Gli operai della FIAT mostrano il Giornale e contestano Vendola: sei un traditore
d
S’infiamma la polemica sul referendum di Mirafiori. A Torino, davanti alla fabbrica della Fiat, si presenta Nichi Vendola. Arriva per incontrare gli operai davanti alla porta 2 dello stabilimento. Vuole solidarizzare con loro esortandoli alla “resistenza”. Li spinge a non mollare e a respingere l’accordo voluto da Marchionne. Si aspetta di ricevere il plauso ma, a sopresa, gli operai e sindacalisti della Fismic lo contestano. A scatenare la loro reazione è un articolo pubblicato da ilGiornale dal titolo “Sopresa, Vendola a Bari fa il Marchionne”. Evidentemente imbarazzato, il governatore della Puglia ha cercato di negare l’evidenza. E naturalmente ha scaricato la colpa sul nostro quotidiano.
Poi non ha perso occasione per attaccare Palazzo Chigi. E nella foga se l’è presa anche con il Pd, accusato di non aver condiviso la sua battaglia scendendo in piazza per dire no al referendum.
I momenti di tensione sono stati documentati dalle telecamere. Ma Vendola nega l’evidenza: “Credo che abbiano litigato con gli altri delegati, non ho avuto alcuna contestazione, non li ho incontrati proprio”. Poi, stizzito, ha continuato: “Poverini, hanno preso l’articolo de Il Giornale della famiglia Berlusconi, ma il Giornale arriva con molto ritardo perché – ha provato a spiegare il governatore – i giornali pugliesi sono pieni dell’accordo strategico tra il presidente della Regione Puglia con Cgil, Cisl e Uil sulle questioni fondamentali del lavoro e dei diritti sociali”.Ma Paolo Bracalini, autore dell’articolo che ha fatto infuriare gli operai, contesta la versione di Vendola: Vendola, dice il giornalista, dovrebbe spiegare come sia riuscito a inimicarsi in Puglia tutto il sindacato, la CISL, la UIL e la stessa CGIL.
Ovviamente Vendola ha attaccato anche il governo. “Il governo – ha detto Vendola – che avrebbe dovuto svolgere il ruolo di arbitro tra le due squadre, è sceso in campo a gamba tesa dalla parte di Marchionne. Nel momento in cui il governo scende in campo contro i lavoratori è un fatto gravissimo, inaudito perché snatura anche le relazioni industriali”.
Il governatore della Puglia, evidentemente già in campagna elettorale, non ha perso l’occasione per attaccare anche il Pd. Lo ha fatto replicando a Massimo D’Alema, che lo aveva criticato per la sua decisione di presentarsi a Mirafiori: “Qualcuno del Pd è molto più pronto a bacchettare me che gli altri. Non so perché venire davanti ai cancelli di Mirafiori sia così sbagliato, penso che sia più sbagliato non venire qui”.
Da Berlino gli ha indirettamente replicato Berlusconi. “Riteniamo positivo lo sviluppo che sta prendendo la vicenda con la possibilità di un accordo tra le forze sindacali e l’azienda” e suklla Fiat ha precisato che “la direzione è quella di una maggiore flessibilità nel lavoro”. Sempre sulla Fiat il premier ha spiegato che in mancanza di un accordo “le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri paesi”.
Sui muri della FIAT di Torino, alla vigilia del referendum sull’accordo Fiat-Sindacati non sottoscritto dalla Fiom-CGIL, sono apparse stelle a cinque punte, quelle della Brigate Rosse, contro Marchionne. E’ la riprova che Marchionne viene individuato come un secondo pericolo pubblico dopo Berlusconi. Ecco l’opinione del direttiore de Il Tempo, Mario Sechi.
Nell’assordante silenzio dei benpensanti e dell’intellighentsia ho più volte scritto che le frasi contro Marchionne sono benzina sul fuoco. Mi era chiarissimo da molto tempo che il numero uno della Fiat era diventato il nemico pubblico numero due, appena un gradino sotto Berlusconi, il bersaglio di chi ancora sogna la rivoluzione. Oggi i sepolcri imbiancati si svegliano perché a Torino su un manifesto è comparsa una stella a cinque punte a corollario di una scritta eloquente: «Marchionne fottiti!». Verrebbe da scrivere a questi automi dell’indignazione a comando, «benvenuti a bordo», ma in realtà la loro voce suona in falsetto, è un coro di vampiri che oggi ti dà la solidarietà e un minuto dopo te la toglie perché non fa parte del disegno opportunista sul quale basa la propria esistenza di sanguisuga di regime. Quando un manager – le cui scelte si possono civilmente discutere – viene indicato come l’uomo da abbattere, allora non si può poi vedere la frittata sul pavimento e dire «ah, perbacco, no, così non va». Quando si arriva a dipingere un capitano d’impresa come un «fascista», quando stelle nascenti della sinistra giungono a conclusioni che invitano ad ambigui «gesti radicali», non si può strillare, agitare le mani e far finta di non essere partecipi della roulette russa. Marchionne va difeso da tutto questo, l’industria italiana va salvata dai nuovi cattivi maestri e da chi pensa – anche in buonafede ma con pericolosa ingenuità – che le parole siano innocue.
