Archivio per la categoria ‘Giustizia’

RICORDANDO GIOVANNI FALCONE

Pubblicato il 23 maggio, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Ieri sera RAIUNO ha trasmesso una fiction per ricordare Giovanni Falcone, il giudice antimafia di Palermo, nel 19° anniversario della strage di Capaci nella quale trovarono la morte lo stesso giudice, la moglie, e tre agenti della scorta, tra cui il pugliese Vito Schifani. La fiction ha narrato con encomiable sforzo di verità la battaglia intrapresa da Falcone, da Borsellino (che fu ucciso due mesi dopo in un altro attentato di mafia) e dagli altri straordianri protagionisti di quella memorabile stagione di guerra tra lo Stato e la mafia, ma ha ingorato i tanti retroscena di quella stagione politico-giudiziaria, primo fra tutti la guerra ad oltranza che Falcone dovè subire da chi ne impedì la nomina a procuratore di Palermo e successivamente osteggiò  la sua  nomina a capo della  procura nazionale antimafia ipotizzata da Falcone per accentrare ijn un unico organismo investigativo tutte le inchieste di mafia. Questa matitna, quasi a commento della fiction,   il Corriere della Sera pubblica una accorata intervista alla vedova  di Vito Schifani, poliziotto pugliese morto nell’attentato di Capaci, la stessa che durante i funerali nella cattedrale di Palermo lanciò un  accorato messaggio “agli uomini della mafia che ci sono qua dentro”. La lettura dell’intervista, ad iniziare dal titolo, è assai istruttivo.

«Incontrai Ciancimino, l’ultima delusione»

Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti del giudice: «Ho perso la speranza di sapere la verità»

GENOVA – È un anniversario vissuto con rabbia da Rosaria Schifani, diciannove anni dopo quel suo struggente «vi perdono, ma inginocchiatevi». Dopo il monito lanciato «a mafiosi e uomini collusi dello Stato» davanti alle bare di Vito, il marito, di due agenti, di Giovanni e Francesca Falcone. No, non torna nemmeno quest’anno a Palermo per le celebrazioni, stordita da quanto succede dentro e fuori i tribunali: «Ho perso ogni speranza di conoscere la verità. Diciannove anni di delusioni…».

Rosaria Schifani, vedova di Vito, uno degli agenti di scorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio '92 nella strage di Capaci ai funerali del marito
Rosaria Schifani, vedova di Vito, uno degli agenti di scorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio ‘92 nella strage di Capaci ai funerali del marito

