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LA SORPRESA DEI CONTI PUBBLICI: ORA TUTTI PROMUOVONO L’ITALIA

Pubblicato il 8 aprile, 2011 in Economia | No Comments »

Smentiti i catastrofisti e le Cassandre. Lo Stivale è un passo dal baratro economico? Tutte balle. L’Italia nei prossimi tre-quattro anni “può tornare a generare un surplus primario, il passo è vicino e non ci sono cambiamenti brutali da fare” e “il Governo dovrebbe essere in grado almeno di stabilizzare se non ridurre il debito pubblico, anche in uno scenario prudente che ipotizza saldi primari non molto alti (tra l’1 e il 2%) e una crescita economica moderata (al massimo al 3%). È la visione degli analisti di Moody’s sul nostro paese e la spiegazione dell’outlook stabile assegnata al rischio sovrano (rating Aa2) che non vede per l’Italia il rischio di contagio. Dopo i declassamenti di Portogallo (il 5 aprile è stato portato da A3 a Baa1 ed è ancora sotto osservazione con implicazioni negative) e Grecia (il 7 marzo lo ha tagliato da Ba1 a B1 con outlook negativo) ci si chiede se ci sia un rischio di contagio e se l’Italia potrebbe essere coinvolta. “C’è un rischio contagio – spiega Alexander Kockerbeck, l’analista responsabile del rating sull’Italia – quando c’è una storia concreta di rischi che in Italia non c’è”.

Positivo anche il giudizio di Standard and Poor’s. In un’intervista alla Stampa Moritz Kraemer, responsabile rating sovrani Europa, toglie ogni dubbio. “L’alto livello di risparmio privato e la minore necesità di finanziamento esterno rendono l’Italia meno vulnerabile all’umore dei mercati. E’ vero che l’Italia ha grande necessità di rifinanziamento del debito, che è molto elevato, ma la buona notizia è che l’Italia è diversa da Portogallo e Grecia perché le sue finanze sono state controllate meglio”.

Istat: “Aumentano i redditi della famiglie” Nel 2010 il reddito delle famiglie ha registrato un aumento dello 0,9% rispetto al 2009. Un reddito che ha dovuto però far fronte ad una crescita della spesa per consumi “più consistente” rispetto all’anno precedente (+2,5%). Lo rileva l’Istat che spiega così la riduzione della propensione al risparmio degli italiani: si è attestata al 12,1%, registrando una diminuzione di 1,3 punti percentuali rispetto al 2009. Nell’ultimo trimestre dell’anno, invece, la crescita del reddito disponibile rispetto al trimestre precedente (+1,4%) è stata superiore a quella registrata dalla spesa per consumi (+0,8%), il che ha determinato l’aumento congiunturale del tasso di risparmio.

LA CATASTROFE ATOMICA IN GIAPPONE FAVORISCE IL RITORNO AL CARBONE. CHI CI GUADAGNA?

Pubblicato il 16 marzo, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il no all’atomo rilancia le energie inquinanti. Il sisma giapponese arricchirà petrolieri, produttori di metano e la Cina che detiene tecnologia fotovoltaica. Affari anche per chi ricostruirà.

Lastre di metallo per proteggersi dalla pioggia radioattiva Quanto rischia il mondo con la catastrofe giapponese? È la domanda del momento. Che però andrebbe posta anche al contrario: chi guadagna dal fallout, radioattivo e non, della crisi di Tokyo? Rispondendo otterremo una lista probabilmente più lunga dell’elenco delle perdite. Le grandi tragedie in tempo di pace non sono dissimili dalle guerre: uccidono vite ma rilanciano prepotentemente molti portafogli.

Una notizia dei primi giorni è passata quasi inosservata. Il Pil del Giappone, in declino da anni e nel 2010 sorpassato dalla Cina al secondo posto nel mondo, potrebbe ripiegare ancora nell’immediato ma su una prospettiva non troppo lunga beneficiare di un aumento superiore al 2 per cento. Cioè più elevato rispetto ad ogni altra grande economia occidentale, Usa e Germania a parte. Qualcuno ha ricordato il terremoto di Kobe nel 1995, che causò danni per 10 mila miliardi di yen, il 2,5 per cento del prodotto lordo giapponese di allora: eppure a fine anno il Giappone contò tre trimestri consecutivi di crescita. Quel qualcuno di buona memoria non è gente qualsiasi: si tratta della Nomura, la prima banca d’affari del Sol Levante e tra le più potenti del mondo. Nomura ha già sfornato un report che prevede due trimestri di recessione tra l’1,1 e l’1,5 per cento, e poi un periodo di ripresa. A fine anno, appunto, il Pil giapponese potrebbe segnare un rialzo del 2,1 per cento.