Ho criticato la prima pagina de Il Manifesto di qualche giorno fa, il titolo era un calembour e nelle intenzioni della redazione del giornale comunista solo quello voleva essere, ma in un momento in cui le bombe vengono spedite sul serio e le minacce sono una cosa reale, piazzare il titolo «Pacco bomba» su una foto di Marchionne non è una trovata intelligente ma infelice. Le polemiche giornalistiche sono niente rispetto alla insipienza della politica, alla sua incapacità di prevedere quel che accade, alla sua ignoranza. È un discorso che riguarda purtroppo la sinistra, la qualità dell’opposizione, ma non risparmia settori del centrodestra. Ci sono amplissime fasce della politica e dell’establishmnent che non hanno compreso il legame nuovo tra globalizzazione e lavoro, tra fabbrica e innovazione, qualità e produzione. La classe dirigente deve studiare, leggere, comprendere che affrontare i processi di cambiamento del capitalismo con le categorie del Novecento è pura follia. Oggi questo tema riguarda la Fiat – azienda che ha spostato il suo baricentro negli Stati Uniti e si muove nel mercato globale – ma domani toccherà tutti i principali gruppi industriali del Paese. Se l’Italia vuole competere a livello internazionale – e sopravvivere alla sfida lanciata da nuove realtà produttive, da Paesi che non sono più emergenti ma titani ampiamente emersi sul mercato – deve ripensare tutto il suo modo di porsi al cospetto di questi temi. Invece no.
La reazione pavloviana è quella della conservazione da una parte, dell’opposizione estremista dall’altra, dell’adulazione della rivolta, degli appelli in puro stile anni Settanta, del birignao chic applicato alla catena di montaggio, una realtà dove Marx non vale più e Adam Smith s’è trasferito a Pechino. In tutto questo chi ha moltissimo da perdere è la Cgil guidata da Susanna Camusso. Il sindacato del quadrato rosso è in bilico. Finché gli accordi del 1993 tenevano, la sua supremazia nella rappresentanza del lavoro aveva ampia copertura, ma prima o poi capita che «contra facta non valet argumentum», di fronte alle iperveloci dinamiche del mercato della produzione e del lavoro le posizioni, l’ideologia, le visioni del mondo della Cgil sono maledettamente invecchiate e in moltissimi casi prive di senso. La Fiom, ala durissima del sindacato dei metalmeccanici, rischia di essere la zavorra che porterà a fondo la Cgil. Scrivo queste cose essendo convinto della necessità di avere un sindacato – di sinistra – autorevole, forte, un interlocutore intelligente.
Perché il turbocapitalismo non guarda in faccia nessuno, ha regole spietate e proprio per tali ragioni ha bisogno di un bilanciamento, di trovare soluzioni equilibrate. Tutto questo finora è stato assente e in luogo della libera e franca discussione si è avuto un dibattito pubblico lacerato, cattivo, un linguaggio che ha dipinto Marchionne come un dittatore che vuole ridurre gli operai in schiavitù e via così in un crescendo di idiozie e sparate frutto di un pensiero debole pericolosissimo. Questo Paese ha una insanguinata tradizione di violenza politica che non è mai sparita. La memoria cattiva tende a cancellare il micidiale fatto che in Italia negli anni Ottanta si moriva per terrorismo. Si è rimosso in gran fretta l’assassinio di Marco Biagi sotto casa sua a Bologna nel vicinissimo 2002, si sono archiviate come banali episodi le indagini delle nuove Br su altri esponenti delle istituzioni. Ora la stella a cinque punte è tornata e brilla come una sinistra aureola sulla testa di Marchionne. Quasi tutti faranno spallucce o manderanno alle agenzie la vibrante protesta, ottima per lavarsi la cattiva coscienza. A me vengono i brividi. Mario Sechi, Il Tempo, 10 gennaio 2011.
