Archivio per la categoria ‘Giustizia’

CLIMA DI ODIO E MANETTE: PAPA PAGA PER TUTTI

Pubblicato il 23 settembre, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Il rappresentante del popolo Alfonso Papa sta ancora sotto chiave in una cella di Poggio­reale e i magistrati che ne hanno preteso l’arresto, autorizzato dal Parlamento per la prima volta nel­la­sua storia per reati che non fosse­ro di sangue, dicono che non pos­sono concedergli gli arresti domi­ciliari perché quel tristo deputato, con le sue arti e la sua scaltrezza diabolica, se si trovasse a vive­re fra il salotto e la cucina di casa sua, saprebbe manipolare le prove. Diavolo d’un uo­mo. La sua abilità, e la paura che ispira, mi ri­cordano quella canzon­cina dialettale che esiste in tutte le versioni regionali e che dalle parti mie suona così: «Una sorcaccia intrepida nel mio camino entrò, tutta la notte rosica la cassa ed il comò.

In tredici o in quattordici l’annassimo a cercà, co li fucili carichi dove la bestia sta. Sentite che fece quella be­stiaccia: ci saltò in faccia e ci fece scappar, sentite che fece quella bestiaccia: ci saltò in faccia e ci fece scappar». Così mi sembrano questi intrepidi magi­strati che ottengono dal Parlamento della Repubblica ciò che mai fu concesso prima da un Parlamento della Repubblica: la con­segna di un membro eletto delle Camere dal sovrano elettore, perché possa essere privato non soltanto della sua libertà perso­nale, ma della possibilità di assolvere i suoi doveri, ma che dopo due mesi fa ancora una enorme paura, tanto che lo devono te­nere rigorosamente chiuso in gattabuia, es­sendo poco sicuri delle prove raccolte.

E qui un inciso, anzi una domanda: ma chi l’ha detto che a un deputato in carcerazione preventiva (perché di questo stiamo parlan­do e non di espiazione di una pena) possa es­sere sequestrato il diritto-dovere di votare le leggi secondo il mandato dei suoi rappre­­sentati, magari per via telematica dalla gat­tabuia in cui si trova? Dove sta scritto che la funzione dell’eletto decade se questi è mo­mentaneamente privato della libertà e non per espiare una condanna? I magistrati, come gli intrepidi cacciatori della canzoncina popolare, dopo due torri­di mesi estivi che certamente non avranno passato sotto l’ombrellone ma chiusi nei lo­ro uffici, hanno dunque ancora paura che Papa possa inquinare le prove. Il che vuol di­re, se la logica non viene meno, che ancora non hanno messo insieme uno straccio di fascicolo con prove solide e non più inqui­nabili. Ma che discorso è questo? O questi funzionari dello Stato non sanno fare il loro mestiere, che è quello di mettere insieme prove non inquinabili, oppure hanno altro in mente.

Qui non parlo da giornalista, ma da deputato: e da deputato ho l’obbligo di decidere se siamo di fronte a richieste com­pre­nsibili o se c’è anche il fumus persecutio­nis che va al di là delle esigenze di giustizia. Ed è francamente incomprensibile che do­po due mesi ancora si giustifichi la galera con il possibile inquinamento delle prove. E questo dubbio si fa molto più solido di fronte all’allegra e spensierata sorte capita­ta al senatore del Pd Tedesco che se ne va li­bero e bello dimostrando che esistono due pesi e due misure. Fino al caso di Papa il Parlamento non aveva mai concesso l’arresto di un suo membro, salvo che per fatti di sangue, ma in realtà neanche per quelli perché i deputati da arrestare si erano già rifugiati all’estero. Ma dall’arresto di Papa e nell’orrido clima che sta montando, siamo passati ieri a vota­re la richiesta di un altro arresto preventivo per il deputato Milanese, non concesso per motivi politici e non di principio, ma con la partecipazione di sette franchi tiratori della maggioranza che hanno votato per le ma­nette.

Questo dimostra che anche tra le for­z­e politiche si è perso il principio democrati­co di tutela del Parlamento come bene del popolo, il quale popolo è stato invece riedu­cato a dosi massicce di odio e ad applaudire gogne, forche e galere preventive». È l’aggettivo «preventivo» che fa la diffe­renza: se si trattasse di concedere l’arresto di un deputato condannato definitivamen­t­e dopo un processo che lo avesse dimostra­to colpevole, non ci sarebbero questioni. Ma ora si gioca tutto sull’umiliazione della sola maggioranza e questo obiettivo preve­de appunto l’uso mediatico della galera «preventiva» che, diversamente dalla legge che è uguale per tutti, è invece uguale soltan­to per alcuni, come si è visto dal caso del se­natore democratico Tedesco. Siamo dun­que all’uso di gesti di grande impatto emoti­vo, come ai tempi di Mani pulite, di cui sta per celebrarsi il ventesimo anniversario.

Allora una serie di sedute mediatiche nel tribunale di Milano, con Antonio Di Pietro nelle vesti del mattatore, decapitarono la Repubblica di tutti i partiti democratici che l’avevano fatta nascere e crescere,aprendo la strada alla cosiddetta seconda Repubbli­ca, nata dalla disperazione e dalla delegitti­mazione della prima. Ora si dovrebbe dire che tira aria di terza Repubblica, ma non è più il caso di giocare con le parole: il clima è quello di una messa in stato di arresto virtua­le e occasionalmente materiale del Parla­mento, facendo leva sull’impatto di inter­cettazioni che spesso non hanno nulla, dal punto di vista della raccolta di prove per la contestazione di reati, a che vedere con la giustizia ma molto con i titoli dei giornali. Quell’impatto viene cercato con accani­mento e con spesa di denaro pubblico fino­ra mai visti e suggeriscono l’immagine di una gigantesca caccia alla volpe: Berlusco­ni (e i suoi) con tutte le enormi magagne e imperdonabili imprudenze, è diventato il «cinghialone numero due»,essendo stato il primo Bettino Craxi.