Chi ne beneficerebbe? «Innanzi tutto la domanda legata alla ricostruzione: acciaio, cemento, infrastrutture» scrivono gli analisti di Nomura. Che evocano il Namazu, il pesce gatto della mitologia nipponica. Vive sottoterra e quando sfugge alla guardia del dio Kashima si dibatte provocando terremoti e devastazioni, ma anche resurrezioni. Il Namazu è stato spesso associato allo spirito di rinascita del Giappone dopo le grandi sconfitte militari, soprattutto la seconda guerra mondiale. Ora però spopola tra Wall Street e le business room di Riyad, Mumbai, Mosca e ovviamente Shangai.

Anche JP Morgan traccia uno scenario a breve, che vede ribassi per le materie prime in relazione al rallentamento dell’economia, e poi un loro rilancio legato soprattutto all’energia, alle costruzioni e alla finanza. Tutti settori che dovrebbero beneficiare del temporaneo ko nipponico. Il motivo è evidente: l’ondata di ripensamenti sul nucleare pomperà da una parte le energie cosiddette verdi (fotovoltaico, eolico, biomasse), dall’altra le vecchie fonti quali petrolio, gas e carbone. Il che significa dire Cina, Arabia, Medio Oriente, Russia e ancora Cina. Se rallenta il nucleare le tre fonti energetiche più immediatamente disponibili sono il petrolio, il gas ed il carbone. Soprattutto quest’ultimo, sempre trascurato dagli analisti: ma quanti sanno che già secondo il World Energy Outlook 2010 da qui al 2035 il vecchio carbone è destinato a consolidarsi come la prima fonte energetica del mondo, passando dal 39 al 45 per cento della produzione globale? E indovinate chi sta facendo incetta di miniere e diritti, dall’Africa all’Asia? La Cina. Quanto al gas, la Gazprom stava rinegoziando le forniture con tutti i paesi europei in piena crisi libica: contratti lunghi e un po’ onerosi in cambio di forniture stabili e strategiche rispetto al greggio. Ora gli inviati del colosso russo, e di Vladimir Putin, moltiplicano i contatti. Su questo punto è giusto dare anche a Silvio ciò che è di Silvio: a lungo accusato di aver legato se stesso e l’Eni alla dipendenza energetica dal gas russo (files di Wikileaks in testa), il premier italiano vede in fondo premiate le proprie scelte: con petrolio e nucleare ballerini, il gas risulta indispensabile all’Italia. E certo Putin è tra coloro che si fregano le mani; ma non è il solo.

L’Edison, per esempio. Azienda simbolo del capitalismo privato italiano, con domicilio in Foro Buonaparte a Milano, è oggetto del pressing insistente della francese EdF, colosso energetico pubblico che sta a Nicolas Sarkozy quasi quanto la Gazprom sta a Putin. Una guerra tra azionisti vede contrapposti EdF e A2A, guerra che si era conclusa con una spartizione a vantaggio dei francesi, finché Giulio Tremonti non ha bloccato tutto. Ma è interessante l’obiettivo dichiarato della EdF: fare di Edison «l’hub strategico per il gas nel Sud Europa». Dopo il carbone il gas, dunque. E dopo ancora, ovviamente le energie verdi. Forse qualcuno ha notato che nel bagno generale di piazza Affari collegato alla crisi libica e al Giappone, tra i pochi titoli che hanno salvato le penne ci sono Enel Green Power e la Cir. Che cosa c’entra la finanziaria di Carlo De Benedetti? Semplice: controlla la Sorgenia, azienda deputata al business delle rinnovabili.

Stessa cosa in Germania per Q-Cells, Nordex e SolarWind (otto punti guadagnati in un solo giorno a Francoforte), in Danimarca per la Vestas Wind Systems (più 5 per cento alla borsa di Copenhagen), a Madrid per Gamesa. E se questo accade per aziende tutto sommato di dimensioni piccole e medie, proviamo ad immaginare le ricadute future per colossi come la tedesca E.On o l’americana Bechtel. Le rinnovabili però costano, più di quello che danno, e la situazione non cambierà per molti anni. Devono i

nsomma essere sovvenzionate, ed il record lo abbiamo proprio in Italia: quest’anno gli incentivi graveranno per 5,7 miliardi sulle bollette di tutti i cittadini, che di elettricità verde non consumano neppure un watt. Una situazione insostenibile per molti governi, Roma e Berlino in testa. Ma ora la lobby delle rinnovabili, attivissima a Bruxelles, sta proponendo facilitazioni comunitarie per i pannelli solari e le pale eoliche: e vedrete che la spunterà. E poco importa che già il 50 per cento della produzione di tecnologia fotovoltaica sia, di nuovo, in mano alla Cina.

Alla fine, però, è ancora a Wall Street che è bene guardare attentamente. Benché acciaccati, gli squali – tra cui il nostro Gordon Gekko – hanno un’altra grande chance, ed è impensabile che non la sfruttino. Per esempio: il Giappone ha il più alto debito pubblico mondiale, ma è anche con 882 miliardi di titoli di stato americani il maggior creditore degli Usa dopo la Cina. Se riduce un po’ per finanziare la ricostruzione, i prezzi dei T-bond scendono e di conseguenza il loro rendimento sale. A loro volta i titoli in yen saranno costretti ad offrire cedole superiori. Tutto questo potrebbe riaprire la guerra mondiale delle obbligazioni. Ma c’è qualcosa di ancora più importante nell’agenda giapponese del dopo disastro: si tratta dell’adesione alla Trans Pacific Partneship, una zona di libero scambio con Australia, Nuova Zelanda, Usa, Cile, Perù, Malaysia, Vietnam, Brunei, Singapore. La trattativa è stato finora osteggiato da due potenti lobby nipponiche, quella agricola e quella automobilistica.

