non in grado di farsi i calcoli il rischio, se i Comuni non invieranno i bollettini precompilati, è quello di spendere più per la consulenza che per il tributo stesso. Ipotizziamo una casa da 1.000 euro di rendita a Roma (aliquota dello 0,5%) e a Milano (aliquota allo 0,6%). Nella capitale il conguaglio sarà di 67 euro, nel capoluogo lombardo ne serviranno 134.

9 – Da gennaio cambiano anche le imposte sulle compravendite immobiliari. Quali sono le novità?
Nelle compravendite tra privati se è applicabile l’agevolazione prima casa si pagherà l’imposta di registro nella quota del 2% sul valore catastale (rendita moltiplicata per 115,5) con un minimo di mille euro, a questo si aggiungono 100 euro per imposte catastale e ipotecaria. Le regole in vigore fino al 31 dicembre prevedono invece imposta di registro al 3% e imposte catastale e ipotecaria a 336 euro complessivi. Su una casa con rendita mille euro si risparmieranno 1.391 euro (2.400 euro contro le precedenti 3.801). Sulle seconde case si pagherà il 9% di registro sul valore catastale (rendita moltiplicata per 126) più 100 euro per ipotecaria e catastale. La regola in vigore ancora oggi prevede invece un prelievo complessivo del 10% per le tre imposte. Per gli acquisti in cantiere soggetti a Iva aumentano le imposte di registro, catastale e ipotecaria: di conseguenza la loro somma sale a 600 euro contro i 504 attuali.

10 – Che cosa succede per le agevolazioni su ristrutturazioni e riqualificazione energetica?

Fino al 31 dicembre 2014 si potrà usufruire ancora dello sconto del 65% per le opere che comportino un dimostrabile risparmio energetico. Il bonus si deve spalmare in dieci anni sulla dichiarazione dei redditi. Meccanismo analogo per le opere di ristrutturazione edilizia; la detrazione del 50% resterà in vigore per tutto il 2014 e con l’attuale tetto di spesa di 96 mila euro cui se ne possono aggiungere altro 10 mila per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici. 23 dicembre 2013, Il Corriere della Sera

IUC , IMPOSTA UNICA COMUNALE, E’ IL DECIMO NOME DI UNA STESSA TASSA

Pubblicato il 26 novembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

Se il gettito dipendesse da quante volte una tassa cambia nome, quello delle imposte sulla casa garantirebbe un record (sicuro) di entrate.
Invece non è così, nel tortuoso (e non ancora concluso) percorso della legge di Stabilità l’ormai (quasi ex) Imu, l’Imposta municipale unica, che già aveva preso il posto dell’Ici (Imposta comunale sugli immobili) stava per chiamarsi Trise (Tributo sui servizi comunali). A sua volta divisa in Tari (Tassa sui rifiuti) e Tasi (sui servizi indivisibili, che vanno dalla luce, all’arredo urbano agli stipendi della polizia municipale). Poi è comparsa nelle aule parlamentari la Tuc, il tributo unico comunale. Che evoca il nome di un biscotto un po’ salato un po’ dolce. E adesso nell’ultima (davvero?) versione si è trasformata nella Iuc, l’Imposta unica comunale. Fino al ‘92 si chiamavano in un altro modo, Invim e Ilor. Poi venne l’Isi, l’imposta straordinaria sugli immobili. Così straordinaria da trasformarsi in imposta permanente. Se li mettete in fila arriviamo a contare dieci nomi diversi, da fare invidia all’Accademia della Crusca (fiscale). Un rompicapo che aumenta la confusione. Non il gettito. Dal momento che il governo sta ancora cercando le risorse per coprire il taglio dell’Imu sulla prima casa. Durata appena un anno eppure così difficile da ribattezzare. Insomma, se non è zuppa è pan bagnato!

LA COSTOSA INGIUSTIZIA DELLA TASSA SULLE TASSE

Pubblicato il 9 novembre, 2013 in Economia, Il territorio | No Comments »

Negli archivi del Monte dei Paschi di Siena è custodito un documento, a firma di Giuseppe Garibaldi, il quale, stretto dalle tasse, dichiarava di non essere in grado di pagarle: «Mi trovo nell’impossibilità di pagare le imposte». Il volto di un Fisco imparziale (forse troppo) persino nei confronti di uno dei padri dell’Unità d’Italia. Piccolo dettaglio storico per aprire una questione molto attuale. Attualissima.

Ma fino a che punto i contribuenti devono pagare per il servizio di riscossione delle imposte da loro stessi dovute? In termini tecnici si chiama «aggio», una sorta di commissione che l’esattore trattiene ogni volta che riscuote le multe o le imposte dovute, ma non versate dal contribuente. Una specie di tassa sulla tassa, dunque. Che nel caso di Equitalia, fino all’anno scorso, era fissata nel 9% e dal gennaio di quest’anno è stata ridotta all’ 8%. Un mini- sconto, segno di una nuova attenzione verso i contribuenti, che però non basta più. È una soglia che rimane decisamente troppo elevata. Anche perché la commissione si aggiunge alle già pesanti sanzioni e agli interessi dovuti. Il governo se n’è accorto e nel decreto del Fare è stata prevista un rivisitazione di quell’aliquota. A condizione naturalmente che i costi di Equitalia restino sostenibili, dal momento che l’aggio serve proprio a mantenere la struttura che si occupa del prelievo fiscale. Eppure le buone intenzioni si sono fermate subito: non c’è ancora il provvedimento (la scadenza era settembre) che stabilisce la nuova tariffa. Quindi l’aggio è ancora fermo all’ 8%. Per i pagamenti effettuati entro 60 giorni dall’arrivo della cartella esattoriale è suddiviso così: il contribuente versa il 4,65% e l’ente creditore (il Comune o lo Stato, ad esempio) assicura il 4,35%. Un carico che pesa addirittura di più su chi versa che su chi incassa. Oltre i 60 giorni l’obbligo è tutto del contribuente.