Sono cosciente che con quest’articolo non mi attirerò molti consensi, ma è lecito oppure no chiedersi se un Paese come il nostro possa permettersi una sosta così lunga tra dicembre e gennaio? Oggi è lunedì 10 e si prevede che tutte le attività produttive e di servizio riaprano finalmente i battenti, dopo un intervallo che è durato la bellezza di 17 giorni scanditi dalle festività del Santo Natale, di Santo Stefano, di Capodanno e dell’Epifania. Quattro giorni in tutto che però hanno avuto il potere di quadruplicare l’effetto-interruzione. Chi conosce da dentro le organizzazioni, pubbliche o private che siano, sa anche che i tempi di ripartenza non sono mai automatici e che di conseguenza prima che si ritorni a regime passerà ancora qualche giorno. Mettiamo in conto dunque una ventina di giorni di mancata continuità. Aggiungo che la capitale economica del Paese, Milano, nella prima parte del mese di dicembre era stata interessata da un lungo ponte – in totale 5 giorni – giustificato dalle festività del Santo Patrono e dell’Immacolata Concezione. E ne traggo la conseguenza che almeno per Milano dicembre è stato un mese che chiamare «zoppo» è un eufemismo.
Fatte queste considerazioni ora ripeto la domanda: un Paese che stenta a crescere a un ritmo decente per assicurare lavoro e tutele ai suoi cittadini e sul quale grava il terzo debito pubblico del mondo può consentirsi il lusso di una soluzione di continuità così lunga? La mia risposta è no. E con ciò non intendo sottrarre a nessuno i diritti acquisiti in termini di giornate di riposo, mi chiedo solo se non si possa organizzare la sosta invernale in una maniera che sia meno dispendiosa per il sistema-Paese, quindi per tutti. Già in estate l’Italia dimostra ampiamente di non saper programmare a scorrimento le proprie ferie (i nostri partner lo fanno senza che ciò inneschi rivolte sociali), con tutto quello che ne consegue in termini di lungo stop, intasamento delle vie di trasporto, crescita anomala dei prezzi nelle località turistiche e stress vari. C’è bisogno di replicare il copione anche in inverno? Potrei sostenere la mia tesi con parole che suonano come flessibilità, produttività, concorrenza, liberalizzazioni, mi limito invece a fare appello a un solo e prezioso criterio: il buon senso. Dario Di Vico, Il Corriere della Sera, 10 gennaio 2011
…..Ha ragione Di Vico. Peccato che tra gli esempi non abbia fatto quello dei Magistrati che costano allo Stato un miliardo di euro l’anno in stipendi e benefit e lavorano meno di tutti. Infatti, a parte la polemica sugli orari personalizzati dei Magistrati, c’è la lunga sosta estiva, dal 1° luglio al 15 settembre, durante la quale la macchina della Giustizia si ferma per legge con tutti i danni che essa produce al sistema dei diritti dei cittadini. g.
La politica economica è un’arte del possibile. Al riguardo dai politici non ci si attende quindi una coerenza assoluta. Tuttavia i mutamenti di posizione dei finiani ora sembrano quelli di una nave priva di timoniere. Nell’ultima sessione finanziaria attaccarono il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, perché non faceva abbastanza per la crescita. Tesi azzardata in quel momento, dato che era necessario innanzitutto mettere in sicurezza i saldi del bilancio e il rapporto debito/pil per il triennio. Un’altra critica che si saldava con la prima riguardava la tendenza non abbastanza liberista del governo. Questo disagio di Fli emerge chiaramente nell’ultimo numero (novembre-dicembre) di Charta Minuta, rivista della Fondazione FareFuturo, dedicata a “Quel che resta di Reagan”. Volume nel quale Carmelo Palma, esponente non secondario di Fli, scrive che “nel 2006 Berlusconi e il centrodestra iniziano la sterzata anti reaganiana, che culminerà tra il 2007 e il 2008 nelle filippiche anti mercatiste e anti liberiste di Tremonti”.
Senonché il Secolo d’Italia, organo di Fli, ieri lodava in prima pagina il “controcanto di Giulio” sulla crisi rispetto a Silvio Berlusconi, mentre Adolfo Urso, che di FareFuturo è segretario, su Repubblica sosteneva che Tremonti “ha smentito la fiction del presidente del Consiglio” e aggiungeva: “Realizzare le riforme dello sviluppo e della crescita, accanto a una politica dei conti rigorosa, Tremonti saprebbe farlo”.
Dunque Tremonti, nel giudizio dei finiani di un mese fa, non sapeva conciliare la crescita con il rigore e dal 2006 aveva sospinto Berlusconi su tesi anti mercatiste e anti liberiste che contraddicono lo sviluppo che invece s’alimenta di spirito reaganiano. Ora che però qualcuno spera (“spes ultima dea”) che Tremonti possa essere il leader di un governo senza/anti Berlusconi, il ministro dell’Economia è diventato l’uomo della crescita e delle riforme con rigore. Tuttavia la linea di Tremonti di due mesi fa e quella attuale non sono differenti.