Questa caccia al cin­ghiale è costosissima e richiede mille schioppi, mille cani, mille forconi e un eser­cito di inservienti in livrea che suonano le trombe e i corni. In questo panorama, il deputato Papa re­sta, come dicono nella Capitale, al gabbio perché le prove sulle sue malefatte, le stesse usate per chiedere con clamore il suo arre­sto, dopo due mesi non sono ancora di ma­­teriale solido, ma informe, manipolabile al punto che lo stesso Papa, se fosse agli arresti domiciliari, potrebbe farne palline del tipo di quelle levigate dai laboriosi stercorari, quei coleotteri che sono specialisti nell’arte di dar forma ai rifiuti organici. E questo ci sembra inaccettabile, ingiustificabile e in­credibile. Il giornale, 23 settembre 2011

CASO TARANTINI: LA COMPETENZA E’ DI ROMA, E ORA CHI PAGA?

Pubblicato il 21 settembre, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

E adesso chi paga? Il duo Woodcock-Lepore non aveva titolo per indagare sul trio Berlusconi-Tarantini-Lavi­tola, caso che peraltro non esiste mancando la parte le­sa. La marea di telefonate spiate, sbobinate e consegnate ai giornali sono frutto di una illegalità, e non ci voleva la sentenza emessa ieri dal Gip per capirlo. Noi che non abbiamo studiato legge lo avevamo scritto il primo giorno: se i fatti sono avvenuti tra Bari, Roma e Milano, che c’entra la Procura di Napoli? Nul­la, appunto. Altro che accompagnamento coatto di Berlusco­ni.

Ma agli zelanti Pm che importa, l’obiettivo politico e media­tico, complici stampa e tv, è raggiunto. Sul campo restano le devastazioni all’uomo Berlusconi,violentato nel suo privato, e qualche milione di euro bruciato per via del trambusto pro­­vocato sui mercati dall’ipotesi di un premier in manette, sacri­ficato sull’altare dell’arroganza di magistrati arrivisti, e di com­mentatori faziosi e in malafede. Questa, in ordine di tempo, è soltanto l’ultima di una lunga serie di bravate e furbate della magistratura di parte. Perché neppure il più sprovveduto di noi poteva non sapere come sarebbe andata a finire l’inchie­sta di Napoli, nata sull’imbroglio del premier intercettato ille­galmente, cioè senza l’autorizzazione del Parlamento. Mancava il reato, mancava la competenza.

Solo chiacchie­re al telefono che se ascoltate casualmente ( non si capisce co­me) avrebbero dovuto incanalarsi in ben altri percorsi giudi­ziari, nei quali sarebbero state trattate con diversa cautela. Co­me quella, per esempio,adottata dal procuratore di Bari sul ca­so D’Addario e che ora, proprio per avere usato le pinze, si tro­va indagato. Già, perché chi non chiede l’arresto del premier al primo squillo di escort, chi non spiattella intercettazioni an­cora calde di telefono alla stampa, deve per forza essere com­plice del presidente del Consiglio e della sua banda di malfat­tori.

Eppure non sempre i Pm cauti finiscono sotto inchiesta. Per esempio, non una escort o un faccendiere ma l’allora sin­daco di Milano, Gabriele Alber­tini (oltre a questo Giornale ), sei anni fa segnalarono con forza alla Procura di Milano che l’acquisto delle quote Serravalle da parte di Pe­nati, leader della sini­stra, era molto ma mol­to sospetto. Bene, che fece la Procura? Nulla, che è molto meno di es­sere cauti. Semplice­mente girò lo sguardo dall’altra parte. Oggi, sei anni dopo, sappiamo che quella vicenda era uno scandalo enorme: tan­genti all’area Pd, sper­pero di soldi pubblici.

Quei procuratori e i lo­ro vice sono stati forse puniti, indagati per ma­nifesta complicità o in­capacità? Macché, so­no al loro posto, come se nulla fosse. Nel frat­tempo però la stessa Procura ha prodotto ol­tre centoventimila in­tercettazioni sul caso Ruby e sugli ospiti priva­t­i di Berlusconi ad Arco­re. Prenderanno pure una medaglia. Quella giusta sarebbe di tolla, come la loro faccia. Il Giornale, 21 settembre 2011