Certo, nella revisione bisogna tenere conto dei bilanci di Equitalia, un’impresa che occupa circa 8 mila dipendenti, dei costi necessari per le notifiche, per le cartelle, per le ricerche, ma una soluzione va trovata. In ogni caso non è la società-esattrice (controllata per il 51% dall’Agenzia delle Entrate e per il 49% dall’Inps) a fissare la commissione ma il ministero dell’Economia. E non bisogna dimenticare che nella vecchia gestione, quella affidata alle banche, lo Stato girava agli istituti di credito circa 500 milioni di euro per lo svolgimento di questo compito pubblico. E con il cambio e le nuove norme anti-evasione la macchina ha cominciato ad essere più efficace (sia pure con qualche eccesso). Negli ultimi tempi sono state varate riforme migliorative per i contribuenti: dalla possibilità di saldare i debiti con il Fisco in 120 rate all’impignorabilità della prima casa, alla possibilità di rateizzare fino a 50 mila euro di debito con una semplice richiesta.

Ma sull’aggio siamo ancora troppo indietro. L’ 8% è un livello troppo alto. Anche se gli esattori privati, che ora lavorano per i comuni, arrivano a ottenere premi per la riscossione fino al 30%. Livelli che dovrebbero indurre i Comuni a rivedere il meccanismo. E proprio sul fronte locale il 2013 segnerà una svolta: dal 2014 non sarà più Equitalia a incassare le somme per conto degli enti locali. Che si sono già affrettati ad annunciare un fisco dal volto più umano, una maggiore comprensione verso i contribuenti. Promesse agili per il consenso, ma che dovranno essere confrontate con le esigenze (difficili) dei loro bilanci. Bene: l’a riduzione dell’aggio potrebbe (dovrebbe) essere la prima prova di federalismo delle entrate. Il Comune di Milano si è detto orientato a introdurre una tariffa fissa di dieci euro. Vedremo che cosa faranno anche gli altri. Sarebbe un primo passo positivo nell’anno del federalismo fiscal-comunale che parte all’insegna di Trise, Tari e Tasi. Il Corriere della Sera, 9 novembre 2013

L’INGANNO DELLE STATISTICHE: LE TASSE LE PAGANO SEMPRE GLI STESSI

Pubblicato il 3 novembre, 2013 in Economia, Il territorio, Politica | No Comments »

Secondo la Cgia di Mestre la legge di Stabilità nel 2014 porta al contribuente un aggravio di un miliardo di euro. In sé questo miliardo addizionale è già un segnale che il governo anziché ridurre i pesi fiscali li aumenta. Ma c’è di più. L’aumento è una media di Trilussa, fra contribuenti elettori del Pd o presunti tali, che avranno riduzioni di tributi e contribuenti borghesi, e piccolo borghesi, che subiranno cospicui rincari. A ciò si aggiunga che, avverte la stessa Cgia, il miliardo di maggiori tributi potrà essere superato.

E anche in questo caso a pagare saranno in prevalenza i borghesi e piccolo borghesi.

La legge di Stabilità comporta aumenti di determinati tributi a carico di determinate categorie di soggetti per 6,2 miliardi e riduzioni di altri tributi relativi ad altri soggetti per 5,2 miliardi: la differenza è di uno, ma riguarda soggetti differenti. Vale l’osservazione di Trilussa sull’inganno delle statistiche: se Tizio mangia due polli e Caio non ne mangia, la media dice che ciascuno mangia un pollo. Nel nostro caso, la situazione è analoga per le riduzioni fiscali che vanno a beneficio di Tizio, mentre i pesi sono carico di Caio, con l’aggiunta però di Sempronio, cioè le banche e assicurazioni, che apparentemente sono trattate come Caio, perché nel 2014 hanno un aggravio fiscale, ma negli anni successivi ottengono, tramite il mutamento del regime sulle detrazioni dei crediti in sofferenza (richiesto e ottenuto) un beneficio di minori tributi di entità maggiore (e abbelliscono i bilanci attuali).

Il conto è passivo solo per Caio, il contribuente che non interessa al Pd, che possiede uno o più immobili o locali per i quali dovrà subire i nuovi gravami fiscali. È attivo per Tizio, il contribuente lavoratore dipendente a basso reddito che invece riceve sgravi nell’Irpef. Fra le riduzioni tributarie campeggiano 1,5 miliardi di riduzioni Irpef per lavoratori dipendenti con reddito modesto. Trattandosi di una platea vasta, il beneficio che ne ricaverà ciascuno è modesto: 150 euro all’anno per alcuni, un po’ più o un po’ meno per altri.