Anzi, se si può fargli una critica, questa è che egli continua ad anteporre la politica del rigore a quella della crescita, mentre chi è fautore della tesi per cui il rigore serve come base per la crescita ora può auspicare che si discuta della “fase due”.
E del resto la legge di stabilità, per sua natura, non è una legge da infarcire di tematiche strutturali. Adesso, invece, si può discutere di crescita a saldi invariati. Tremonti, poi, non ha cambiato filosofia economica. Continua a sostenere tesi che non sono liberiste pure (o “mercatiste”) ma nemmeno anti liberali e anti mercato. Fra le varie formulazioni che ammettono regole, per assicurare concorrenza, stabilità economica e interventi sociali, Tremonti ha scelto una linea di economia di mercato sociale (diversa da quella genuina della “economia sociale di mercato”). Sono le valutazioni dei finiani sulla sua linea economica che cambiano da un giorno all’altro, pur di combattere contro Berlusconi, come persona. Ma la politica economica non è un prêt-à-porter. FRANCESCO FORTE – FOGLIO QUOTIDIANO, 9 GENNAIO 2011
Il ministro: ridurremo l’imposta sui trasferimenti di proprietà dal 4 al 2%
Roberto Calderoli
«Scoveremo i furbi della prima casa, faremo una stretta sull’accatastamento delle abitazioni abusive per chi non si mette in regola entro febbraio, eviteremo i vantaggi per i Comuni turistici e sulla cedolare secca introdurremo dei bonus anche per chi è in affitto e per le famiglie». Con questo pacchetto di novità, al quale ha lavorato durante le vacanze di Natale, il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli da martedì incontrerà i membri della Commissione bicamerale per convincerli a votare il suo decreto sul federalismo municipale. «Ma non voglio fare mediazioni stile Prima Repubblica, voglio trovare un punto di intesa soddisfacente per gli interessi del Paese».
Può anticipare qualcosa?
«Non sarebbe corretto. Posso soffermarmi sui punti più delicati sui quali ho lavorato e ne approfitto per smentire tutte le cifre uscite fino a ora che immaginavano buchi di bilancio fino a 2 miliardi di euro. Esercizi di fantasia».
E invece non costerà nulla?
«Assolutamente no. L’aliquota della cosidetta Imu, quella che diventerà l’imposta municipale del futuro, non è comunque ancora fissata nella legge».
Quanto vale il federalismo municipale?
«È il secondo capitolo dopo quello delle Regioni che però hanno dentro la sanità. Ricordo che l’Italia ha 8.094 Comuni e la nostra Costituzione non fa differenze tra città come Milano e piccoli centri abitati».
E veniamo al punto centrale, la casa. Come verrà tassata?
«Scoveremo i furbi della prima casa, quelli che in famiglia intestano più immobili, così emergerà il vero numero dei secondi alloggi che verranno tassati con aliquota da stabilire. Poi cambieremo l’imposta sui trasferimenti di proprietà che passa dal 4 al 2% per la prima casa e dal 10 all’8% per la seconda».
Così si riducono le entrate…
«Si, ma si recuperano risorse evitando le distorsioni e le furbizie dei proprietari che finora hanno assimilato la seconda alla prima abitazione intestandola ai figli e ai parenti. Non mi chieda come, è ancora un segreto, ma abbiamo individuato un meccanismo che finalmente rende giustizia per impedire quella che è una forma di evasione fiscale».
Cedolare secca sull’affitto, riuscirà ad accontentare le richieste di Mario Baldassarri?
«Penso proprio di sì. La sua proposta di introdurre il contrasto di interessi è giusta. In pratica anche chi è in affitto potrà detrarre una parte del canone, penso a una cifra intorno ai 300 euro di partenza. In questo modo anche l’inquilino sarà invogliato ad avere un contratto regolare. Con queste due leve il nero dovrebbe emergere».
Si parla di una mancanza di gettito di un miliardo di euro…
«La copertura arriverà dal meccanismo che metterà giustizia tra prime e seconde case e dall’emersione dei contratti in nero, ci saranno entrate tali da coprire qualsiasi disavanzo dovesse creare l’introduzione della cedolare secca».
Conferma l’aliquota del 22-23%?
«Top secret. Sto lavorando a un altro schema in modo da non favorire i grandi proprietari di immobili, una specie di imposta progressiva. Aliquota diversa per i canoni concordati. Ma non posso dire di più. Comunque il vantaggio sarà non solo del proprietario ma anche dell’inquilino. E penso di inventarmi qualcosa pure per le famiglie. Con queste novità spero cadano le pregiudiziali di Baldassarri e delle opposizioni».