Ora Tokyo potrebbe avere l’interesse o la necessità di uscire dal proprio non più splendido isolamento commerciale. L’asse che si creerebbe modificherebbe la geografia commerciale planetaria andando ad urtare le alleanze di Cina e India. Che a questo punto intensificherebbero le attenzioni verso le altre economie emergenti del Sud America, verso il Medio Oriente ed anche verso la vecchia Europa. «Ferro azzurro ama Anacot acciaio» diceva Michael Douglas. Occhio alle nuove Anacot: Gekko le ha già puntate. Il Tempo, 16 marzo 2011

RAGIONATO ELOGIO DEL FISCO RIVOLUZIONARIO CHE INVESTIRA’ I NOSTRI COMUNI

Pubblicato il 3 marzo, 2011 in Economia | No Comments »

Sull’approvazione del federalismo municipale ieri non sono mancate le polemiche. In particolare l’Associazione nazionale dei comuni italiani, l’Anci, ha ventilato un rischio di aumento degli affitti per un milione di famiglie a causa della cedolare secca (uno dei temi centrali del decreto sul federalismo municipale approvato ieri alla Camera con la fiducia posta dal governo) mentre gli artigiani hanno attaccato gli effetti dell’Imu, la nuova imposta unica comunale.

Ma Luca Antonini, professore di Diritto costituzionale all’Università di Padova e presidente della commissione tecnica paritetica sul Federalismo fiscale, quindi uno dei massimi esperti del processo di devoluzione in atto, in una conversazione con il Foglio confuta allarmi e luoghi comuni. Partiamo dalla cedolare secca: secondo l’Anci, un milione di famiglie rischiano di pagare di più dovendo passare dal “canale concordato degli affitti al mercato libero”. Secondo Antonini sono “affermazioni inspiegabili, perché l’effetto della cedolare semmai sarà proprio quello di far risparmiare sia i proprietari che gli inquilini. I primi beneficeranno di un’aliquota che scenderà dal 40 per cento (per i redditi più alti) al 21 per cento. I secondi del blocco dell’adeguamento Istat”. Il proprietario che opterà per la cedolare (che, ricorda Antonini, è un regime facoltativo), “si impegna a non aumentare l’affitto per tutta la durata del contratto, mentre oggi è possibile adeguare anno per anno il canone al costo della vita”. Altro vantaggio per gli inquilini è la norma che in caso di denuncia del padrone di casa evasore prevede un extra periodo di contratto di quattro anni a canone ridotto. Infatti la cedolare andrebbe a colpire l’altissima evasione degli affitti in nero in Italia”.

Altra critica ricorrente è quella di un aumento delle tasse. Ieri il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha concesso un’apertura al federalismo (“provvedimento metodologicamente ben impostato”, ha detto), ma ha messo in guardia da un aumento indiscriminato delle tasse. Allo stesso modo la Cgia di Mestre ha allertato su un incremento delle imposte che con l’Imu andrebbero a colpire le imprese, per le quali si prospetta un maggior carico stimato in 410 euro all’anno. A queste critiche Antonini ribatte che “sarà automatico, semmai, che il federalismo abbasserà le imposte, introducendo il concetto di fabbisogno standard. Un sistema che arriva dopo 35 anni di spesa storica, sistema che ha incrementato sprechi e inefficienze”.

Antonini ricorda come in base al criterio della spesa storica si spendano ogni anno 100 miliardi e che vedrà i sindaci in prima linea a dar conto ai cittadini del rapporto spese-servizi: “Inoltre – dice il costituzionalista – nel decreto sul federalismo municipale c’è una norma precisa che permette agli stessi sindaci di ridurre le imposte sugli immobili. Per esempio un sindaco potrebbe ridurre l’Imu dallo 0,76 allo 0,38 per cento (la cifra oggi stabilita per gli immobili commerciali) privilegiando così l’azienda residente rispetto alle seconde case”. I numeri degli artigiani di Mestre, secondo Antonini, “mi sembrano buoni solo da giocare al lotto. Se volevamo aumentare le tasse, non avremmo avuto necessità di otto decreti, bastava una legge di una riga”. Michele Masneri, – FOGLIO QUOTIDIANO, 3 marzo 2011

STOP ALLE PALE EOLICHE E PANNELLI SOLARI SUI TETTI,

Pubblicato il 3 marzo, 2011 in Economia | No Comments »

Pubblichiamo questo articolo  di Sergio Rizzo, inviato speciale del Corriere della Sera e autore con Giantonio Stella di numerosi libri sugli sprechi e sugli imbrogli all’italiana,  perchè è una finestra -verità  sulle cosiddette emregie rinnovabili su cui speculatori e affaristi hanno fondato recenti e poco chiare fortune. a carico dello Stato e degli stessi utenti. A proposito, in particolare,  delle pale eoliche, spesso su questo sito abbiamo messo in guardia dal facile entusiasmo, denunciando gli affari che vi si nascondevano. Ora ciò trova conferma nell’articolo-denuncia di Rizzo. g.