A fronte di questo beneficio diffuso, che non risolve nessun problema se non quello del Pd che strizza l’occhio ai suoi elettori, sta un aggravio di 3,7 miliardi circa per la nuova Tasi: che non è una vera tassa ma un’addizionale all’Imu essendo calcolata nell’un per mille del valore catastale degli immobili. Sempre dalle tabelle ministeriali si desume che la cifra che gli enti locali perdono 3,7 miliardi a causa del fatto che nel 2014 non si paga più l’Imu sull’abitazione principale. Sembrerebbe che con la Tasi i comuni recuperino (in media) l’Imu prima casa. Ma in questa apparente «partita a saldo zero» che toglie nel 2014 al contribuente borghese e piccolo borghese ciò che gli è stato promesso per il 2013 e quindi lo aggrava di altri 3,7 miliardi c’è un trucco da gioco delle tre carte, che lo danneggia ulteriormente. Infatti la seconda rata di circa 1,8 miliardi di Imu prima casa relativa al 2013 non è ancora stata tolta. Per effettuare la riduzione il governo dovrà trovare una copertura, e ci sarà qualche altro aumento fiscale, perché i tagli delle spese non sono facilmente fattibili in un mese.

Il conteggio di 3,7 miliardi di maggiori entrate 2014 non ha come contropartita minori entrate per 3,7 miliardi, perché per finanziare la abrogazione della seconda rata di Imu ci potrebbe essere un aumento di tributi indiretti sulla benzina e altri beni e qualche altro gravame fiscale, per un altro miliardo. Sin qui il conto ufficiale del governo. Ma la legge di Stabilità dice che si possono accrescere le aliquote della Tasi al 2,5 per mille. Il che comporta un gettito mostruoso di Tasi di 9,350 miliardi. E poi c’è un aumento, non conteggiato, di tassa per i rifiuti.

Il fatto è che gli aumenti di tributi attuali per 6,2 miliardi e il prevedibile aumento di un altro miliardo fra qui e fine anno, cioè 7,2 miliardi, non servono solo per le riduzioni di imposte per 5,2 miliardi (1,5 di Irpef e 3,7 di Imu) e per 2 miliardi di nuove spese, ci sono molte nuove spese che lo Stato ha messo a bilancio (soprattutto per gli elettori Pd) e altre spese che Regioni ed enti locali possono fare aumentando le aliquote, come consente loro questa legge di Stabilità. Che per ora è una legge irta di tasse redistributive a senso unico. Francesco Forte, economista, 3 novembre 2014

……Forte si sofferma, giustamente, sulla nuova tassa che riguarda gli immobili, cioè la Tasi, una delle due che compongono la Trise, insieme all’altra, cioè la Tari. E in materia di Tasi le argomentazioni del prof. Forte sono le stesse di tanti altri “critici” della furbata del premier secondo il quale il suo governo non mette le mani nelle taqsche degli italiani…le mette, le mette, altro che le mette. E la iniquità, circa la Tasi,  intesa come mancanza di equità, a favore di alcuni a danno di altri,   si estende alla Tari, la tassa sui rifiuti. Vediamo perchè.

Da sempre, prima la tassa sui RSU, ridefinita poi TARSU, ed infine, sia pure per il solo 2013,  TARES, questo tributo è stato calcolato con riferimento alla superficie delle abitazioni, riferimento ingiusto e vessatorio considerata la tipologia della tassa – tassa e non imposta – dovuta per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani prodotti da tutti i cittadini.

Se così è, va da sè che il tributo non può essere dovuto in relazione alla superficie delle abitazioni ma solo ed esclusivamente in relazione al numero degli abitanti – anzi dei componenti del nucleo familiare – i  quali, ciascuno, secondo statistiche più o meno concordi, producono un Kg. a testa giornaliero di rifiuti, al lordo della raccolta differenziata che,  ove si fa,  evidentemente riduce la quantità giornaliera di RSU prodotti procapite e successivamente smaltiti in discarica, o altrove.

Questa valutazione  era alla base del Dlg dell’allora ministro verde dell’Ambiente Ronchi, che varato nel 1996 prevedeva appunto la modifica della base imponibile della tassa RSU dalla superficie delle abitazioni al numero dei componenti del nucleo familiare. L’attuazione del  Dlg di cui si fa   cenno fu rinviata di anno in anno, previo modifiche – una per tutte: 50% riferita alla superficie, 50% riferita al numero dei componenti il nucleo familiare-,  sino a quando, senza che sia mai stato formalmente abrogato o superato da altra normativa, del  Dlg Ronchi  si è persa traccia e sino all’anno di grazia 2013 si è continuato a far pagare la tassa  calcolata sulla superficie degli immobili come se le stanze o i metri quadri, producessero i rifiuti per cui la tassa dovuta.

Per essere più chiari basta un esempio: una casa di 200 metri quadri con  famiglia di due componenti paga il doppio di una casa di 100 metri quadri con quattro componenti, sebbene evidentemente quattro persone producono il doppio  di rifiuti di due e di certo i 100 metri in più  della famiglia con due componenti al più possono produrre polvere che non pesa alcunchè.

Si potrà obiettare che nella TARSU, o Tares, erano considerati, sia pure senza dirlo,  anche quelli che oggi, nella nuova TRISE, vengono definiti “servizi indivisibili”: e sia!