L’Udc sostiene che, al contrario di quanto lei ha detto ieri, nel decreto sul federalismo municipale non c’è il quoziente familiare.
«Infatti non c’è. L’Udc ha capito male: io ho detto che il quoziente familiare è dentro il decreto sulla fiscalità delle Regioni e delle Provincie approvato dalla conferenza unificata. Non è escluso che anche i Comuni possano favorire la famiglia. Qualcosa sulla cedolare secca come ho detto prima, ma non certo sulla seconda casa».
Da uno a dieci, che percentuali ha secondo lei di passare il federalismo municipale alla bicamerale?
«Direi otto. Tutto quello che potevo fare l’ho fatto. Ho anche messo dentro una stretta per fare emergere i due milioni di case abusive: chi non la denuncia entro febbraio dovrà pagare anche la tassa di registro che andrà ai Comuni a compensare i tagli della legge di stabilità».
Altre novità?
«Sì. Per evitare di avvantaggiare i Comuni turistici pieni di seconde case, come hanno giustamente osservato alcuni della commissione, ho pensato di non dare tutta la tassa sui trasferimenti ai Comuni ma solo una parte, il resto con un tributo più omogeneo per un minor utilizzo dei fondi perequativi».
Lei ha detto che ci vuole non solo il federalismo «ma anche una riforma fiscale che io e Tremonti abbiamo già in testa». Può essere meno misterioso?
«Non ho l’autorizzazione ad anticipare nulla. Posso dire che il federalismo fiscale ha senso se si inquadra in una riforma complessiva. E qui ci vuole una maggioranza davvero molto ampia e un nuovo clima politico perché è una riforma che coinvolge tutti».
Il clima non sembra dei migliori. C’è chi comincia a mettere sotto accusa il ministro Tremonti. La Lega reagirà?
«Qualsiasi strumento che non sia la politica, alla fine si rivela un boomerang come è successo con Fini. Utilizzare quella strategia contro Tremonti, che è il garante dei nostri conti pubblici, è addirittura demenziale». INTERVISTA DEL CORRIERE DELLA SERA AL MINISTRO CALDEROLI A CURA DI ROBERTO BAGNOLI, 9 GENNAIO 2011
No, non è razzismo. È amore. È amore per il Sud, per la dignità dei siciliani, per non restare impantanati nei vecchi errori, non vivere di assistenza, statalismo, posti pubblici pre elettorali, clientes e poltrone. Il governo democristofiniano in salsa rossa di Lombardo accusa i quotidiani del Nord di razzismo contro la Sicilia. Parla di campagna di fango. Non è questo. Semmai è il contrario. È salvare il Sud dalle tentazioni clientelari del Mpa. L’assessore alla Sanità della Regione, l’ex magistrato antimafia Massimo Russo, si sbaglia. Non c’è nessun piano politico. Non ci sono «padrini» e «servi sciocchi». Ci sono solo alcune domande e un po’ di cose che non tornano.
L’Italia sta faticando per tenere i conti pubblici sotto controllo. È dura. Ma è l’unica speranza per abbassare le tasse, soprattutto quelle sui salari, e tirarsi fuori da questa crisi melmosa. Il prezzo è alto. La cultura piange. Pompei frana. I poliziotti restano senza benzina. I magistrati si ritrovano con la rete informatica in tilt. I ricercatori dell’università, a torto o a ragione, salgono sui tetti. Gli statali bestemmiano sulla busta paga. Tremonti chiede sacrifici a tutti. Questa non è una scelta, ma una necessità. Poi si guarda in Sicilia e in Calabria e spunta un clima da festa pre elettorale.
Lombardo ha appena pubblicato un bando per 8.400 stagisti da impiegare per un anno, a 500 euro al mese, in enti locali, fondazioni e associazioni no profit. Il costo è di 6,5 milioni di euro. La notizia ha provocato la reazione di Brunetta, sindacati e industriali. Tutti parlano di precarizzazione e spese difficili da giustificare. Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana, ci va giù pesante: «La situazione è drammatica. Qui un giovane su due non lavora. Il problema non si risolve regalando un sussidio a chi ha frequentato le segreterie politiche, danneggiando tutti gli altri giovani. La migliore lotta alla mafia che la politica può portare avanti è abbandonare il sistema assistenziale e puntare sul mercato per creare lavoro stabile. Non servono mance e clientele».