Un’amarezza profonda emerge con sofferenza, come se non volesse spiegarne la causa dirompente, limitandosi a frecciate fulminanti, lanciate durante una agitata passeggiata su un lungomare ligure, da tempo approdo e rifugio per lei e Emanuele, il ragazzo che ha gli stessi anni della strage di Capaci: «La mafia non è morta. Si è infiltrata dovunque, qui al Nord. E giù, a Palermo, il pool antimafia c’è ancora? Non lo vedo più. Vedo solo magistrati che litigano. Soprattutto su quel Massimo Ciancimino che mi ha fatto piangere…».
Si blocca, riprende nervosa, si pente d’aver pronunciato le ultime parole, poi si sfoga e spiega d’essere infuriata con se stessa: «Ma lo capisci che io ho implorato aiuto a questo impostore, che ho chiesto di fare giustizia al figlio del vecchio Ciancimino?».
È una rivelazione che la fa star male. C’è una panchina. E c’è un bicchiere d’acqua. Sorseggiato fra interrogativi posti a se stessa: «Perché l’ho fatto? Perché è accaduto? Chi me l’ha fatto fare?».
Ed ecco venir fuori il racconto di un incontro casuale fra la giovane vedova che nel ‘92 s’aggrappò al cardinale Pappalardo e il rampollo di «don» Vito Ciancimino, il figlio del sindaco da lei sempre considerato simbolo del male: «È accaduto l’otto dicembre, a Fiumicino. L’ho fermato io. L’ho supplicato piangendo di dire la verità. E mi sono quasi affidata a lui, invece di ignorarlo e di maledirlo come bisogna fare con quanti hanno fatto affari e coperto gli assassini di Cosa Nostra. Perché l’ho fatto? Io ce l’ho con me stessa, sciocca, caduta nella trappola. Ma ce l’ho soprattutto con chi mi aveva fatto credere che quel furfante fosse davvero affidabile. Lo vedevo protetto dalla polizia, coccolato dai magistrati, all’università accanto a Salvatore Borsellino, osannato nelle trasmissioni televisive, sui plachi della politica, perfino a Verona con gli uomini di Di Pietro e, fino a qualche settimana fa, in comunella con i giornalisti antimafia al convegno di Perugia…».
È uno sfogo accorato. Scandito dalle riflessioni sui litigi fra i magistrati di Palermo e Caltanissetta per la gestione di Ciancimino junior: «Come possiamo celebrare l’anniversario mentre questo caso divide chi ancora indaga? Al punto che devono intervenire il procuratore nazionale Piero Grasso e il Consiglio superiore della magistratura, costretti ad assistere pure agli scontri fra i pm di Palermo e il presidente dell’Associazione magistrati. Tutto questo perché Ciancimino l’avevano fatto diventare con le sue parole il fulcro della verità. Ma non si dovrebbe cercare di andare oltre le parole, facendo indagini vere?».

Pone il quesito con rabbia Rosaria perché si danna ancora di quella invocazione rivolta fra le lacrime a Fiumicino, ricostruendo l’incontro: «Io ero in partenza per Palermo con Manù, il mio Emanuele. Mi accorgo che seduto a un tavolo dell’angolo Mc Donald c’è una bella famigliola. Lei alta e bella, un bimbo vispo e lui, il mezzo pentito, osservato a breve distanza da due agenti. Il cuore sussulta. Io e Ciancimino a un passo. Lo scruto. Non ha uno sguardo rassicurante. Ma un’idea si insinua. Tutti lo decantano. Forse debbo anch’io spingerlo a dire la verità. Trovo un post-it e scrivo in fretta poche parole: “La vita è strana, ci riserva delle sorprese, io moglie di un poliziotto ammazzato a Capaci, lei figlio di un mafioso…”. E lo lascio scivolare sul suo tavolo allontanandomi a passo veloce, rimproverata da Manù che non era riuscito a dissuadermi e inseguita da uno dei due poliziotti. “Ciancimino le vuole parlare”. Mi fermo. Si, volevo parlargli anch’io. Eccolo davanti a me. E io scoppio in lacrime davanti al figlio di “don Vito” chiedendogli di fare giustizia, come fosse un magistrato, un vero simbolo operativo dell’antimafia… E andiamo avanti così per qualche minuto. Parlando come se fossimo sullo stesso piano. Ascoltando le sue parole contro i potenti, pure contro De Gennaro. “Ho il nome del signor Franco, non me lo fanno fare”. Io stordita. “Parlerò, anche se mi ammazzeranno”. E io a ringraziarlo, gli occhi su Manù: “Lo faccia per questo ragazzo che cresce senza il padre”. Io commossa a sentirlo: “Custodirò questo suo biglietto per il prossimo libro”. E io a credere, fra le lacrime, a un impostore che teneva in casa i candelotti di dinamite…».Non sa cosa dire su De Gennaro ed è turbata Rosaria dalle contestate rivelazioni sull’allora ministro dell’interno Mancino: «Non sono più sicura di niente. Ma è assurdo che tanti magistrati fossero invece sicuri di Ciancimino. Ci servono eroi vivi in questo Paese. Ma eroi alla Ninni Cassarà. Inquirenti come lui che facevano indagini serie. Anche con gli infiltrati per scavare e scoprire. Non solo affidandosi a pentiti infidi, alle parole, a mafiosi pagati con stipendi certo superiori al mio. Ci pensino i magistrati che vanno ai convegni, in tv, a presentare libri. La mia diffidenza di sempre mi porta a pensare che tanti cercano un po’ di visibilità per se stessi. Anche a costo di usare un personaggio dubbio e ambiguo. E ci sono caduta anch’io. Ma lo Stato non dovrebbe metterci in condizioni di diventare creduloni, con le cicatrici che ci portiamo addosso». Felice Cavallaro, Il Coriere della Sera, 23 maggio 2011