Ma ciò non può più avvenire dal 2014 in poi,  visto che quei servizi  cosiddetti indivisibili  (Polizia Muncipale, manutenzione delle strade e della publica illuminazione, con tutte le riserve che si possono nutrire sul fatto che questi servizi sono pagati dai cittadini con gli altri tributi che essi versano allo Stato sotto le diverse forme) sono stati fatti confluire nella TASI che sostituisce l’IMU.

Dal 2014 nella TARI confluisce solo la tassa  sui rifiuti ,tassa,   non  imposta!, e non v’è  bisogno di sottolineare  la differenza imposta, quale è quella sulla casa,  e la tassa  per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani o di quel che resta dopo la depurazione che avviene con la raccolta differenziata.

Quindi la Tari, come già la Tarsu,  è una tassa su un preciso servizio prestato dalla pubblica amministrazione  ai cittadini e quindi il suo ammontare non può prescindere dall’oggetto del servizio, cioè i rifiuti raccolti che sono,  e non potrebbe essere diversamente,  quelli prodotti da ciascun singolo cittadino, statisticamente valutati o comunque accertati con sistemi che rispettino sia il principio della equità sia quello del “chi inquina paga”.

Collegare invece la TARI, come la TASI, alla casa, alla superficie, alla rendita catastale, significa imporre sulla casa una seconda  patrimoniale assolutamente ingiustificata e proditoria che colpisce due volte lo stesso bene. Come fare per far pagare a ciascuno il suo? In Svizzera, per dire, i Comuni fanno pagare una tassa indiretta ma assolutamente equa: i cittadini comprano dal Comune, attraverso  suoi rivenditori autorizzati, le buste  per la raccolta dei rifiuti per cui ogni cittadino paga esattamente per quel che produce.

Si può immaginare la prima e acida  obiezione: in Italia si produrrebbero imitazioni delle buste a milioni. Ma tanto può costringere un paese  moderno a rinunciare alla equità che in ogni paese civile è la base stessa della civile convivenza?

Ecco perchè anche la Tari come la Tasi,  va ridisegnata e rimodulata, calcolandola sull’effettivo servizio che ogni cittadino riceve  dal Comune  per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti; diversamente si tratterebbe di una vera,  evidente e colpevole estorsione ai danni del cittadino, colpiti da una tassa indebitamente calcolata su parametri del tutto errati. g.

CASO ILVA: TANTI SALUTI ALL’INDUSTRIA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 15 settembre, 2013 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 settembre 2013

……Se avessimo detto o scritto su questo blog ciò che scrive Panebianco a proposito dell’Ilva e dei magistrati onniscenti che ormai hanno immobilizzato il Paese e lo stanno trascinando verso l’abisso, ci sarebbe stato di certo il cretino di turno (ne abbiamo in mente uno che in  materia di cretinismo è il numero superuno)  che ci avrebbe accusato di volere la morte della gente di Taranto e ci avrebbe  arruolato nell’esercito dei delinquenti. Non ci avrebbe scalfito più di tanto perchè piuttosto che essere imbecilli talvolta può essere più conveniente (per gli altri) non esserlo. Il caso dell’Ilva è stato ridondante di imbecillità dall’inizio e ricorda da vicino un altro caso clamoroso: Punta Perotti. L’ecomostro – come fu definito dalla pubblicistica del tempo – nacque e crebbe e si innalzò sulle sponde del lungomare barese sotto gli occhi della magistratura che a quel tempo occupava un palazzo poco distante per cui non poteve non accorgersene. Ma stette zitta, non fiatà, sino a quando i palazzi avevano già assorbito ingenti risorse e i suoi appartamenti posti sul mercato immobiliare per la vendita. Solo allora i magistrati partirono all’attacco condotto sino in fondo, sino all’abbattimento che ha prodotto danni ingentissimi, finanziari, e d’immagine,  i cui risarcimenti sono oggetto di sentenze di altre magistrature, comprese quelle europee. Così l’Ilva. Sta lì, da decenni, si chiamava centro siderurgico e all’epoca della sua nascita fu considerato una sorta di risarcimento al sud bistrattato. Per decenni ha caratterizzato, nel bene e nel male, la crescita non solo di Taranto ma dell’intero suo hinterland che si estenede anche oltre i confini di quella provincia. Per decenni il siderurgico, passato attraverso mille traversie anche finanziarie, ha dato lavoro e sicurezza economica a migliaia di lavoratori e di famiglie, per decenni gli ecologisti, sopratutto quelli che di giorno concionano contro la modernità ma la sera non se ne fanno mancare neppure una, hanno innalzato cartelli e promosso cortei di protesta, e per decenni i magistrati tarantini hanno girato la testa dall’altra parte. Non dovevano mantenerla girata la testa dall’altra parte,  ma come dicevano i i romani, maestri di diritto,  “modus in rebus”. Invece no. Avendo deciso di rigirarla dopo decenni di sonnolenza hanno scatenato tutta la loro potenza di fuoco per ottenere quello che sta accadendo e che non riguarda solo l’Ilva, Taranto, la sua provincia.  Riguarda tutta l’Italia e la sua già disastrata economia oggetto di bramose attese da parte della concorrenza, in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’acciaio. La sistematica “attenzione” della magistratura  verso il grupppo Riva  che tra tante colpe pur qualche merito deve avercelo, ha prodotto il blocco del sistema siderurgico in  ogni parte del Paese, proprio quando il Paese ha bisogno di trovare ragioni e occasioni di ripresa per uscire dal tunnel nel quale siamo stati ficcati dalla balardaggine americana e dalla miopia della burocrazia europea, anzi, sopratutto tedesca che non potrà che gioire dell’ennesima imboscata all’industria italiana. E la politica che fa? Non è risuscita a bloccare, pur essendo la politica sovrana in un sistema di democrazia, l’azione distruttiva di un  magistratura straboccante e si balocca su questioni che sono come il pelo nell’uovo. Chi ha fame il pane lo inzuppa anche lì dove c’è il pelo, badando alla sostanza e tralasciando la forma. Altrimenti di forma finiremo col morire.g.