È questo il punto. Uno legge quello che accade in Sicilia, fa i conti con la benzina dei poliziotti, e si chiede se c’è qualcosa che non funziona. Questa storia poi arriva dopo il bando per i 4.000 posti negli ospedali, la riduzione delle tasse e l’allargamento dell’esenzione del ticket. Quanti in Sicilia possono non pagare il ticket? Il 65 per cento. Non è razzismo. È che ti viene da farti certe domande. Chi paga tutto questo? L’assessore Russo si arrabbia e dice che questi nuovi posti sono frutto della gestione sana e virtuosa della sanità siciliana. In meno di due anni sono rientrati dal buco colossale del passato e ora hanno un cospicuo tesoretto da spendere. È vero che mancano infermieri, vero che Russo ha scelto la strada della trasparenza e che da 10 anni non si fa un concorso. Qualche dubbio però resta. Anche in Sicilia.
In redazione arriva la telefonata di un dirigente sanitario. È uno del Pd. Chiede di restare anonimo perché teme ripercussioni sul lavoro. Spiega quello che sta accadendo. «È strano, ma il governo siciliano prima di pubblicare il concorso doveva fare un bando di mobilità. Se ne è dimenticato». Di che si tratta? È un bando per dare la possibilità a chi fa il medico o l’infermiere ad Aosta, Bergamo o Salerno o qualsiasi posto extrasiciliano di chiedere il trasferimento. Prima di assumere giù, chiedete se nel resto d’Italia c’è qualcuno disposto a lavorare in Sicilia. È un modo per far tornare a casa gli emigranti. Il governo Lombardo ha fatto finta di nulla. Questo ha messo in fibrillazione i siciliani della diaspora. Temono che la dimenticanza serva a favorire le clientele. I quattromila posti, sospettano pensando male, sono già assegnati. Ma la lettura può anche essere un’altra. Lombardo sa che il concorso può essere impugnato. La dimenticanza però è un’arma in funzione elettorale. Spieghiamo. Se non c’è ricorso il leader del Mpa fa felici 4.000 persone. Se viene bloccato può dire a tutti i siciliani: vedete? Io volevo darvi il lavoro, il Nord razzista ve lo ha tolto di bocca. Se davvero fosse così sarebbe una miseria. È un dubbio, per carità. Ma una domanda resta: chi pagherà la festa siciliana del governo Lombardo? Questa volta tocca a lui.
……La Sicilia che si appresta a tanto nuovo spreco di denari pubblici è quella ora amministrata da una giunta, la quarta da che si è votato l’ultima volta, presieduta da Lombardo che fa tanto il superman e sorretta da UDC, PD e FLI. Proprio così, i partiti che a Roma stanno all’opposizione e tanto criticano il governo nazionale che non riduce le spese per sostenere l’economia che langue. In Sicilia, invece, mentre la economia va a rotoli, questi stessi partiti assumono a man bassa migliaia di persone destinare a diventare lavoratori precari che naturalmente pretenderanno poi dallo Stato nazionale di essere trasformati in dipendenti fissi. Chissà che ne pensano i siciliani Briguglio e Granata, i due pasaradan in spe (servizio permanente effettivo) trasformatisi in megafono del Fini moralizzatore a tempo perso. g.
Il ministro: riprenderemo una proposta di legge che giace in Parlamento. Lotta alle frodi.
I prezzi della Rc Auto sono «inammissibili» e il governo intende agire in fretta per arrivare a una «sensibile riduzione». Parola del ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, che dopo l’incontro con Ania e Isvap, individua in una proposta di legge che giace in Parlamento il veicolo giusto per centrare l’obiettivo, agendo sopratutto attraverso il contrasto delle frodi. L’incontro con l’associazione che riunisce le compagnie assicuratrici e con l’Autorità di settore era stato sollecitato dallo stesso Romani dopo che l’Isvap, la scorsa settimana, aveva scritto una lettera a Governo e Parlamento proponendo un pacchetto di misure messe a punto per arrivare a una riduzione delle tariffe del 15-18% nel medio periodo. Tra le proposte, il trattamento delle macro e micro lesioni e il contrasto alle frodi, ritenute una vera e propria piaga.
«Il governo – ha spiegato Romani al termine del tavolo – ritiene inammissibile che il costo medio della Rc Auto sia di 400 euro, contro i 200 del resto d’Europa», per questo «sono stati stabiliti alcuni punti su cui lavorare» per una riduzione sensibile che vada nella direzione descritta dall’Isvap. Lo strumento individuato per intervenire con rapidità è una proposta di legge, la 2699-ter, che è il risultato di una serie di accorpamenti di altri progetti di legge (che vedono tra i firmatari anche l’opposizione) e che prevede l’istituzione di un sistema di prevenzione delle frodi nel settore assicurativo. Il governo, ha annunciato Romani, potrebbe «avallarla come governo, in accordo con le opposizioni». Per questo il ministro incontrerà la prossima settimana i parlamentari che lavorano alla proposta. Se non fosse possibile percorrere questa strada, invece, l’esecutivo potrebbe «inserire alcune norme nel ddl concorrenza». Il ministro ha puntato il dito sul «problema gigantesco delle frodi.