PROCESSO LAMPO PER IL CAVALIERE

Pubblicato il 20 settembre, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

DI DAVIDE GIACALONE

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi Vita politica e vicende processuali sono indissolubilmente connesse, e già questo descrive un male profondo della vita italiana. Sia per la politica che per la giustizia. Si può sostenere che questo discende dalle colpe di Silvio Berlusconi, oppure dal tentativo, che si trascina da diciassette anni, di farlo fuori per via giudiziaria, ma quale dei due punti di vista si adotti, il risultato è che ci tocca occuparci di processi penali anziché di processi decisionali. Chi, come noi, ha a cuore sia il diritto che l’autonomia della politica, chi sa che, in una democrazia e in uno Stato di diritto, non si deve mai essere costretti a scegliere fra la legittimità che deriva dal consenso popolare e la regolarità che discende dal rispetto della legge, cerchi, almeno, di non perdere la bussola. Cominciamo dal processo Mills, che ieri s’è avvicinato alla sentenza. Di una cosa sono sicuro: avrà un posto nei libri di diritto. Un giorno si chiederà agli studenti di legge di riferire su come sia stato possibile processare in due sedi e tempi separati i protagonisti di un reato che il codice vuole a “concorso necessario”: non può esserci un corrotto senza un corruttore, e viceversa. Un tempo, quando era reato l’adulterio, anche quello era un reato a concorso necessario, perché non si può tradire da soli. Vi pare pensabile che si condanni uno per avervi preso parte senza sapere con chi giacesse? È quel che è successo: l’avvocato Mills è stato condannato quale corrotto, e ora, dopo anni, si cerca di capire se Silvio Berlusconi era il corruttore. Se dovesse essere assolto (ipotesi che non si può escludere, o no?), Mills resterà da solo. Una specie di adulterio mediante onanismo. Ecco, avendo alle spalle una tale premessa, ieri il collegio giudicante, in quel di Milano, ha ridotto significativamente la lista dei testimoni. Così si arriva prima alla conclusione. Ridurre i testimoni è una facoltà di chi giudica. Non è sbagliato: se un Tizio viene derubato all’Auditorium e l’avvocato di Caio, presunto ladro, pretende di sentire tutti i presenti quali testimoni è ragionevole che gli si dica di no. Bastano quelli in grado di dare dettagli rilevanti. Ma quando un collegio giudicante cancella dei testimoni sa di correre un rischio, perché se la difesa potrà dimostrare, in Cassazione, che i suoi diritti sono stati violati e il proprio lavoro reso impossibile, la sentenza diventerà carta straccia. Quindi si deve fare attenzione. C’è stata, ieri, a Milano? Non lo so, ma so che non sarebbe servita a nulla, perché la sentenza, quale che sarà il contenuto, è già in partenza carta straccia, visto che il procedimento è destinato a sicura estinzione per prescrizione. Allora, perché si corre? Per arrivare a concludere il primo grado, a beneficio esclusivo dei mezzi di comunicazione. Berlusconi non sarà mai condannato in via definitiva, è escluso, e non perché innocente (non lo so, non c’ero), ma perché il processo è già morto. Lo si celebra a solo beneficio del pubblico. Cambiamo città, andiamo a Napoli, inesauribile fonte di sollazzo telefonico e d’intrusione per via giudiziaria. Qui le cose sono più bislacche, anche in omaggio alla tradizione partenopea: non si ha idea del perché quella procura si senta competente. A parte ciò, gli atti di un’inchiesta sono considerati coperti da segreto anche durante l’udienza preliminare, e restano riservati se poi divengono atti di un futuro processo. Questo dice la legge. Un parlamentare non si può intercettare, se non con l’autorizzazione del Parlamento. Questo dice la legge. Ma nessuno la legge, la legge. Così tutte le telefonate possono essere pubblicate, perché dal momento che vengono messe a disposizione delle parti non si sa più chi le abbia passate alla stampa. Voi dite che è stata la difesa del pappone industriale? A me pare difficile. In quanto alle conversazioni di un parlamentare, presidente del Consiglio, non è lui che intercettano, ma quelli con cui parla. E non è una barzelletta, ma la tesi della procura. E non basta, perché i giornali di ieri titolavano: scaduto l’ultimatum della procura. L’ultimatum? Siamo in guerra? Intanto il giudice dell’udienza preliminare manda prosciolti tutti gli imputati del processio “Cassiopea”, più noto per avere ispirato Gomorra. Traffico di rifiuti tossici. Il proscioglimento è un doppio veleno dell’ingiustizia: i colpevoli fanno marameo e gli innocenti resteranno marchiati a vita. Ma chi se ne importa, i riflettori puntano altrove, oramai. Da quella parte c’è una presunta parte lesa che non si sente lesa, essendo, in realtà un potenziale imputato, cui si nega la presenza degli avvocati all’interrogatorio. E c’è chi sostiene, come fa Carlo Federico Grosso, che se la difesa lo vuole «imputato in procedimento connesso» questa è, di fatto, una confessione. Roba che neanche alla santa inquisizione. Tutto questo per dire: sono procedimenti fatti a mezzo stampa e per la stampa. Siamo l’unico Paese al mondo in grado di pubblicare le conversazioni di chi governa, sputtanandolo. Siamo gli unici in grado di demolire da sé soli una propria multinazionale. Può darsi che se lo meritino, ma non ce lo meritiamo noi. A me piace un mondo in cui i colpevoli vanno in galera, mi piace assai meno un Paese prigioniero dei processi.

Davide Giacalone, il Tempo, 20/09/2011

L’”ORACOLO” TARANTINI E’ CREDIBILE CONTRO BERLUSCONI, INATTENDIBILE CONTRO MURDOCHMURDOCH

Pubblicato il 19 settembre, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Le intercettazioni non sono tutte uguali, non tutti i verbali hanno lo stesso peso e lo stesso valore. Ci sono carte che non vengono neppure protocollate, altre che rimangono sepolte per anni nell’armadio di qualche procura, altre che escono e non vengono pubblicate, e altre ancora che conquistano all’istante l’onore della prima pagina e la patente della verità. Nella fattoria degli animali giustizialisti, queste carte sono più uguali delle altre, perché contengono il nome di Silvio Berlusconi (come un tempo quello di Bettino Craxi).

Attenzione, però: queste carte da prima pagina non documentano mai un reato. Sono particolarmente odiose perché non ci aiutano affatto a capire come stanno veramente le cose, ma, al contrario, spostano l’attenzione sul carattere, sugli stili di vita, sulle scelte private della persona, trasformando l’inchiesta in una pubblica e irrevocabile sentenza morale molto prima che un’eventuale sentenza giudiziaria stabilisca la verità dei fatti. In questo modo, tuttavia, il diritto di cronaca e il diritto all’informazione sono asserviti alla propaganda e alla battaglia politica, di cui diventano pedine più o meno consapevoli, mentre la giustizia sempre più frequentemente è considerata dalle parti in lotta l’opposto di ciò che dev’essere: un’espressione di partigianeria.

Eppure le intercettazioni e i verbali fanno bene alle copie e allo share, e sebbene personalmente continui a non capire come sia possibile un tale scempio del primo diritto naturale dell’uomo, quello alla privatezza, c’è da aspettarsi che il fiume di carte non diminuirà né oggi né mai. Lette con voce grave da uno speaker o sceneggiate come una telenovela, protagoniste di sit-com e ricostruzioni più o meno brillanti, le carte delle inchieste dopo i giornali hanno ormai stabilmente conquistato anche l’etere, e ancor più il satellite.
Non si può certo incolpare Sky di spettacolarizzare le intercettazioni ad uso dei propri telespettatori, visto che, chi più chi meno, tutti hanno una bella trave negli occhi. Però si potrebbe chiedere a Sky (come ad ogni altro editore) qual è il criterio di verità che decide se un verbale sia credibile oppure no. Se si sceglie di pubblicare tutte le carte, attribuendo loro implicitamente il crisma della verità, non possono poi esserci eccezioni. Viceversa, se si dichiara formalmente che una carta dice il falso, buon senso vuole che ci si interroghi anche sulla verità delle altre.