ECONOMIA: PRIGIONIERI DI UNA ILLUSIONE

Pubblicato il 7 settembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

Il presidente del Consiglio ha usato l’analogia del cacciavite: «Dobbiamo rendere più efficienti le istituzioni. Ci proponiamo di farlo con interventi normativi, non riforme epocali. Useremo il cacciavite, facendo prevalere l’esigenza dell’efficacia sulla bandiera della politica». Vanno in questo senso provvedimenti come una nuova legge Sabatini per finanziare gli investimenti, l’ampliamento dei criteri per l’accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, aiuti agli investimenti per ricerca e innovazione, norme sblocca-cantieri.

In un’Italia dove ci si è troppo attardati ad aspettare il Godot delle Grandi Riforme, un governo che vuole usare un cacciavite è benvenuto. Purché questo non riveli l’impotenza della politica. La piccola manutenzione è decisiva quando la macchina dello Stato funziona e ha solo bisogno di essere messa a punto. Non è il nostro caso. Soffriamo di una combinazione di deficit ben più gravi di quello dei conti pubblici: un apparato burocratico che ostacola, anziché agevolare, le riforme, e una mancanza di prospettiva.

Il governo rischia di rimanere stritolato. La politica è impegnata in un regolamento di conti fra centrosinistra e centrodestra: elaborare un progetto per il Paese che verrà pare l’ultima delle preoccupazioni. L’apparato statale, con la scusa di supplire alle carenze della politica, ha l’unico obiettivo, sin qui pienamente raggiunto, di perpetuare se stesso. Non basta il cacciavite. L’esempio più evidente sono le storture del mercato del lavoro, ancora l’altro ieri sottolineate da Dario Di Vico, che impediscono di creare occupazione persino là dove sarebbe possibile.

Taluni guardano all’Europa come al salvagente al quale aggrapparsi; altri come a un macigno che ci affonda. Entrambi sbagliano: siamo noi la fonte dei nostri problemi e noi soli possiamo risolverli. L’Europa è utile quando sappiamo sfruttarne gli esempi e gli stimoli, dannosa se ci limitiamo a subirla. Sinora il governo ha dato l’impressione di accettare passivamente i vincoli che Bruxelles impone ai conti pubblici, senza chiedersi se davvero essi ci aiutino davvero a uscire dalla crisi. Anziché vincolarci a un deficit inferiore al 3 per cento del Prodotto interno lordo già da quest’anno (senza alcun impegno sulle riforme), avremmo dovuto concordare con l’Europa un programma pluriennale che avesse come obiettivo la crescita. Cominciando dalla riforma del mercato del lavoro, rimettendo mano alla legge Fornero, alla scuola, alla concorrenza, a una burocrazia soffocante.

E soprattutto avviando una riduzione graduale ma certa della spesa, che liberi, entro un triennio, 50 miliardi da destinare al taglio delle tasse sul lavoro: quanto serve per condurre il nostro cuneo fiscale (la differenza fra la busta paga del lavoratore e il costo per l’impresa) al livello tedesco. In questo triennio violeremmo il vincolo del 3%, come la Francia: ritorneremmo a essere sorvegliati da Bruxelles, ma questo può solo aiutare l’attuazione delle riforme e garantire i tagli di spesa. Altrimenti, prima della fine dell’anno sfonderemo il limite del 3%, e a quel punto l’unica strada sarà la solita: aumentare l’Iva accompagnandola con qualche altro balzello fiscale, come già prevede la clausola di salvaguardia che innalzerà l’anticipo delle imposte dovute il prossimo anno.

Ps: un mese fa il Senato ha votato un ordine del giorno che impegna il governo a modificare entro giovedì prossimo, ultimo giorno utile, la norma della legge Severino che prevede la chiusura di 31 tribunali e 31 Procure. Se il governo lo farà ogni impegno a tagliare la spesa apparirà per ciò che probabilmente è: parole al vento. ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI Il Corriere della Sera, 7 settembre 2013……

…..Ci possono giurare Alesina e Giavazzi che il taglio dei Tribunali per tagliare le spese farà  8ha già fatto!)la stessa fine del taglio dei costi della politica che con una firma di Napoliabno soino aumebntati di un milione all’anno, tanto quanto serve per i quattro neo senatori a vita. g.

I NOMI CAMBIANO, LE TASSE RESTANO: TUTTI I BALZELLI E I RINCARI DA 15 ANNI IN QUA

Pubblicato il 1 settembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

L’hanno chiamato pomposamente federalismo fiscale, abbiamo scoperto che si traduceva prosaicamente in: più tasse per tutti. È il frutto avvelenato del fisco creativo della seconda Repubblica che – certo – insieme alla ubriacatura a corrente alternata per le devoluzioni ha dovuto fare i conti con il debito monstre prodotto dalla prima Repubblica dei partiti.

ENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBEROENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBERO

Siamo arrivati così a una pressione fiscale che sfiora il 45 per cento. Tasse, tasse e sempre tasse. Con una babele di acronimi orribili (Ici, Irap, Irpef, Tarsu, Tia, Imu, Ires), altri improponibili e dal futuro già segnato (Tares che è anche una pistola, usata dai poliziotti americani, per sparare scariche elettriche) fino ad approdare ai confortevoli ma assai nebulosi anglicismi: Service tax. E cioè?

Dal 1996 al 2011, in quindici anni, le entrate tributarie dei governi locali (Regioni, Province e Comuni), bilanci dello Stato alla mano analizzati dal centro studi della Cgia di Mestre, sono letteralmente esplose: + 114,4 per cento, pari in termini assoluti a una crescita di circa 102 miliardi di euro. Sono usciti dalle tasche degli italiani per andare (più o meno) nelle casse dei governi locali ai quali lo Stato centrale ha via via attribuito più competenze ma anche tagliato più trasferimenti. I Comuni, mediamente, sono con l’acqua alla gola.

Quelli praticamente falliti come Taranto, Catania e la stessa Roma sono stati salvati. Dallo Stato centrale, però. Con le tasse di tutti, senza che nessuno abbia mai pagato pegno.
Si è cominciato con l’Ici, agli albori della seconda Repubblica, era il 1992. L’imposta comunale sugli immobili.

case e catastocase e catasto

Che però è stata prima abolita (Silvio Berlusconi ci vinse la sua penultima campagna elettorale) proprio quando arrivava (si fa per dire) il federalismo fiscale, per essere sostituita dall’Imu che però non piace più e diventerà Service tax, di cui faranno parte la Tari, che prenderà il posto della Tarsu o della Tia (le imposte sui rifiuti), e la Tasi, ossia la «misteriosa» (copyright di Massimo Bordignon sul sito lavoce. info)
imposta sui servizi indivisibili.

I criteri per il prelievo della Service tax saranno fissati dai singoli Comuni con alcuni paletti stabiliti dal governo centrale. Alla fine una girandola di sigle che – chissà perché – fa venire in mente la celebre frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Appunto.

Una tassa nuova con le vecchie dentro sembra un buon metodo. Già sperimentato. Con l’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive), ad esempio, la tassa più odiata dagli imprenditori italiani. Che nel 1998, assorbì i contributi sanitari, la tassa sulla salute, l’Ilor e l’Iciap. Sull’Irap e sull’Irpef poi – lo sappiamo a spese nostre – le Regioni possono intervenire con la loro “addizionale” che vuol dire far pagare di più soprattutto per colpa dei buchi nella sanità.

IMUIMU

Meccanismo che non va confuso con quello della “compartecipazione” (i vari livelli di governo si distribuiscono l’entrata) che vale anche, per esempio, per le accise sulla benzina. Sempre tasse sono. Con più esattori, però. E sempre gli stessi contribuenti.

Tasse e tariffe. Perché altrimenti come si fa a finanziare i servizi locali, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, dalla fornitura della luce a quella dell’acqua? A questo servono le tariffe. E per colpa della crisi, delle politiche di austerity imposte dalla Commissione di Bruxelles e dalla Bce di Mario Draghi, e il conseguente drastico taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia, le tariffe locali si sono impennate.

TASSA SULLA CASA jpegTASSA SULLA CASA jpeg

In un anno – dati dell’Uniocamere – sono aumentate del 4,9 per cento, ben oltre il tasso di inflazione che, nell’arco dell’ultimo anno, si è attestato intorno al 3 per cento. Ed è nei trasporti che l’incremento del costo del servizio è stato tra i più marcati: in media +5,3 per cento con un picco del 9,3 per cento nei collegamenti extra urbani. Solo di poco inferiore l’aumento delle tariffe per la fornitura dell’acqua: + 6,7 per cento. E + 4,7 per cento quello per i rifiuti.

Che cosa resta del liberale principio “no taxation without representation”? L’illusione che quando si va alle urne (nazionali e locali) qualcuno prima o poi mantenga la promessa di abbassarle le tasse senza sostenere di non poterlo fare per colpa del buco lasciato in eredità dal suo predecessore. E senza cambiare solo il nome alle vecchie tasse. Fonte: DAGOSPIA, 1° settembre 2013

CACCIA GROSSA ANI NOSTRI SOLDI…CON LA SCUSA DELLA RIDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA (CHE NON C’E'!)

Pubblicato il 13 agosto, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

Dietro ad ogni comportamento di un politico italiano, sia locale sia nazionale, si nascondono due modalità contrapposte: quella che potremmo definire la modalità del pubblico in antitesi alla modalità del privato. Purtroppo i due modi di essere, in questo nostro bipolarismo forzato, sono trasversali ai due grandi partiti.