«In Italia ci sono oltre 4 milioni di sinistri contro i 2,1 milioni della Francia. È una realtà tipica che dobbiamo affrontare». È stato il presidente dell’Ania, Fabio Cerchiai, a caldeggiare l’istituzione dell’Agenzia antifrode, osservando che «sono i costi dei sinistri a essere inammissibili, e non i prezzi». Il numero uno dell’Isvap Giancarlo Giannini ha comunque ribadito che il calo del 15-18% «è possibile», aggiungendo che è necessario il «potenziamento delle reti delle liquidazioni dei sinistri da parte delle compagnie». Il Tempo, 5 gennaiio 2011
……….Se il Ministro Romani non si rimangerà ciò che ha dichiarato e andrà avanti sulla strada di imporre alla lobby delle Assicurazioni l’obbligo di rivedere – abbassare e di molto - non solo il costo della RC ma anche la politica di perseguire solo il profitto infischiandosene dei diritti degli automobilisti, fermo restando, ovviamente, la lotta alle frodi e ai malfattori che le praticano, siamo disponibili a perdonare al Ministro la recente decisione di aumentare il canone TV, balzello fra i più ignobili imposti agli italiani che possono scegliere il calzolaio ma non il medico e il canale TV da seguire. g.
Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic, l’Associazione dei quadri Fiat e il Lingotto hanno firmato il nuovo contratto di lavoro per i 4.600 dipendenti dello stabilimento Fiat di Pomigliano, che a partire da gennaio 2011 saranno riassunti dalla Newco, sulla base dell’accordo di giugno che sblocca investimenti per 700 milioni per la produzione della nuova Panda
La sigla e’ arrivata dopo una stretta finale iniziata ieri e continuata oggi presso la sede romana della Fiat. Alla trattativa non ha preso parte la Fiom che non aveva firmato l’accordo del 15 giugno. Le novita’ del contratto siglato oggi, secondo fonti sindacali, riguardano: l’incremento salariale, che con un il rialzo medio si dovrebbe attestare a 360 euro lorde l’anno a regime (30 euro lorde al mese); l’altro aspetto e’ relativo alla semplificazione dell’inquadramento professionale (da sette a cingue gruppi), con fasce intermedie all’interno dei gruppi per facilitare gli avanzamenti professionali. Quanto alle relazioni sindacali, si apprende sempre da fonti sindacali, viene seguito il modello di Mirafiori, che esclude dalla rappresentanza chi non ha sottoscritto l’accordo. La produzione a Pomigliano, riferiscono le organizzazioni dei lavoratori, dovrebbe entrare a regime tra fine 2011 e inizio 2012.
Stiamo facendo un lavoro molto importante sui minimi tabellari, le cifre sono significative e penso che sicuramente avremmo almeno una tranche di aumento contrattuale da subito, dal primo gennaio”. E’ quanto afferma il segretario generale della Uilm Campania, Giovanni Sgambati, a margine dell’incontro tra sindacati e Fiat sul nuovo contratto per lo stabilimento di Pomigliano. Riguardo agli aumenti salariali, il sindacalista spiega: “il vero aumento vale all’incirca 30 euro, ma gli effetti sui minimi tabellari sono molto significativi, riguarderanno anche 100 euro di differenza tra un lavoratore dello stabilimento di Pomigliano e un altro lavoratore metalmeccanico”. . “La cosa importante è che da gennaio i primi lavoratori di Pomigliano rientreranno dalla cassa integrazione e saranno assunti”. Lo ha detto Vitali, a margine dell’incontro tra sindacati e Fiat sul nuovo contratto per lo stabilimento di Pomigliano.
La FIOM -CGIL non ha firmato il contratto e ha indetto uno sciopero generale di otto ore per gennaio. Con questa decisione la FIOM si mette contro i lavoratori e conferma di essere ormai fuori dalla storia e dalle nuove logiche delle relaizoni sindacali.
In Puglia nuovo ticket di un euro sulle ricette e tasse più alte sulla benzina. Il leader della sinistra diventa il campione dei prelievi sui cittadini.