Come sanno i lettori del Giornale, che ne ha pubblicati ieri alcuni estratti, un verbale di Gianpaolo Tarantini (interrogatorio del 6 novembre 2009) contiene fra le altre questa affermazione: «Dopo che era esploso lo scandalo D’Addario, ero stato contattato anche da Murdoch che mi aveva proposto un contratto miliardario che avevo rifiutato (…)».

Sky ha subito smentito seccamente di «aver mai offerto compensi in qualsiasi forma, tantomeno improbabili “contratti milionari”, allo stesso Tarantini così come a chiunque altro, allo scopo di ottenere notizie, interviste e informazioni su alcuno».
Ciascuno è libero di credere a «Gianpi» o a Sky: il primo è oggetto di varie inchieste, e prudenza suggerisce di prendere con le molle ogni sua affermazione (e non soltanto quelle su Murdoch); Sky produce uno dei migliori telegiornali d’Italia, ma è pur sempre parte dello stesso impero mediatico di News of the World, costretto alla chiusura proprio per un uso spregiudicato e illecito delle intercettazioni. Ad ogni modo, la smentita è valida fino a prova contraria.

Ma il punto non è affatto questo. Nei tanti interrogatori e nelle tantissime intercettazioni può esserci qualsiasi cosa: la notizia di un reato o un depistaggio, una battuta innocente o un’esagerazione, una menzogna intenzionale o una verità soltanto soggettiva. I verbali non sono fotografie di fatti, ma regesti di opinioni: quello che io dico al telefono o al pm che mi interroga non è un fatto, ma il racconto di un fatto – che potrebbe essere reale o inventato, uguale o diverso dal mio racconto. I processi, del resto, servono proprio a questo: a trovare le prove di colpevolezza (e non, come qualcuno vorrebbe farci credere, quelle di innocenza). Senza le prove, una frase è una frase: flatus vocis. Quando si parla di Murdoch, e quando si parla di Berlusconi. Il Giornale, 19 settembre 2011

ULTIMATUM SCADUTO PER SILVIO

Pubblicato il 19 settembre, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Mentre scrivo, è scaduto da sette minuti l’ultimatum della Procura di Napoli. Sono le 20.07, è partito il conto alla rovescia per l’accompagnamento coatto del fellone di Palazzo Chigi minacciato qualche giorno fa dalla buoncostume vesuviana. Le telefonate hard ci sono, lo sputtanamento pure, Arcore è circondata, la Arcuri è santa ma forse no, fuori i reggicalze, tutti dentro. È un’inchiesta Wonderbra e come in tutte le meraviglie ci sarà il colpo di scena. Vedremo i carabinieri giungere da Napoli con ordini perentori? No, prima le toghe dovranno chiedere l’autorizzazione alla Camera per ascoltare quella che per convenienza investigativa chiamano «la vittima» ma la trattano da imputato. L’Unione delle Camere Penali ha definito bene la scena: «Giocano al gatto con il topo». E saremmo la culla del diritto. Dentro Papa, fuori/dentro Milanese e ora l’attesa per la richiestona che taglia la testa al toro di Arcore, l’accompagnamento coatto di Silvio.
Quando il voyerismo e la pornografia da B-movie diventano atto giudiziario, siamo alla frutta congelata. Berlusconi ci prova, se ne infischia di tutelare la sua vita privata, fa casino. Non sono disponibili filmati (chissà, in futuro), abbiamo solo letto e ascoltato. Basta e avanza per dire che è un pasticcione. Ma ridicolo è anche il gruppo di Interceptor alla Pummarola che ascolta, mette nero su bianco un copione da Edwige Fenech e Alvaro Vitali e non si fa neppure sfiorare il cervello dal dubbio che lo scosciato pedinamento istituzionale e prostituzionale è un boomerang che dirotta il Paese verso la lotta tribale. Nessuna ragion di Stato. A Napoli traboccano di camorristi, ma vuoi mettere l’emozione di occuparsi di un’inchiesta sulla cui competenza territoriale incombono dei legittimi dubbi? Verbali desnudi. Altro che rating, spread, default. Chissenefrega, il dizionario in procura non è quello finanziario: vai col fetish. Coatto, mi raccomando. Mario Sechi, Il Tempo, 19 settembre 2011


PRIGIONE E LIBERTA’, di Davide Giacalone

Pubblicato il 15 settembre, 2011 in Giustizia, Il territorio | No Comments »