Non è detto che un rappresentante del centrodestra non legiferi, ordini, ed esterni con la modalità del pubblico. Più raramente, ma avviene, alcuni rappresentanti di sinistra fanno invece propria la modalità del privato. In estrema sintesi la modalità del privato ritiene che, con tutti i loro difetti, le scelte dei singoli, compresi gli errori, siano da agevolare in un’ordinata e libera organizzazione dello Stato. Per uno sponsor della modalità del pubblico la norma e i suoi sacerdoti (funzionari e politici) sono invece comunque da preferire. Non pensiate che si stia parlando di filosofia. Ogni comportamento politico, anche il più insignificante, si può leggere in questa semplice contrapposizione.
Il caso di scuola è ovviamente quello fiscale. Anche se la bulimia normativa e burocratica è altrettanto pericolosa: regolare nel dettaglio il nostro vivere comune è l’altra faccia dell’oppressione fiscale. Ieri il ministro Delrio ha spiegato in quale direzione si dovrebbe rimodulare l’Imu: «Il nostro principio irrinunciabile è la redistribuzione della ricchezza, la giustizia sociale». L’obiezione più ovvia è che prima di distribuirla, è necessario crearla, la ricchezza. E il macigno delle imposte di fatto la distrugge. Si tratta di una confutazione tecnica, contabile. Ma non l’unica.
Il vero problema nell’affermazione di Delrio, peraltro considerato un ottimo amministratore locale, è piuttosto politico. La sua è la tipica posizione della modalità del pubblico. Il concetto stesso di re-distribuire implica che la distribuzione fatta dal mercato sia sbagliata, ingiusta, illecita o peggio, illegale. E che è necessario che qualcuno si occupi della buona e corretta re-distribuzione, appunto, di quanto erroneamente accumulato. E a farlo deve essere la politica e qualche illuminato funzionario pubblico. Ma dove sta scritto che ciò che ha stabilito il mercato sia emendabile da ciò che scrive un Parlamento? Le Camere nacquero storicamente proprio per il motivo opposto e cioè non permettere al sovrano di re-distribuire, in quel caso a proprio favore, ciò che la borghesia stava iniziando ad accumulare.
Bisognerebbe fare un passo indietro. E pensare all’imposizione fiscale come al modo che una società moderna ha di fornire servizi, ritenuti oggi essenziali, a coloro che non siano in grado di permetterseli. Si può anche immaginare una fetta di questa imposizione dedicata a quelle opere pubbliche e infrastrutture, che i singoli non avrebbero alcun interesse a finanziare. Punto.
La re-distribuzione del reddito non è un nobile ideale, ma un fantoccio ideologico. Almeno per coloro che hanno ben stampata in testa la modalità del privato. Ma soprattutto, negli anni, essa ha dimostrato di essere anche molto inefficiente. Dietro alla bandiera della re-distribuzione si consumano e si perpetuano le peggiori ingiustizie, che proprio essa vorrebbe cancellare. Quello che emerge chiaramente dal bilancio dello Stato è che l’enorme mole di quattrini sottratti dalle tasche dei contribuenti, riesce perfettamente nel suo intento di ridurre il reddito disponibile dei privati, ma nel contempo non riesce neanche lontanamente a soddisfare i bisogni essenziali dei più deboli. Abbiamo la tassazione più alta d’Europa e la spesa sociale pro capite più bassa, abbiamo le aliquote più penalizzanti dell’Occidente e gli investimenti pubblici più bassi nel vecchio Continente.
L’unico obbiettivo che la re-distribuzione raggiunge è quello di trasferire le risorse dai privati per elargirle diffusamente ai poteri pubblici. Non raccontiamoci palle.
Occorre combattere contro l’Imu, il rialzo dell’Iva, non solo per i 10 miliardi di euro che complessivamente valgono, ma per dare un primo forte segnale di discontinuità. La re-distribuzione dai ricchi ai poveri è l’ultimo, e neanche più originale, paravento dietro il quale la bestia statuale nasconde i suoi artigli per impossessarsi del nostro reddito e del nostro patrimonio.
Diffidate dagli sconosciuti che vengono a casa vostra per farvi del bene. Soprattutto se sul loro biglietto da visita c’è scritto: On…
Nicola Porro, Il Giornale, 13 agosto 2013

…..Porro, ex vice direttore de Il Giornale  e oggi conduttore di una trasmissione televisiva, Versus,  rende di più e meglio quando scrive che quando parla, sia pure in veste di conduttore!

PENSIONI D’ORO, C’E’ CHI PRENDE 90 MILA EURO AL MESE, 3.008 EURO AL GIORNO!

Pubblicato il 8 agosto, 2013 in Costume, Economia, Politica | No Comments »

Sono centomila i «super-pensionati» che costano al sistema ben 13 miliardi di euro all’anno. Mercoledì il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Aringa, rispondendo in commissione Lavoro della Camera a un’interrogazione di Deborah Bergamini (Pdl), ha rispolverato l’albo delle «pensioni d’oro», riaprendo il file delle polemiche.

Pensioni d’ora: quelli da 90mila euro al mese Pensioni d'ora: quelli da 90mila euro al mese Pensioni d'ora: quelli da 90mila euro al mese Pensioni d'ora: quelli da 90mila euro al mese Pensioni d'ora: quelli da 90mila euro al mese Pensioni d'ora: quelli da 90mila euro al mese

La pensione più alta erogata dall’Inps ammonta a 91 mila 337,18 euro lordi mensili. Corrisponde al profilo di Mauro Sentinelli, ex manager e ingegnere elettronico della Telecom, che percepisce qualcosa come 3.008 euro al giorno, cui si sommano ai gettoni di presenza che prende come membro del consiglio di amministrazione di Telecom e presidente del consiglio d’amministrazione di Enertel Servizi Srl. Non poche medaglie al suo petto: è stato l’ideatore del «servizio prepagato Tim Card», una miniera di profitti per la sua azienda. Scorrendo la «top ten» previdenziale fornita dal sottosegretario, c’è un salto fra il primo e il secondo posto, che si «ferma» a 66.436,88 euro. Il titolare in questo caso non è noto, mentre al terzo posto con circa 51.781 euro, dovrebbe esserci Mauro Gambaro, ex direttore generale di Interbanca e di Inter Football Club, oggi advisor specializzato nel corporate finance e presidente del cda di Mittel management srl.