L’ONORE DEI GIUDICI, E DELLA POLITICA

Pubblicato il 10 maggio, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Nei terribili anni di piombo numerosi magistrati sono stati uccisi dal terrorismo rosso, in prevalenza, ma anche dell’estrema destra. A questi eroici difensori dello stato è doveroso rivolgere un ricordo riconoscente, come è avvenuto ieri nel Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo. Anche alla loro azione coraggiosa in difesa della legalità assalita dalla violenza politica si deve la tenuta, in quegli anni, del sistema democratico. Come ha detto Giorgio Napolitano ricordandone il sacrificio al Quirinale, “la loro lealtà fu essenziale” e “la battaglia della giustizia penale contro il terrorismo fu decisiva”. Insieme a loro sono stati uccisi anche esponenti politici, a cominciare da Aldo Moro, giornalisti che non accettavano la vulgata che parlava di “sedicenti” Brigate rosse, poliziotti, imprenditori, persino un sindacalista della tempra di Guido Rossa.

Dedicare la Giornata del ricordo delle vittime del terrorismo in particolare a quelle provenienti dalla magistratura è stata quest’anno una scelta del capo dello stato che, evidentemente, puntava anche a evitare che le polemiche in corso su una parte specifica di questa categoria finissero con l’investire l’intero ordine. Si tratta di una scelta apprezzabile, che tende a creare un clima di maggiore rispetto istituzionale e a contrastare eccessi, come l’assurda identificazione di questi stessi settori della magistratura con quel terrorismo di cui, invece, giudici e magistrati hanno subito i colpi. Dunque Napolitano ha ricordato che, anche in vista delle “riforme necessarie”, bisogna “parlare responsabilmente della magistratura e alla magistratura nella consapevolezza dell’onore che ad essa deve essere reso”. Parole che hanno trovato la piena condivisione di Silvio Berlusconi: “Mi inchino con rispetto e gratitudine per ricordare le vittime del terrorismo, unendomi idealmente alle nobili parole pronunciate dal capo dello stato”.

Le parole di Napolitano, e il clima di responsabilità che hanno generato, servono anche a liquidare equivoci in senso opposto: se è assurda l’equazione tra terroristi e magistratura, lo è parimenti quella suggerita, più o meno implicitamente, da chi vorrebbe far pensare che gli attacchi di carattere politico (o la legittima difesa) del centrodestra ad alcuni settori specifici della magistratura si possano idealmente collegare agli assassini di magistrati perpetrati dai criminali brigatisti. Non sono certo stati i moderati, quelli che oggi sostengono Silvio Berlusconi e il suo governo, a uccidere i magistrati. Rispettare la memoria di giudici e procuratori morti tragicamente significa anche non delegittimare chi critica oggi (con le parole e l’azione politica, non con le armi in pugno) una certa concezione invasiva della giustizia con un apparentamento tanto infame. IL FOGLIO, 10 maggio 2011

IL PARTITO DEI PM COME ANTISTATO

Pubblicato il 4 maggio, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Mauro Mellini, ex parlamentare dalla storica militanza radicale, non è sorpreso dalle rivelazioni con cui il pentito Giovanni Brusca, ieri, ha accusato di collusione con la mafia praticamente tutta la classe politica. Le denunce all’ingrosso dell’ex mafioso non hanno risparmiato quasi nessuno: “Nel ’92, Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti”, ha detto Brusca, secondo il quale “Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino volevano portare a Riina la Lega nord e un altro soggetto politico che non ricordo”.