Marco Milanese Se il parlamentare Marco Milanese deve restare libero perché il parlamentare Alfonso Papa è carcerato? E se Papa si trova in galera, perché il parlamentare Alberto Tedesco siede al suo posto in Senato? Il tentativo di mascherarsi dietro la “libertà di coscienza” è ridicolo. Le forze politiche che vi ricorrono mostrano di mancare di responsabilità, oltre che di vergogna. I singoli parlamentari che se ne fanno scudo dovrebbero ricordare che una coscienza si dovrebbe averla, per volerla libera. Quando fu concesso l’arresto di Papa, con il determinante voto leghista e l’entusiasmo della sinistra, descrissi la scena come orrida. Non intendevo certo difendere Papa. Lui, come Milanese e Tedesco, mi paiono politicamente indifendibili. Una responsabilità per chi li ha candidati. Ma in gioco era ed è l’istituzione Parlamento, sicché l’arresto di un suo componente può essere concesso solo davanti a fatti gravissimi e conclamati. L’autorizzazione parlamentare non è una specie di primo processo, non concederla non significa considerare innocente il soggetto, ma un istituto a difesa dell’autonomia e sicurezza del Parlamento. Votandosi sulla sorte di una persona è chiaro che il voto è segreto, ma deve essere pubblica la motivazione, deve essere noto il ragionamento svolto da ciascuna forza politica, altrimenti si scade nella complicità e nel killeraggio. Su che votano, i colleghi parlamentari? Su casa sarebbero libere, le loro coscienze? Rispondono: sull’esistenza o meno del fumus persecutionis. Vale a dire sull’ipotesi che ci sia in atto un disegno persecutorio, da parte della procura. E Milanese sarebbe un perseguitato, mentre Papa no? Sarebbe un perseguitato Tedesco, che i suoi compagni di sinistra non ebbero il coraggio di difendere e che, con immensa ipocrisia e falsità, chiese lui stesso d’essere arrestato? Non scherziamo. La verità è che su Papa la sinistra mostrò d’essere forcaiola con gli avversari e garantista con sé stessa (cosa che capita anche ai parlamentari e alla pubblicistica di destra, perché se c’è una cosa poco diffusa, dalle nostre parti, è la cultura del diritto), e la Lega si prese una bella vacanza giustizialista, in modo da tornare nelle piazze e nei bar di casa e cercare di riprendere il posto e il tono di un tempo. Peccato che quella vacanza, ora, produce l’impossibilità di spiegare perché un altro parlamentare, per giunta amico di un loro amico (Giulio Tremonti), debba essere salvato. Il prossimo 22 settembre ci sarà il voto in Aula. Correggano il tiro e provino a dire qualche cosa di decente: no, non concediamo l’arresto di Milanese perché non si sottrae un membro al Parlamento senza che vi sia alcuna reale esigenza cautelare e senza che ricorra neanche uno dei motivi per cui un cittadino può essere privato della libertà, ma aggiungiamo anche che la custodia cautelare non deve mai essere uno strumento d’indagine, vale a dire di ricatto, e che il nostro voto a difesa di Milanese prelude ad una seria riforma, che la finisca con la sistematica violazione dell’articolo 275 del codice di procedura penale, talché nelle carceri italiane soggiornano troppi cittadini che la Costituzione c’impone di considerare innocenti. Un gesto tardivo, che giungerebbe nella fase terminale di una legislatura ulteriormente fallimentare nell’assicurare giustizia agli italiani, ma pur sempre il segno che, almeno, si è in grado di capire qual è la posta in gioco. Non lo faranno, sicché saranno libere le loro coscienze, ma anche il nostro giudizio. Pessimo. Il Giornale, 15 settembre 2011

.………….Come non essere d’accordo con quanto scrive Giacalone che sull’argomento è tornato più volte? Come non rimanere stupefatti dinanzi a decisioni che vengono prese volta a volta senza che nessuno nel Parlamento  abbia titolo per condannare chicchessia al carcere senza processo? Anche a noi dell’on. Papa poco ci importa, ma siamo d’accordo con Giacalone quando afferma che la questione è di principio e, peraltro, in sintonia con i Padri Costituenti che vollero garantire ai deputati una sorta di difesa dalla possibile ingerenza della Magistratura e che se vengono invocati come Santi un giorno si e l’altro pure per la Carta Costituzionale che si vorrebbe “intoccabile” non si capisce perchè solo per l’art. 68 della Costituzione avrebbero sbagliato. E lo stupore  è rinvigorito dalla notizia che un gip milanese, il cui nome da oggi diventerà un altro totem per la difesa della “legalità repubblicana”, ha chiesto il rinvio a giudizio di Berlusconi per il reato di “concorso nella rivelazione di segreto d’ufficio”. Nulla di nuovo sotto il sole si dirà, visto che questo processo, se rinvio ci sarà,  non farà altro che allungare il numero dei processi a carico di Berlusconi. Ma questo ha una particolarità, anzi due. La prima è che il pm titolare dell’inchiesta aveva chiesto l’archiviazione non avendo riscontrato alcun reato nel fatto che Berlusconi avesse ascoltato il nastro della intercettazione dell’ex n. 1 della Unipol, Consorte, nel corso della quale Consorte informa Fassino della scalata dell’Unipol al sistema bancario italiano. Nonostante ciò, il gip non ha accolto la richiesta e ha ordinato al pm il rinvio coatto a giudizio di Berlusconi perchè “è storicamente provato che avesse sentito il nastro della conversazione che glie era stato regalato”. La seconda particolarità è costituita, oltre che dal fatto che diviene reato l’aver ricevuto  in regalo la registrazione di una intercettazione telefonica,  dalla rivelazione  in se di una intercettazione telefonica che tra l’altro non è direttamente imputabile a Berlusconi,  in un Paese nel quale le intercettazioni telefoniche, benchè coperte da segreto istruttorio, vengono divulgate a vagonate su tutti i giornali senza che a nessuno degli autori venga mai contestato alcunchè. Da ultimo le rivelazioni dell’Espresso sul caso Lavitola-Tarantini. E questo basta a dimsotrare che ha ragione Giacalone quando afferma che la riforma della Giustizia è atto doveroso e necessario, per assicurare agli italiani non solo i doveri ma anche i diritti. Come deve essere in tutti gli stati a ordinamento democratico. g