ROMA – Il conto alla rovescia è cominciato già da qualche settimana, quando è stato chiaro che da un giorno all’altro, improvvisamente, poteva finire la pacchia. Quel giorno si stava pericolosamente avvicinando. Tremavano in migliaia. Tremavano le imprese che avevano costruito autentiche fortune. Tremavano le 20 mila persone che ruotano intorno a quel business. Tremavano perfino le banche, che avevano trovato nei finanziamenti alle fonti rinnovabili una lucrosa alternativa al credito tradizionale, azzannato dalla crisi.

È successo che lo scorso anno si è deciso di mettere un limite agli incentivi concessi per realizzare impianti fotovoltaici. Incentivi che, per dirla con l’Authority, sono fra i «più profittevoli al mondo». Un assaggio: mentre il costo medio dell’energia in Italia si aggira sui 60-70 euro al megawattora, chi produce elettricità con il fotovoltaico intasca ancora oggi fino a 402 euro. Vi chiederete: chi paga? Ovviamente gli utenti. Gli incentivi finiscono per gravare sulla bolletta. E sono così grandi da aver generato una ubriacatura generale, di cui fa le spese l’intero sistema. Basti pensare che negli ultimi quattro anni sono state presentate domande di impianti alternativi per 130 mila Megawatt, a fronte di una potenza elettrica installata, nel corso dell’ultimo secolo, di 105 mila Megawatt. Una quantità assurda, che la nostra rete non potrebbe mai sopportare. Ma nel frattempo gli investitori prenotano le connessioni, anche se poi non produrranno un chilowattora. Tanto non costa nulla. Per scoraggiare i buontemponi l’Autorità per l’energia aveva decretato l’obbligo di fideiussioni bancarie che sarebbero state escusse nel caso di mancata realizzazione degli impianti. Ma il Tar ha sospeso tutto: e ti pareva?

La corsa al pannello è stata così frenetica che quest’anno gli utenti dovranno pagare, fra maggiore costo della bolletta e quant’altro, una sovrattassa di 5,7 miliardi di euro per le energie alternative. Di cui soltanto 3 miliardi per il solo fotovoltaico. Nel solo 2009 se l’elettricità prodotta con fonti rinnovabili è salita del 13% e l’eolico è cresciuto del 35%, gli impianti solari hanno registrato un balzo clamoroso: +418%.

Ecco perché nel 2010 si è stabilito un tetto. Una volta raggiunta la soglia di 8 mila Megawatt di potenza installata, stop. Gli incentivi sarebbero finiti. Il fatto è che per raggiungere quel limite ci sarebbe stato tempo fino al 2020, ma l’accelerazione che si è registrata negli ultimi tempi, legata anche al fatto che gli incentivi decrescono man mano che passa il tempo, ha fatto bruciare le tappe. E sarebbe stata solo questione di mesi. Secondo l’autorità per l’energia sarebbero stati già installati, al 31 dicembre 2010, 6.500 Megawatt. Ma stime di Alessandro Clerici, presidente del gruppo di studio del World Energy Council su «Risorse energetiche e tecnologiche» dicono che dovremmo essere già a 7.400 Megawatt.

Per giunta avrebbe regnato l’incertezza più totale. Nei prossimi giorni dovrebbe essere pronto un nuovo decreto del governo per razionalizzare l’intera materia. E proprio lì c’è la soluzione al problema. Naturalmente al netto delle divergenze di opinioni che già si sono manifestate all’interno dell’esecutivo, perché un punto fermo sarebbe stato già acquisito: quel tetto di 8.000 megawatt non esiste più. Abbiamo scherzato. Per quel che ne sappiamo, inoltre, il provvedimento dovrebbe abolire il meccanismo dei certificati verdi, sistema con il quale sono incentivati anche gli impianti eolici. Di che cosa si tratta? Sono veri e propri titoli che si vendono e si comprano alla borsa elettrica. Mediamente valgono 80 euro a Megawattora, cui si aggiungono i soldi che il produttore incassa per l’energia messa in rete. Il decreto dovrebbe poi prevedere una barriera dimensionale degli impianti fotovoltaici (5 Megawatt), al di sopra della quale per accedere agli incentivi sarebbe necessaria una gara. Più o meno come in Francia. Piccolo particolare, sul livello dei futuri incentivi è buio totale. Quelli dovranno essere stabiliti con successivi decreti dai singoli ministeri: certo ne vedremo delle belle.