La foga inquisitoria di Brusca,
secondo Mellini, è figlia di una logica innescata dalle procure: “Il cosiddetto ‘pentitismo’ nasce dall’abuso dei magistrati, che assicurano ai mafiosi premi che la legge non prevede, in cambio delle loro rivelazioni. I magistrati dicono: ‘Trattiamo noi con i mafiosi arrestati’, e usano come prova anche quello che potrebbe essere al massimo un indirizzo per dare una direzione alle indagini”. Secondo Mellini, una delle assurdità del nostro codice di procedura penale è il principio in base al quale il pubblico ministero indaga non perché viene a sapere di un reato, ma alla ricerca di notizie di reato. “Così il pubblico ministero, che ormai è una sorta di ‘magistrato poliziotto’, a forza di indagare sulle ipotesi di reato e di usare i pentiti come mezzi di prova, li istiga a rendere le loro confessioni sempre più clamorose – dice Mellini – Brusca, che si è pentito dopo aver sciolto un ragazzino nell’acido, deve dimostrare di essere un superpentito ai pm che gli chiedono: ‘Ma come, non sai niente?’”. “Quando è scoppiato il caso Tortora non c’era la legge premiale – ricorda Mellini – però i magistrati trovavano comunque il modo di gratificare i pentiti: ‘Vieni qua, dicci qualcosa, al massimo se non possiamo assolvere te assolviamo tuo fratello…’”. Il pentito, che viene premiato in proporzione al materiale che offre a chi conduce le indagini, si ritrova nel mezzo di un vero e proprio corteggiamento: stuzzica, svela dei contorni quando serve, gioca di malizia, valuta se è meglio condurre o lasciarsi guidare. Per capire che qualcosa non va basterebbe sfogliare i verbali degli interrogatori dei pm Antonio Ingroia e Anonino Di Matteo a Ciancimino Jr.: “La lettura dei verbali è sconcertante – dice Mellini – Questo Massimo Ciancimino non dice mai niente, parla sempre per induzione da parte del pubblico ministero”.

Insomma, per Mellini,
che all’epoca della “trattativa” era alla Camera dei deputati, c’è qualcuno in Italia che ha trattato di sicuro con i mafiosi: i magistrati. Le grandi manovre che Ciancimino Jr. imputa allo stato sono state paradossalmente più goffe: “Se si fanno le trattative bisogna sapere qual è la situazione, dove si può arrivare e che cosa si intende ottenere – dice Mellini – Questi che vengono accusati di avere condotto trattative con la mafia, se le hanno fatte, le hanno fatte a vuoto, dando soltanto un’impressione di debolezza”.

Mellini però sottolinea: “Quello che ho dato è un giudizio politico sul loro operato. Lo stato ha comunque tutto il diritto di trattare con chi gli pare e piace, se è lo stato. Se poi invece erano il generale Mori o chi per lui ad agire per i cavoli loro allora è un altro discorso. Ma quando i magistrati dicono che era lo stato a trattare, significa che riconoscono che questi soggetti trattavano per lo stato nella sua globalità, che avevano il diritto di rappresentare lo stato”. Per i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che indagano sui presunti mandanti delle stragi di mafia, se lo stato ha trattato con i mafiosi, va processato. La fattispecie non esiste, ma Mellini, con un’acrobazia giuridica, se l’è inventata: “Sarebbe ‘concorso esterno precontrattuale in associazione di stampo mafioso’, o, se preferiamo, ‘tentata amnistia’”. Mellini ricorda di aver visto prendere piede nelle procure degli anni Settanta – soprattutto in quelle calabresi, con cui aveva più familiarità – una cultura per cui “noi siamo gli avamposti della legalità” e “lo stato ci ha abbandonato, è un traditore”. E così, “nel tempo, lentamente, gli atti di elaborazione concettuale di Magistratura democratica sono passati nella magistratura corporativa e ora che la politica prova a tirare le briglie che ha lasciato a lungo sciolte, il cavallo della magistratura si imbizzarrisce”. E reagisce, “non ritenendosi più un pezzo dello stato, ma espressione ormai di un qualcosa che sta sopra al potere temporale, come gli ulema nello stato islamico. Sono un’aristocrazia dotata di un potere carismatico, che per definizione non è elettivo: si acquista col concorso di uditore giudiziario”. In questa logica, “la misura della validità di quello che dice Brusca non è più la ragionevolezza o il diritto, ma è l’etica golpista del partito della magistratura: abbiamo individuato i grandi signori del male, tra i quali c’è Berlusconi. Ora dobbiamo colpirli”. IL FOGLIO QUOTIDIANO, 4 maggio 2011