CASO PENATI: RINUNCIATE ALLA PRESCRIZIONE

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Il Pd sta perdendo la battaglia di Stalingrado. Se continua così, finirà che gli iscritti dovranno fare una class action contro Filippo Penati. Il danno che la vicenda di Sesto San Giovanni sta infatti arrecando al partito di Bersani è molto serio, e ogni mossa dell’indagato tende ad aggravarlo.
Alla notizia che il gip aveva confermato «l’esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione», ma non li aveva considerati «concussione» evitandogli così l’arresto, Penati ha infatti festeggiato con una dichiarazione surreale, come se fosse stato assolto. Poi ieri qualcuno deve averglielo fatto notare, ed è arrivata l’autosospensione dal partito e dal gruppo consiliare alla Regione Lombardia, la procedura standard che si usa nel Pd per evitare l’espulsione. Con essa, la carriera politica dell’uomo che era stato incaricato da Bersani di strappare il Nord a Berlusconi si può considerare praticamente finita.
Stavolta infatti non si può neanche dire «aspettiamo il processo», perché il processo non ci sarà per avvenuta prescrizione. Penati potrebbe certo rinunciare alla decorrenza dei termini, per ottenere un proscioglimento nel merito o la sentenza di assoluzione. Ma ieri, pur dichiarandosi innocente, non ha anticipato niente del genere. È suo diritto, ovviamente, e il garantismo consiste anche nel difendersi dal processo, oltre che nel processo. Però Bersani deve sapere che d’ora in poi l’argomento contro il ricorso alla prescrizione, tante volte rinfacciato a Berlusconi e agli indagati dell’altra parte politica, non potrà mai più essere usato dal Pd. Per un partito che ha obbligato i suoi parlamentari a votare per l’arresto di Tedesco, accusato di fatti meno gravi di quelli contestati a Penati, è un brutto contrappasso.
Ma non è questo l’unico danno che la vicenda arreca al Pd. Il punto cruciale, infatti, è che Penati non può essere trattato come una «mela marcia». Non c’è niente di «marcio» in quest’uomo politico che si è fatto le ossa nella gavetta comunista, prima da sindaco e poi da presidente di Provincia, salendo un po’ alla volta fino a diventare il braccio destro di Bersani, alle cui truppe aveva portato la bandiera dei riformisti lombardi. Penati non commerciava in Rolex falsi e non girava in Ferrari. Se ha preso le mazzette che gli vengono contestate, le ha prese per finanziare la sua ascesa politica e quella dei suoi compagni. Ed è sgradevole che il gip, seguendo una moda ormai invalsa tra i magistrati, infili nella sua sentenza gratuiti commenti da corsivista, scrivendo che si è comportato come un «delinquente matricolato».
Ma è proprio perché Penati non è delinquente matricolato che il Pd è nei guai. Quello emerso a Sesto San Giovanni è infatti un «sistema», anzi un «sistemone» di finanziamento della politica. Non c’è solo Penati. C’è il suo capo di gabinetto, c’è l’assessore della giunta seguente, e per una vicenda minore è indagato anche l’attuale sindaco. Il pm parla di un «direttorio finanziario democratico» in opera da almeno 15 anni, di un vero e proprio «peccato originale». È di quel peccato originale che il vertice del Pd sta ostinatamente evitando di parlare, assumendo un atteggiamento da vergine offesa che le circostanze davvero non giustificano. Se infatti le cose funzionavano così a Sesto San Giovanni, che era un po’ la boutique del governo della sinistra nel Nord, se coinvolgevano le Coop, se proseguivano nell’inquinamento probatorio fino ai giorni nostri, se perfino il successo elettorale a Milano poteva diventare occasione per reiterare il reato tacitando l’imprenditore amico, titolare per altro di una società il cui nome, «Caronte», diceva già tutto; beh, allora vuol dire che si trattava di una pratica radicata, antica ed evidentemente tollerata. Il punto è: quanto è estesa? Troppe fondazioni, troppe correnti, troppi feudi locali nel Pd cercano risorse per vivere, affermarsi e contare a Roma un po’ come ha fatto Penati in questi anni.

Non so se nel Pd ci sono ancora i probiviri come c’erano una volta nel Pci. Ma, se ci sono, Bersani dovrebbe sguinzagliarli in giro per l’Italia, dovrebbe essere lui a promuovere un’inchiesta, a scrutare dentro e dietro i potentati piccoli e grandi che esistono nel suo partito, alcuni dei quali – Penati e le Coop di sicuro – fanno parte integrante della sua constituency personale. Il Pd ha proposto nella «contromanovra» un drastico taglio dei costi della politica. Ma non c’è nessun aspetto della politica italiana che costi più della corruzione. La credibilità di un partito che vuole curare il Paese sta anche nella capacità di curare innanzitutto se stesso. Antonio Polito, Il Correre della Sera, 27 agosto 2011

…….Penati non è l’unico che festeggia una prescrizione come una assoluzione. Fece altrettanto il geom. Giorgio Gaetano detto Nino all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione per le lottizzazioni abusive di via Fleming e di via Vinci. Giorgio,  dipinto  dalla Cassazione  come partecipe della “concreta attuazione del disegno criminoso diretto a condizonare la riserva pubblica della programmazione territoriale”, ha beneficiato della prescrizione, proprio come Penati, ma ciò non toglie l’accertata responsabilità per la quale però non deve rispondere,  diversamente da quelli che si erano fidati delle sue rassicurazioni e che ora trepidano, a causa sua e delle macchinazioni poste in essere grazie alla sua carica politica,  per il bene casa per il momento confiscato.  Giorgio si è guasrdato bene  dal  rinunciare alla prescrizione  e con la faccia tosta che è tipica di chi se ne infischia delle regole si atteggia a martire.  Proprio come farà Penati di qui a qualche mese, o anche meno. g.

MA CHI INDAGA SULLA P5 DEI GIUDICI? di Giuliano Ferrara

Pubblicato il 31 luglio, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Ma i pm combattenti, i più esposti nelle grandi cro­ciate moralizzatrici, sono eroi della legalità o fun­zio­nari dello Stato che tradiscono il dovere dell’im­parzialità e fanno politica? La seconda che ho det­to, questa è la univoca risposta alla mia domanda retorica. Gian­carlo Capaldo è sostituto procuratore in Roma. Se ne parla come di un magistrato in crociata. La cricca degli appalti cosiddetta, la cosiddetta P3, altre indagini di vario conio tra cui le dubbie in­chieste sulla ricostruzione dell’Aquila o il sordido caso Fastweb, con quintali di carcerazione preventiva a quel Sergio Scaglia che sta smantellando il processo contro di lui, come ha ricordato ieri Nicola Porro, e monumentali gogne che fanno dei crociati ap­punto degli eroi della legalità apparenti: è tutta roba sua o del suo ufficio, per dirla più correttamente, ed è tutta roba politica, è il nu­cleo originario del nuovo attacco mediatico-giudiziario a pezzi della classe dirigente (che si comporta male,che si fa pagare l’ac­quisto di una casa, che si fa ospitare a pagamento in condizioni grottesche dai collaboratori, e che collaboratori!).

Uno dirà. Vabbè, ma questo Capaldo è un magistrato all’anti­ca, la sera ascolta le sinfonie di Mendelssohn, è fuori dai giochi, la sua carriera è automatica, non lo puoi mai prendere con le mani nel vaso della marmellata, l’integrità professionale è il suo stig­ma naturale, genetico, è uno che sa quanto tu debba non solo es­sere ma apparire imparziale quando hai il potere di carcerare la gente. Poi si scopre che il dottore ha il suo bravo amico avvocato, che si chiama Fischetti,che a casa dell’avvocato difensore di suo figlio incontra il ministro dell’Economia, il suo principale colla­boratore sotto indagine anche nel suo distretto, nel suo ufficio (si parla di Giulio Tremonti e di Marco Milanese).