Normale, per un Paese dove si passa facilmente da un estremo all’altro. E può davvero accadere di tutto. Il cosiddetto provvedimento Cip 6 del 1992, per esempio. Dopo la vittoria dei Sì al referendum antinucleare del 1987 venne stabilito di incentivare la produzione di energie rinnovabili. Ma al dunque una manina probabilmente indirizzata dai petrolieri aggiunse due paroline «e assimilate» che stravolsero il principio, aprendo la porta dei ricchi incentivi perfino agli scarti inquinantissimi delle raffinerie. Risultato, soltanto dal 2001 al 2010 il Cip 6 è costato agli utenti 22,8 miliardi di euro, per almeno metà finiti a chi produceva con combustibili fossili. Si sperava che la pacchia finisse subito dopo che l’Unione Europea aveva fissato l’obiettivo secondo il quale entro il 2020 il 17% di tutti i consumi energetici dovrebbe essere soddisfatto con fonti rinnovabili. Ma c’erano i vecchi contratti in essere. E a questi si sono aggiunti i nuovi superincentivi necessari, si diceva, per centrare l’obiettivo continentale. Peccato che siano superiori in media anche dell’80% a quelli concessi dagli altri Paesi europei, come ha dimostrato sul Corriere Massimo Mucchetti.

Come risultato, l’Italia si è riempita in pochi anni di impianti fotovoltaici. E non soltanto sui tetti delle case, dove c’è circa metà della potenza installata. I pannelli hanno invaso pure il territorio. Del 295 Megawatt operativi in Puglia, 239 sono prodotti da 497 impianti collocati su 358 ettari di terreni agricoli. Per non parlare delle pale eoliche, diventate l’ossessione degli ambientalisti. Grazie a un sistema assurdo di incentivazione hanno finito per metterle anche dove tira una leggera brezza. Con la scusa poi delle carenze nella trasmissione, è stato previsto una specie di indennizzo di «mancata produzione» dovuta alla impossibilità di immettere l’elettricità nella rete.

Nel 2009 sono stati pagati ai produttori 12,5 milioni. La verità è che le reti sono frequentemente sature non solo per ragioni strutturali, ma anche a causa dell’offerta elevatissima. La dimostrazione sta nella somma enorme che il Gestore dei servizi energetici (la società pubblica a cui fa capo la Borsa elettrica) paga per acquistare i «certificati verdi» invenduti: 940 milioni nel 2010, forse 1,4 miliardi quest’anno.

Va da sé che con tutti questi soldi in ballo l’affare delle energie alternative ha attirato speculatori, faccendieri, e truffatori. Romani ha raccontato in una lettera al Corriere che a dicembre in Puglia un impianto aveva comunicato l’entrata in funzione di 8 Megawatt, ma quando i tecnici del ministero sono andati a fare una verifica, non hanno trovato che pannelli per 40 Kilowatt: 200 volte meno della potenza dichiarata. Per non parlare dell’offensiva delle organizzazioni criminali, dalla Sardegna alla Sicilia alla Puglia, partita dall’eolico e ora approdata all’energia solare. Durante una trasmissione di Radio 24 il magistrato della Procura antimafia Maurizio De Lucia ha azzardato il paragone con il sacco di Palermo. Un caso? Nella sola provincia di Siracusa la Finanza ha sequestrato impianti fotovoltaici mai entrati in funzione e ammessi a incentivi per 10 milioni di euro. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 3 marzo 2011


BERLUSCONI A BERSANI: RILANCIAMO L’ECONOMIA

Pubblicato il 31 gennaio, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Con una lettera al Corriere della Sera che il quotidiano di Milano pubblica in prima pagina questa mattina, il premier Silvio Berlusconi indirizza una proposta a Bersani di rilancio bipartisan dell’economia. E’ evidente lo scopo del premier: se tutti si preoccupano del “bene dell’Italia”, vediamo chi davvero ci tiene al bel paese. Ecco la lettera di Berlusconi, che, a quanto rilevano i mass media, ha lasciato spiazzati sia Bersan, sia tutti gli altri “amanti” dell’Italia.

Gentile direttore,
il suo giornale ha meritoriamente rilanciato la discussione sul debito pubblico mostruoso che ci ritroviamo sulle spalle da molti anni, sul suo costo oneroso in termini di interessi annuali a carico dello Stato e sull’ostacolo che questo gravame pone sulla via della crescita economica del Paese. Sono d’accordo con le conclusioni di Dario Di Vico, esposte domenica in un testo analitico molto apprezzabile che parte dalle due proposte di imposta patrimoniale, diversamente articolate, firmate il 22 dicembre e il 26 gennaio da Giuliano Amato e da Pellegrino Capaldo. Vorrei brevemente spiegare perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale, in senso tecnico-finanziario e in senso politico.