A seguire, Alberto De Petris, ex di Infostrada e Telecom, che porta a casa circa 51 mila euro, mentre a un’incollatura c’è probabilmente Germano Fanelli, fondatore della Octotelematics, che nel 2010 accumulava dieci incarichi differenti. Dal quinto a decimo posto della classica si resta nella fascia dei 40 mila euro, esattamente da 47.934,61 a 41.707,54 euro.In questo ambito dovrebbero ritrovarsi manager come Vito Gamberale, amministratore delegato di F2i, oppure Alberto Giordano, ex Cassa di Roma e Federico Imbert, ex JP Morgan. «Questi numeri – ha commentato Bergamini – dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti».

E in effetti sono ancora troppe le pensioni da migliaia e migliaia di euro al mese pagate in Italia che non hanno alcun nesso economico con i versamenti effettuati. La deputata Giorgia Meloni (FdI) propone da tempo di fissare un tetto all’importo delle «pensioni d’oro», oltre il quale andare solo se nel tempo si sono pagati contributi che giustifichino tale importo. In questo modo si potrebbero risparmiare molti miliardi di euro. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha già risposto alla sollecitazione appena assunto l’incarico, osservando che il tema è giusto ma che i governi che in passato hanno provato a intervenire, anche fissando un semplice contributo di solidarietà, si sono scontrati con la Corte Costituzionale e col principio dei diritti acquisiti. Si può cambiare la Costituzione? Fonte: Il Corriere della Sera, 8 agosto 2013

.….Certo che si può….si deve cambiare tutto quel che occorre perchè si ponga fine a questa squalida vicenda per cui c’è chi percepisce 3mila euro al giornmo e chi deve vivere con 500 euro al mese. 13 miliardi di euro all’anno, il costo delle pensioni d’oro che la Corte Costituzionale preserva anche dal minimo contributo di solidarietà per tutelare se stessa visto che tra i pensionati d’oro ci sono i giudici, è pari ad alcuni punti di PIL e all’importo di tre anni di IMU sulla prima casa. Basta questo perchè il ministro Giovannini porti in Parlamento tutte le modifiche costituzionali necessarie perchè vengano rimodulate queste pensioni    il cui importo, tra l’altro,   non è legato esplicitamente ai contributi versati e poi vediamo chi in Parlamento si gira dall’altra parte. g.

NEL 2012 ALLA FACCIA DELLA CRISI SPESO UN MILIARDO PER LE AUTO BLU

Pubblicato il 4 agosto, 2013 in Cronaca, Economia, Politica | No Comments »

Auto blu

Per le auto blu è stato speso oltre un miliardo di euro nel 2012, con un calo di 128 milioni rispetto al 2011 (-12%) e – 26% rispetto al 2009. Sono i primi risultati del monitoraggio dei costi delle auto della PA realizzato da Formez PA per il Dipartimento della Funzione Pubblica, avviato nel mese di maggio 2013. La spesa totale sostenuta nel 2012 per la gestione del parco auto è stimata pari a 1.050 milioni di euro, 128 milioni in meno rispetto al 2011 (-12%). Le variazioni sono sostanzialmente analoghe nella PA centrale (circa 25 milioni di euro pari al -12,4%) e nell’Amministrazione locale (103 milioni di euro pari al -11,9%, equivalente). La gestione include le spese per acquisizioni in proprietà e noleggio, le spese ripartibili e non ripartibili e le spese per il personale dedicato, tra cui gli autisti. Rispetto alla spesa sostenuta dalle amministrazioni nel 2009, anno di riferimento per le nuove e più stringenti norme e direttive per il contenimento dei costi, la riduzione della spesa per le auto della P.A. nel 2012 è stata di 335,5 milioni di euro (-26,3%), 282,8 milioni di euro per le Amministrazioni locali (-27,0%) e 53,7 milioni di euro per l’Amministrazione centrale. Considerando la spesa per tipologia di auto, si può constatare che per le auto blu (ossia le vetture assegnate ad una persona sia in uso esclusivo che non esclusivo, le auto a disposizione degli uffici con autista e le vetture con e senza autista se di cilindrata superiore a 1.600 cc), il totale della spesa per il 2012 ammonta a circa 400 milioni di euro, con una riduzione di 72 milioni di euro rispetto all’anno precedente. La spesa per le auto cosiddette ‘ grigiè (vetture a disposizione degli uffici e servizi senza autista e auto con e senza autista inferiore ai 1.600 cc) è stata pari a 539 milioni di euro, con una riduzione di circa 55 milioni di euro rispetto al 2011. Fonte: agenzie di stampa

………………Naturalmente nessuno del “palazzo” si preoccupa più di tanto, nemmeno che quel che si spende per le auto della casta è pari ad un quarto dell’IMU sulla prima casa.