.……………Sono di ieri le esternazini al limite della follia rese dal criminale mafioso Giovanni Brusca che da  assassino di mestiere ora tenta di riscrivere la storia italiana, infangando personalità e uomini di cui potremmo contestare le scelte politiche, non certo la rettitudine di governo. Per esempio Nicola Mancino, già  Ministro dell’Interno,  presidente del Senato e poi vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Brusca lo ha accusato di essere stato il regista dell’accordo Stato-Mafia perchè glielo avrfebbe detto Riina, il quale Riina, non va dimenticato fu arrestato quando Mancino era minstro dell’Interno. E’ evidente che trattasi di rivelazioni che fanno a cazzotti con la verità. E poi lo stesso Brusca, pur dichiarando che Berlusconi e Dell’Utri nulla hanno a che farfe con le stragi del 1993, ha dichiarato che nell’estate del 1993, lui prese contatti con Berlusconi, tramite Dell’Utri, perchè Berlusconi era in procinto di diventare poresidente del Consiglio. Basterebbe tanto perchè i giudici lo prendano e lo rinchiudino, insieme a qualche pm troppo spregiudicatom in qualche cella, buttandone la chiava in mare, come il cormo di Osama Bin Laden. Nell’estyate del 1993 nessuno sapeva che si sarebbe votato nel 1994, nessuno sapeva, neppure l’interessato, cioè Berlusconi, che le circostanze lo avrebbero indotto a scendere in politica, nessuno poteva prevedere, neanche il mago Otelma, che a Berlusconi sarebbe riuscita l’operazione di mettere su in poche settimane un partito, stringere alleanze al nord con la Lega e al sud con il MSI e addirittura mettere insieme Lega e Msi, cioè il diavolo e l’acqua santa, e vincere le elezioni…solo Brusca nell’estate del 1993 “sapeva” che Berlusconi si “apprestava a diventare presidente del consiglio”. Si tratta di un pazzo, pluriomicida,  al quale si cnsente di esternare in pubblico farneticanti dichiarazioni che offendono la comune intelligenza. Un pò come è stato per l’altro rivelatore di smargiassae, quel Massimo Cincimino, trattato come un oracolo dal pm siciuliano Ingroia e che ora  si è scoperto essere uno squallido realizzatore dei più ignobili falsi mirati a distruggere seri e coraggiosi servitori dello Stato, sopratutto poliziotti e carabinieri, l’ex capo della Polizia e l’ex comandante dei Ros, per trarne vantaggi e immunità per sè e per i tesori accumulati dal padre, mafioso confesso. E’ finita con il suo arresto e la pubblica sconfessione di certe teorie parlemitane vendute per verità evangeliche. E’ davvero il caso di chiudere questa stagione di veleni che ha affidato al pentitismo interessato il compito di riscrivere la nostra storia recente attraverso la sistematica diffamazione dei servitori dello Stato. Ed anche  necessario ripristinare regole che impediscano a magistrati politicizzati di usare il pentitismo di spregiudicati delinquenti per alterare le regole della politica e della democrazie. g.