Prima di tutto, se l’alternativa fosse tra un prelievo doloroso e una tantum sulla ricchezza privata e una poco credibile azione antidebito da «formichine», un gradualismo pigro e minimalista nei tagli alla spesa pubblica improduttiva e altri pannicelli caldi, staremmo veramente messi male. Ma non è così. L’alternativa è tra una «botta secca», ingiusta e inefficace sul lungo termine, e perciò deprimente per ogni prospettiva di investimento e di intrapresa privata, e la più grande «frustata» al cavallo dell’economia che la storia italiana ricordi. Il debito è una percentuale sul prodotto interno lordo, sulla nostra capacità di produrre ricchezza. Se questa capacità è asfittica o comunque insufficiente, quella percentuale di debito diventa ingombrante a dismisura. Ma se riusciamo a portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni, e i mercati capiscono che quella è la strada imboccata dall’Italia, Paese ancora assai forte, Paese esportatore, Paese che ha una grande riserva di energia, di capitali, di intelligenza e di lavoro a partire dal suo Mezzogiorno e non solo nel suo Nord europeo e altamente competitivo, l’aggressione vincente al debito e al suo costo annuale diventa, da subito, l’innesco di un lungo ciclo virtuoso.

Silvio Berlusconi (Ansa)
Silvio Berlusconi (Ansa)

Per fare questo occorre un’economia decisamente più libera, poiché questa è la frustata di cui parlo, in un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro. La «botta secca» è, nonostante i ragionamenti interessanti e le buone intenzioni del professor Amato e del professor Capaldo, una rinuncia statalista, culturalmente reazionaria, ad andare avanti sulla strada liberale. La Germania lo ha fatto questo balzo liberalizzatore e riformatore, lo ha innescato paradossalmente con le riforme del socialdemocratico Gerhard Schröder, poi con il governo di unità nazionale, infine con la guida sicura e illuminata di Angela Merkel. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la locomotiva è ripartita. Noi, specialmente dopo il varo dello storico accordo sulle relazioni sociali di Pomigliano e Mirafiori, possiamo fare altrettanto.

Non mi nascondo il problema della particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico. Ne sono preoccupato come e più del presidente Napolitano. E per questo, dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani.

Lo scopo indiretto ma importantissimo di un piano per la crescita fondato su una frustata al cavallo di un’economia finalmente libera è di portare all’emersione della ricchezza privata nascosta, che è parte di un patrimonio di risparmio e di operosità alla luce del quale, anche secondo le stime di Bruxelles, la nostra situazione debitoria è malignamente rappresentata da quella vistosa percentuale del 118 per cento sul Pil. Prima di mettere sui ceti medi un’imposta patrimoniale che impaurisce e paralizza, un’imposta che peraltro sotto il mio governo non si farà mai, pensiamo a uno scambio virtuoso, maggiore libertà e incentivo fiscale all’investimento contro aumento della base impositiva oggi nascosta. Se a questo aggiungiamo gli effetti positivi, di autonomia e libertà, della grande riforma federalista, si può dire che gli atteggiamenti faziosi, ma anche quelli soltanto malmostosi e scettici, possono essere sconfitti, e l’Italia può dare una scossa ai fattori negativi che gravano sul suo presente, costruendosi un pezzo di futuro. Silvio BERLUSCONI,
presidente del Consiglio

LA MAGISTRATURA ITALIANA E’ INTOCCABILE NONOSTANTE I SUOI ERRORI COSTINO 400 MILIONI ALLE TASCHE DEI CITTADINI

Pubblicato il 30 gennaio, 2011 in Economia, Giustizia | No Comments »