Richiesto di chiarimenti disciplinari, il dottor Capaldo che cosa fa? Emette un comunicato in cui si formula l’ipotesi che le attenzioni verso di lui, nate da deposizioni di indagati che fanno per così dire «tremare la Repubblica », sarebbero il frutto di un attacco al suo ufficio, al suo lavoro di tutela della legalità, e in particolare un tentativo di delegittimazione legato alla sua prospettiva di carriera, che è o era quella di diventare il procuratore capo di Roma alla scadenza imminente dell’attuale titolare. La cena con Tremonti dall’avvocato amico sarebbe stata un convivio letterario dedicato ad autori greci e latini, questa è la tesi a difesa, e il dottore pm poteva non sapere che intorno ai commensali si stava levando il fumus dell’inchiesta. Non ho alcun elemento per pensare che Capaldo non sia una persona perbene, e con lui i suoi commensali, fino a prova contraria ( del magistrato si occupano adesso i suoi superiori e il Csm). Ma osservo che tutti gli italiani dovrebbero ormai aver capito che questi uffici della pubblica accusa, in molti e documentati casi, sono sedi di partito,i loro titolari fanno politica, selezionano gli interlocutori secondo il grado di comando ministeriale, e poi, se messi in imbarazzo, la buttano in caciara politicante come qualsiasi scadente uomo di partito farebbe al posto loro. Cuginanze sospette, amicizie utili, cene riservate eccetera: cos’è, la P5?

Il nuovo ministro della Giustizia è un magistrato che fa politica da molti e molti anni, suo testimone di nozze è stato Luca Palamara, il capo dei magistrati organizzati in sindacato.

Sono fatti privati, ma ci sono fatti privati che parlano di comportamenti pubblici anche nel ceto togato (non uso la parola casta per pudore). Nel Paese in cui un pm uscito in circostanze delicate dalla magistratura, il ottor Antonio Di Pietro, ha messo su una lunga carriera politica e di partito per «sfasciare», come disse, il suo nemico assoluto, il Cav.; in un Paese in cui la sfilza dei titolari di indagini sulla politica entrata in Parlamento o comunque in lotta di fazione è molto lunga e significativa (non faccio i nomi dei D’Ambrosio, Casson, Maritati, De Magistris eccetera, li conoscono tutti); beh, in un Paese così non fa certo notizia il legame amicale tra le parti, tra quelle parti che adesso sono i massimi vertici dell’associazionismo dei magistrati (il partito dei partiti o il sindacato dei sindacati, l’Anm) e il vertice del ministero, peraltro quasi tutto gestito da magistrati. Nel mondo occidentale c’è un solo esempio serio di magistrati autorizzati in qualche senso ad avere ambizioni politiche, è quello americano, un sistema in cui i magistrati sono eletti dal popolo o nominati dal presidente, che riceve un’investitura popolare. Eppure lì al massimo si nota un «attivismo» dei giudici, che spesso viene aspramente censurato: non un partito dei giudici, come avviene disgraziatamente in questo Paese travolto dal fango e dalla redditività del fango.

TUTTI DENTRO. ANCHE NEL PD, di Mario Sechi

Pubblicato il 22 luglio, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Il senatore del Pd Alberto Tedesco Sceneggiatura del film di una tranquilla giornata del Partito Democratico. Titolo: «Quel pomeriggio di un giorno da cani». Interno giorno. Parlamento italiano. Piano americano. Prende la parola un senatore della sinistra: «Sono innocente, arrestatemi». Manca solo il «viva Stalin!» finale per sprofondare nell’era delle purghe del Baffone. Il Senato della Repubblica vota. Il parlamentare del Pd Tedesco non va in carcere grazie ai voti del Pdl. Salvato dal nemico. Esterno giorno. Panoramica. Carcere di Poggioreale. Il deputato del Pdl Alfonso Papa varca la soglia del penitenziario. È la prima sera in cui non potrà riabbracciare i suoi due bambini. Il Pd ha votato per il suo arresto. Interno giorno. Parlamento italiano. Primissimo piano. Parla il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani: «Il Pdl, coerentemente ma in modo sbagliato, ha detto che i deputati non sono uguali ai cittadini: ha molti più voti al Senato e lì è passata la sua tesi». Libero Tedesco nel giacobino Pd. Interno giorno. Internet. Zoomata sul blog del Fatto Quotidiano. Scrive Debora Serracchiani, europarlamentare del Pd: «Chiedo al senatore Tedesco se la sua coscienza non gli imponga di dimettersi». Esterno giorno. Piazza Montecitorio. Dettaglio sugli occhi infuocati di Arturo Parisi, parlamentare democratico: «Troppe sono le domande che sulla vicenda Tedesco mi vengono rivolte: proprio in quanto suo compagno di partito». La sceneggiatura finisce qui, perché non c’è ancora il finale. Noi cinefili de Il Tempo ci auguriamo che questa pellicola ci restituisca un senatore che si dimette e si affida alla giustizia decantata dal Pd. Non si può pensare di sbattere in galera l’avversario e poi approfittare del suo onesto e drammatico voto per farla franca e sfuggire alle manette. Tutti dentro. Hanno voluto il cappio, hanno nutrito la bestia. Ora divorerà anche loro, che si dicono democratici. Mario Sechi, Il Tempo, 22 luglio 2011