Un bilancio «lacrime e sangue». La definizione è del governatore Nichi Vendola. La Puglia ha approvato nella notte di martedì una manovra finanziaria che segna l’introduzione del ticket sulle ricette mediche per tutti, senza distinzione di reddito, e l’elevazione dell’accisa sulla benzina di 2,5 centesimi per litro. Arrivando, nei distributori, a costare oltre un euro e mezzo. La maggioranza di centrosinistra ha giustificato l’adozione di provvedimenti fortemente impopolari con la teoria della «coperta corta», illustrata dall’assessore al Bilancio, il democratico Michele Pelillo, che ha scaricato le responsabilità sui tagli ottemperati dal governo nazionale. E mentre l’assessore alla Salute, Tommaso Fiore (un tecnico di area Sel), ha già dato comunicazione ai direttori generali delle Asl dell’arrivo del ticket «fisso a ricetta pari a 1 euro a carico di tutti i cittadini pugliesi, esenti e non», l’opposizione di centrodestra ha acceso i riflettori sul dato politico che influirà sulle tasche dei cittadini. «Dopo sei anni di governo Vendola – ha argomentato il capogruppo del Pdl Rocco Palese – i pugliesi si ritrovano tartassati, con ospedali da chiudere, servizi sanitari limitati all’emergenza, totale assenza di controllo della spesa sanitaria e perseveranza politica nel voler andare avanti così. È evidente che siamo dinanzi ad un fallimento politico ed amministrativo imputabile a chi continua a governare all’insegna di una eterna campagna elettorale».
La sintesi di Nino Marmo, vice presidente del Consiglio regionale del Pdl, non lascia spazio a dubbi: «Vendola è stato costretto ad alzare le tasse perché negli anni passati ha agito da perfetto scialacquatore. Soprattutto non è riuscito a venire incontro alle categorie più deboli e meno garantite: è rimasta invariata, infatti, l’imposta sul gas metano, un balzello che tocca da vicino le tasche di tanti anziani e giovani pugliesi». Il governatore e leader di Sel ha parlato di una manovra «da dopoguerra, in equilibrio tra ciò che è emergenza e ciò che è sviluppo», mentre l’assessore al Bilancio Pelillo, si è difeso spiegando che «l’accisa sulla benzina è stata stabilita per finanziare il fondo per la non autosufficienza. Non abbiamo, però, toccato Irpef e Irap». Da destra la replica punta dritto al buco registrato dalla Giunta nella Sanità. «Basta con questa filastrocca del Bilancio pugliese condizionato dai tagli statali. Gli amministratori del centrosinistra – ha ribattuto Palese – devono prendersi le proprie responsabilità: qui il disavanzo sanitario nel 2010 si è attestato sui 400 milioni di euro».
Alle critiche severe del Pdl, nei giorni scorsi si sono aggiunte le recriminazioni degli esponenti della maggioranza: Michele Mazzarano del Pd e Aurelio Gianfreda del partito di Di Pietro hanno fatto pesare il proprio voto favorevole chiedendo in cambio maggiori risorse per gli ospedali presenti nei territori nei quali sono stati eletti (tra Taranto e Lecce). Infine sono stati rigettati tutti gli emendamenti migliorativi promossi dal centrodestra: «Volevamo ripristinare un sistema di controllo e legalità nelle Asl e nell’intero sistema sanitario pugliese – ha puntualizzato Palese facendo riferimento ai recenti scandali della Sanitopoli – ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto invano anche di ridurre le spese di rappresentanza e comunicazione per investire nel diritto allo studio, nei servizi sociali e nella lotta contro le nuove povertà». La conclusione del capogruppo del Pdl è amara: «Insomma senza nessun ostruzionismo abbiamo cercato di tradurre in atti e fatti concreti le migliaia di promesse elettorali di Vendola e della sinistra. Ma senza alcun successo». Michele De Feudis, Il Tempo, 29 dicembre 2010
….Vendola, il campione dei poveri, per sanare il buco della saniutà da lui stesso provocato nei cinque anni precedenti, nel corso dei quali gha scialacquato a piene mani regalando soldi a destra e a manca, sopratutto, anzi, soltanto a manca, ha varato per il 2011 un bilancio di lacrime e sangue a danno dei contribuenti meno fortunati. Ovviamente dirà che la colpa è del govenro. Ma la colpa è soltanto sua che ha dilapdato centinaia di milioni di euro nella sanità per arrivare al punto di partenza, cioè la necessità di organizzare una sanità che tagliasse i rami secchi per offrire una assistenza migliore ai cittadini pugliesi. Se lo acvesse fatto cinque anni fa, sulla scia delle scelte fatte dal presidnete Fitto, oggi non saremmo alle “lacrime e sangue” di colore vendoliano. Come tutti i robespierre, ora Vendola se la prende con tutti meno che con se stesso. Ma farà la stessa fine (metaforica) del robespierre della rivoluzione francese. g.
ILTORITTESE è un sito indipendente di fatti, notizie, cronaca, politica e cultura.
Le news sono divise in sezioni, accessibili tramite il menu a destra.
Chiunque può scrivere al sito attraverso il tasto “contattaci” sopra.