di Anna Maria Greco

La Casta, com’è stata chiamata quella dei magistrati, difende se stessa con la giustizia «domestica» e corporativa. Quella del Csm, dove si celebrano i processi promossi dai titolari dell’azione disciplinare: il ministro della Giustizia e il Procuratore generale della Cassazione.
Nell’ultimo decennio in Italia la media dei magistrati colpiti dalla rimozione dall’ordine giudiziario per gravi illeciti disciplinari, è di 1,3 ogni anno. Tra il 2000 e il 2007 la sanzione più grave è stata applicata 6 volte, nel triennio 2008-2010 ha riguardato 7 toghe. Nel 2008 le sanzioni disciplinari di vario grado hanno colpito meno dello 0,5 per cento dei magistrati.
Per il Pg della Suprema Corte Vitaliano Esposito, che ne ha parlato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, qualcosa sta cambiando. Ma rimane il fatto che l’altissimo numero degli esposti di privati cittadini, dice l’alto magistrato, «è la testimonianza più evidente dell’insoddisfazione, largamente diffusa, per il “servizio giustizia”». Delle 1.382 denunce arrivate lo scorso anno alla Procura generale ne risultano 573 di privati, anche se per Esposito in realtà sono molti di più per un errore di classificazione.
Le cause intentate dai cittadini vittime di ingiusta detenzione o errori giudiziari, negli ultimi 10 anni sono costate allo Stato italiano circa 400 milioni di euro.
A questa insoddisfazione dei cittadini, secondo il Pg, «non si può sempre ovviare con lo strumento disciplinare, concepito dal legislatore come rimedio specifico per reprimere situazioni di grave patologia comportamentale dei magistrati». Esposito sottolinea che ci sono «altri strumenti» nell’ordinamento per contrastare i comportamenti colpevoli dei magistrati.
Il problema è che leggi come quella sulla responsabilità civile delle toghe, rimangono lettera morta. E i dati della Commissione europea per l’efficacia della giustizia dicono che nella classifica della severità delle sanzioni applicate ai suoi membri, la magistratura italiana si trova al sesto posto fra i Paesi del Consiglio d’Europa.
Spesso non solo giudici e pm non pagano per inchieste basate sul nulla, violazioni dei criteri di competenza, dispendiose e spettacolari azioni che portano dopo anni ad archiviazioni, ma neppure questo ha riflessi sulla loro carriera politica, come dimostrano tanti casi di promozioni e normale scalata nella carriera malgrado curricula fortemente macchiati.
Nella recente riforma dell’ordinamento giudiziario si pone fine all’automatismo e si introducono le valutazioni periodiche di professionalità e produttività, ma il sistema è ben lontano dall’essere a regime. Ci vorrebbero, tra l’altro, gli standard di produttività delle toghe previste dalla legge. Per il settore civile, però, è partita in grave ritardo questo mese solo la prima sperimentazione in tre città (Bologna, Firenze e Caltanissetta), mentre per il penale siamo in alto mare.
Il Pg della Cassazione spiega che da due anni trasmette al Csm fascicoli da archiviare perché non sono stati individuati comportamenti illeciti, che però evidenziano «vistose cadute di professionalità, non solo tecnica», perché se ne tenga conto nella progressione di carriera e per l’attribuzione di incarichi direttivi. Ma è il Csm a decidere e la forza delle correnti a Palazzo de’ Marescialli è sempre forte.

Quello dei ritardi nel deposito delle sentenze è un problema enorme. Ed Esposito denuncia: «Non siamo più in grado neanche di pagare gli indennizzi dovuti per la violazione dei canoni di un giusto e celere processo (legge Pinto, ndr.». La Corte europea di Strasburgo ci ha condannato per 475 casi di ritardi nel pagamento dei risarcimenti: si è passati da quasi 4 milioni di euro del 2002 agli 81 del 2008, di cui ben 36,5 non ancora pagati. Esposito richiama i capi degli uffici giudiziari, chiede controlli maggiori per velocizzare i tempi della giustizia e smaltire l’arretrato che soffoca i tribunali. Ma sono richiami che sentiamo ogni anno e quasi sempre rimangono inascoltati. Fonte: Il Giornale, 30 gennaio 2011

IN GALERA CHI TOGLIE LA SPAZZATURA DA NAPOLI

Pubblicato il 29 gennaio, 2011 in Cronaca, Economia, Giustizia | No Comments »

I rifiuti invadono le strade di Napoli I prossimi funzionari pubblici che saranno chiamati a occuparsi della spazzatura napoletana, come d’ogni altro disastro ambientale provocato dall’incuria degli amministratori locali e dagli interessi della criminalità organizzata, saranno fortemente tentati di rifiutare. In alternativa potrebbero chiedere, in via cautelare, una casa all’estero, un conto nei paradisi fiscali e un passaporto diplomatico, in modo da potere scappare nel caso qualche procura decidesse che la colpa del disastro non è di chi lo ha provocato, ma di chi ha tentato di porvi rimedio. Quando la protezione civile fu chiamata a Napoli, cosa si pensava che potesse fare? Credevano che facessero sparire la mondezza per incanto, disintegrandola fuori dall’atmosfera terrestre? Avevano a che fare con discariche chiuse, sotto sequestro della magistratura o sature. Se così non fosse stato non si sarebbe provocata alcuna emergenza, semmai un accumulo, da smaltirsi in fretta e, tutto sommato, in modo semplice. Il problema è strutturale, invece, perché non si sapeva dove metterla.

Gli uomini al servizio dello Stato, un prefetto e il personale della protezione civile, avranno anche sbagliato, ma se fossero stati disponibili luoghi e modalità per fare sparire il tutto, nel rispetto formale e sostanziale della norma, semplicemente si sarebbe dovuto mandare al manicomio quanti non avevano provveduto prima. Hanno agito, quindi, in condizioni d’emergenza. Ricordo una telefonata fra di loro, raccolta dagli inquirenti e prontamente passata ai giornali (è il rito post moderno della malagiustizia medioevale), nel corso del quale uno diceva all’altro che in una tale discarica c’era ancora posto, si poteva usarla. Peccato che, codicilli alla mano, era da considerarsi satura. E allora? dovevano mangiarsela? Decisero di procedere, come avrebbe fatto qualsiasi persona sensata. O, meglio, qualsiasi sconsiderato che crede di adempiere ad un dovere e non ha fatto i conti con l’irresponsabilità di massa. Difatti, ora sono al gabbio. Accusati di reati ambientali, hanno perso la libertà. Di taluni si dice con il «beneficio» degli arresti domiciliari, come se fosse una scelta di bontà e non una modulazione relativa alla pericolosità sociale.