…..Furbi e spregiudicati, come sempre, come nella loro lunga storia, i comunisti, post o ex. Con il concorso di disinvolti deputati  che nel segreto dell’urna hanno regolato i loro conti personali , hanno mandato in galera, senza processo e senza prove, il soldato Papa, deputato pdiellino, per dare più che una spallata, una lezione e un avvertimento a Berlusconi. Poi, al Senato, con il concorso dell’odiato nemico e facendo perno sul suo garantismo che non è a fasi alternate, hanno salvato l’altro soldato, Tedesco, dalla galera, peraltro “solo” domiciliare, benchè su di lui pesino ben più gravi indizi rispetto a Papa. Sono sciocchi i piedillini, o sono “banditi” i post o ex comunisti? Un pò l’uno e un pò l’altro. Ma in ogni caso ha ragione Sechi. La storia non può finire con Papa rinchiuso nel carcere di Poggioreale alla mercè di un PM le cui indagini sinora si sono rivelate grandi bluff e  con Tedesco parcheggiato comodamente nel gruppo misto del Senato. Se per Papa, stando al Supremo Tuttologo Fini,  il voto è stato “regolare” benchè, nonostante segreto e quindi affidato alla libera coscienza di ciascuno, sia stato di fatto “controllato” dai partiti che della libertà di coscienza hanno fatto strame,  per Tedesco è stato di certo “irregolare”, almeno sul piano della parità perchè il PD ben sapeva che il PDL,  ben più numeroso al Senato che alla Camera, sopratutto dopo il defilamento tattico e forse strategico della Lega,  avrebbe mandato “libero” il suo senatore. Sapendo ciò il PD ha fatto sì che la Camera si trasformasse in Tribunale anticipato ai danni dell’inerme Papa del quale non vogliamo difendere l’operato che non conosciamo ma il suo ruolo di vittima sacrificale sull’altare delle incongruenze. Ha ragione Sechi: tutti dentro. Altrimenti, per giustizia, o, almeno, per parità, tutti fuori. Anche Papa. g.

LO SFOGO DI MARINA BERLUSCONI A PANORAMA: MALGRADO L’ESPROPRIO HO FICUCIA NEI GIUDICI

Pubblicato il 14 luglio, 2011 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Sarà anche un’intervista «a mente fredda» quella concessa da Marina Berlusconi al direttore di Panorama Giorgio Mulè che la pubblica nel numero oggi in edicola. Ma è un’intervista in carne viva. Un’intervista di accuse roventi. Con gli artigli sguainati. Contro i magistrati autori della sentenza che, riaprendo ancora la «guerra di Segrate», condanna la Fininvest a risarcire con 560 milioni di euro la Cir di Carlo De Benedetti. Contro l’Ingegnere, titolare di «un capitalismo cannibale». Contro «certi politici più o meno improvvisati che costruiscono il consenso sull’aggressione all’avversario». Contro certi editori e giornalisti «che hanno trasformato l’informazione in un campo di battaglia». Ne ha per tutti il presidente della Fininvest e della Mondadori. Si salva solo «quella sinistra rispettosa e non forcaiola… che sarebbe un bene per tutti se riuscisse a farsi sentire».
Marina è decisa a dar battaglia ad oltranza. Se possibile, verrebbe da dire, ancor più del padre. E dunque, schiacciamo il tasto play e ascoltiamo il registratore di Panorama: «A mente fredda», va subito al sodo la primogenita di casa Berlusconi, «dico con chiarezza che c’è un tentativo, fin troppo evidente, di cancellare le nostre aziende dalla storia economica di questo Paese. E con altrettanta chiarezza dico che non ci riusciranno». Snocciola le cifre del contributo del gruppo all’economia italiana: ventimila posti di lavoro, un indotto di oltre 40mila solo per Mediaset, più di 2 milioni di euro tra imposte e contributi versati all’Erario, i primati all’estero. «È tutto questo che si colpisce, si ferisce e si insulta» con quella sentenza che ha realizzato «un esproprio inaccettabile». Una sentenza motivata da 283 pagine che Marina ha letto «con molta attenzione». Ma alla fine, dice, «non si può che arrivare a un’unica, ragionevole certezza: in Italia non esiste più la certezza del diritto. Da ogni pagina delle motivazioni emerge chiaramente l’intenzione di condannarci “a prescindere”».
Sulla scorta della denuncia dell’editore, il settimanale mondadoriano dedica la copertina a «La grande rapina», titolo su uno sfondo bianco dove spiccano i fori lasciati da degli spari. Fu solo uno dei tre giudici della Corte d’Appello di Roma che emise il famoso Lodo da cui tutto nacque a essere ritenuto colpevole di corruzione, ribadisce il presidente Fininvest. Gli altri due giudici non sono mai stati corrotti, e hanno sempre dichiarato di «aver studiato nei dettagli la causa e di non aver subito alcun condizionamento». Semmai, il Lodo deluse suo padre, amareggiato perché vide sfumare il sogno della «grande Mondadori». E accontentò De Benedetti, come dimostrano i suoi commenti all’indomani della sentenza nella primavera 1991 che Marina puntualmente riporta. «L’accordo di spartizione», disse l’Ingegnere all’epoca, «è positivo per una serie di ragioni. Cir ha fatto un investimento importante in Mondadori e ne esce con plusvalenze di qualche decina di miliardi e con liquidità per alcune centinaia di miliardi».
Per tutte queste ragioni, rivela la primogenita del premier, «stiamo preparando il ricorso in Cassazione perché, sapendo di essere nel giusto, siamo certi che le nostre ragioni non potranno che essere accolte». Perché, dice chiaro Marina, «anche dopo questo esproprio inaccettabile continuo ad avere fiducia nei giudici, resto convinta che la stragrande maggioranza dei magistrati faccia il proprio lavoro con onestà ed equità, che resti capace di distinguere i propri orientamenti dal proprio giudizio, basato soltanto sulla legge».

Perciò, per Marina è uno scandalo che alcuni magistrati di Milano, «e sottolineo Milano», condannino il gruppo del premier «a versare o meglio a finanziare con 560 milioni di euro l’editore di un gruppo che predica ogni giorno l’eliminazione politica di Silvio Berlusconi». E che, dice Marina, è capeggiato da un padrone che pratica un «capitalismo cannibale» costellato «di fallimenti industriali – a cominciare da quello, storico, dell’Olivetti – di incursioni manageriali molto discusse come i quattro mesi alla Fiat o i 40 giorni all’Ambrosiano di Calvi».
La guerra di Segrate, madre di tutte le guerre della seconda Repubblica, continua. Il Giornale, 14 luglio 2011