L’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI SI INFILTRA NELLE UNIVERSITA’ PER FARE PROPAGANDA CONTRO LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

Pubblicato il 27 aprile, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

“L’Associazione nazionale magi­s­trati sarebbe interessata a pro­muovere incontri di tipo infor­mativo con gli studenti degli atenei, in merito al progetto di riforma costituzio­nale della Giustizia”. È una lettera invia­ta in questi giorni alla presidenza della facoltà di Architettura di Napoli, mica di Giurisprudenza. E diramata a tutte le cat­tedre. L’iniziativa non sarebbe solo loca­le.

Non sono un giurista o un cultore di questioni giudiziarie, ma non riesco a tro­vare precedenti a un’iniziativa del gene­re. Mi pareva già un cedimento dei magi­st­rati accogliere inviti per dibattiti “politi­ci”. Ora addirittura i magistrati stessi pro­muovono quei dibattiti, chiedono di co­miziare per propagandare le proprie tesi contrarie alle leggi varate dal Parlamen­to. Non riesco a trovare analogie di indottrinamento studentesco da part­e di un organo dello Stato se non in Paesi sotto tutela dei militari o dei guardiani della Rivolu­zione, tipo pasdaran. Fino a qualche tem­po fa coltivavo un’idea sacra della giusti­zia e un rispetto istituzionale della magi­stratura, almeno prima di averne fatto esperienza da cittadino. Tuttora rifiuto di tifare nel derby dei poteri tra legislati­vo, esecutivo e giudiziario; trovo avvilen­ti le tifoserie. Ma qui siamo all’ultimo sta­dio. Prima si perse la sobrietà del ruolo, il rigore impersonale, dandosi ad uno sfre­nato protagonismo che debordò dalle se­di giudiziarie ai media fino alla letteratu­ra e al teatro. A Bari i magistrati sono stati protagonisti e registi di rappresentazio­n­i teatrali con attori istituzionali in costu­me, come il presidente della Regione Pu­glia Vendola e altri politici, in spettacoli finanziati con denaro pubblico da Regio­ne, Comune e Provincia. Ora siamo alla predicazione e all’istigazione studente­sca. Conosco l’alibi: siamo sotto una dit­tatura, la Costituzione è in pericolo, dun­que ogni reazione è ammessa. A quando le ronde togate, la trasvolata di magistra­ti su Montecitorio con lanci dimostrativi e le spedizioni punitive? Succedeva al tempo dei giacobini che i tribuni confu­tassero in assemblea le proposte di leg­ge. Però non esercitavano il potere giudi­ziario. Erano tribuni, non magistrati. Marcello Veneziani

ARRESTATO MASSIMO CIACIMINO: ERA L’EROE ANTIBERLUSCONI DI SANTORO E COMPAGNI

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

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Arrestato per calunnia. L’imprenditore Massimo Ciancimino è stato fermato dalla polizia a Bologna su ordine della procura di Caltanissetta per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino Junior è stato per mesi un ospite fisso del programma Annozero, al centro delle sue dichiarazioni la presunta trattativa tra Stato e mafia e i presunti rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e suo padre Vito Ciancimino. Le ospitate del figlio del sindaco mafioso provocarono subito scalpore, sia a destra che a sinistra. Ciancimino Jr attaccava tutto e tutti sulla base di presunti pizzini. Una tribuna mediatica che per mesi ha catalizzato milioni di telespettatori. Oggi la veridicità del guru di Annozero inizia a incrinarsi.
Ciancimino, già condannato per riciclaggio, è testimone in diverse inchieste di mafia tra cui quella sulla presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato. Ciancimino è stato fermato da agenti della Dia di Palermo su ordine della Dda palermitana e non nissena. Il figlio dell’ex sindaco mafioso del capoluogo, infatti, è indagato a Caltanissetta per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, ma ha prodotto anche alla procura palermitana documenti tra cui uno che sarebbe stato “manomesso” in cui c’è il nome del direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza.