E la minaccia, per la collettività, non sono quanti hanno seppellito Napoli sotto al pattume, ma quanti hanno provato a rimuoverlo. Arrestati, dunque. Pensavano di scappare all’estero? No, erano a casa. Possono inquinare le prove? A parte il triste umorismo, relativo all’inquinamento dell’inquinamento, se la procura ha raccolto le prove non c’è nulla da inquinare. Come, del resto? Mica possono cambiare le carte del depuratore. Possono reiterare il reato? Tanto per fare un esempio, la dottoressa Marta Di Gennaro è in pensione. Al massimo può reiterare buttando qualche cartaccia lontano dai cestini. Però sono detenuti, le loro foto si trovano sui giornali, il loro nome infamato, a qualche anno di distanza da un qualsiasi processo e a imperituro monito di quanti s’azzardino a fare il proprio dovere guardando al risultato anziché alla forma. Serva d’esempio per le forze dell’ordine, cui già s’è portato quello di carabinieri impegnati a perseguire la mafia e processati (poi, molto poi, assolti) per mafia. Quindi, la (im)morale di questa storia è: il burocrate faccia il burocrate, si trinceri dietro la mezza manica e se ne freghi delle conseguenze per gli altri, quel che conta, per lui, è solo il rispetto scrupoloso, maniacale e immobilista di tutte le norme e regolamenti. Si blocca tutto, ma la procura non verrà a svegliarti e ammanettarti. Davide Giacalone, Il Tempo, 29/01/201

E’ IL CANONE RAI LA TASSA PIU’ ODIATA DAGLI ITALIANI

Pubblicato il 20 gennaio, 2011 in Cronaca, Economia | No Comments »

E’ il canone Rai la tassa più odiata

E' il canone Rai la tassa più odiataLe imposte “più indigeste” per i contribuenti italiani sono: il canone rai (per il 47,3%), il bollo auto (14,5%), l’Ici (12,7%), la tassa sulla nettezza urbana (12,1%) e l’Irpef (11,6%). E’ quanto emerge dalla ricerca Censis-Commercialisti, realizzata su un campione di 1.000 contribuenti, sul rapporto degli italiani con il sistema fiscale.

La grande maggioranza degli italiani giudica elevato il carico fiscale. La pensa così l’81% dei contribuenti. La ricerca mostra che per il 36% degli italiani il Fisco è “ingiusto”.

Per sei italiani su 10 l’evasione fiscale negli ultimi tre anni è aumentata. Per il 44,4% degli intervistati, rileva la ricerca, l’evasione è “il principale problema del fisco”.

FIAT: UN “SI” CHE UMILIA LE SINISTRE

Pubblicato il 18 gennaio, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Vince chi prende più voti. Accade e viene riconosciuto non soltanto in tutte le democrazie del mondo, ma anche in ogni libera associazione, perfino nelle bocciofile emiliane tanto care a Bersani. A Mirafiori il 54% dei dipendenti ha detto sì all’accordo per nuovi investimenti e il 46% ha detto no. Eppure larga parte della sinistra ha festeggiato e brindato.
Sindacalisti, politici, intellettuali e giornalisti hanno raccontato perché e per come ha perso chi ha vinto, con un singolare rovesciamento del significato del voto e quindi della stessa regola principe della democrazia partecipata. Si è parlato di risultato “sul filo del rasoio” (otto punti di differenza non sono proprio niente), si è ragionato di lavoratori, quelli del sì, privi di dignità e orgoglio (“uomini e no” il titolo del Fatto), si è scritto che “hanno detto no quasi tutti” (mandate le tabelline alla direttora dell’Unità), hanno insomma fotografato il referendum applicando il filtro rosso dell’ideologia salottiera di sinistra, grazie al quale il voto “amico” è “più responsabile” e come tale vale doppio.

LA SINISTRA E’ DIVISA ANCHE SULLA FIAT

Pubblicato il 13 gennaio, 2011 in Economia | No Comments »

Alla vigilia del referendum sull’accordo FIAT-SINDACATI, la sinistra italiana riesce a dividersi anche su questo.

Il sindaco di Firenze, il rottamatore Renzi, è esplicito: “Io sono dalla parte di Marchionne”. D’Alema non si sa da che parte sia. Dice di non volere dare consigli (e chi glieli ha chiesti?) ma ribadisce che rispetta gli operai. A proposito di governo Bersani insiste: “Il governo è nelle nebbie”. Ci spieghi il leader del Pd perché l’esecutivo dovrebbe intervenire, visto che la Fiat è azienda privata e da tempo non usufruisce di soldi pubblici.

Nessuno a sinistra che abbia il coraggio di sottolineare che in tempo di crisi internazionale Marchionne vuole investire quando le aziende chiudono, vuole mettere tanti quattrini per agganciare Mirafiori alla locomotiva statunitense, là dove l’accordo coi sindacati è stato siglato in poche ore e senza drammi, scioperi, lacrime e sangue. g.