Nell’elenco di nomi sulla fotocopia consegnata ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, quello di Gianni Gennaro sarebbe stato “interpolato” secondo l’analisi fatta dalla polizia scientifica. Lo conferma il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Ciancimino aveva spiegato ai magistrati che quell’appunto di suo padre conteneva personaggi vicini ai servizi segreti che avrebbero svolto un ruolo nella presunta trattativa tra Stato e mafia. Assieme ai nomi di Restivo, Ruffini, Malpica, Parisi, Sica, Contrada, Narracci, Delfino, La Barbera (dattiloscritti) c’è anche quello di De Gennaro, manoscritto, legato al nome “Gross” con una freccia. “La scientifica ha stabilito con certezza assoluta – spiega Messineo – che il nome di De Gennaro è stato estrapolato da un altro documento presentato da Massimo Ciancimino e posto in quel foglio. In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ’falsificatì ma non lo possiamo escludere, visto che la scientifica analizza i fogli che Ciancimino ci ha dato in vari periodi”.

IO VOTO LASSINI E MORATTI, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Da quasi tragedia a farsa. Roberto Lassini, il candidato consigliere comunale di Milano che Letizia Moratti non vuole più in lista («O me o lui») per via dei manifesti contro i giudici, sembra non possa fare un passo indietro. La legge elettorale non permetterebbe infatti modifiche alla lista dopo che questa è stata depositata in tribunale. E allora che fare? Pare che si vada verso la seguente soluzione: un impegno del reietto a dimettersi in caso di elezione.

In attesa di notizie certe, anticipo la mia intenzione: alle urne voterò entrambi, Moratti sindaco e Lassini consigliere. Mi sembra che i due possano tranquillamente convivere nel più grande partito popolare della Seconda Repubblica. Letizia Moratti ben rappresenta la testa del Pdl, e merita senza dubbi una riconferma. Lassini è invece portavoce della pancia del popolo berlusconiano, che non ha meno titoli e diritti di altre componenti. Chi pensa che questa sia una buona scelta, da oggi può associarsi

……

.…………..Diciamolo francamente.  Il PDL sta paurosamente incamminandosi sulla strada rovinosa che già fu della Democrazia Cristiana, quella del centrosinistra e poi del compromesso storico che aprì la strada al suo dissolvimento, prima ancora che giudiziario, politico. Mi spiego. La Dc, più o meno nel suo generale insieme, salvo qualche onorevole distinguo, ogni qual volta la sinistra, di ogni tipo e sfaccettatura, montava in cattedra per criticare i singoli esponenti della DC, dagli anni 70 in poi, non ci fu mai una sola volta che la DC, nei suoi vertici o anche nei suoi singoli esponenti, salvo, come ho già detto qualche sporadico caso isolato, prendesse le difese dei suoi esponenti aggrediti dalla sinistra. Basterebbe rileggere le cronache giornalistiche di quei tempi per constatare quanto affermo. Questo atteggiamento rinunciatario, se non vile,  della DC,  ne indeboliì la struttura, sopratutto politica e morale, tanto che quando poi si trovò coinvolta in tangentopoli non possedeva più anticorpo capaci di reagire. Unico e ultimo sussulto di dignità  fu quello di Moro che, sia pure per difendere un suo pupillo, Luigi Gui, comunque un galantuomo, in Parlamento osò dire che “mai la DC si sarebbe fatta processare nelle piazze”. Vuoi per l’alta qualità morale di Moro, vuoi per i toni straordinari, considerati quelli a cui Moro aveva abituato i suoi interlocutori, nessuno osò “processare” Moro per quelle sue parole. Ma fu l’ultima volta che la DC ebbe un soprassalto di dignità e reagì al fuoco nemico, cioè al PCI che come sempre guidava l’orda aggressiva della sinistra contro  la DC e il centrismo. Come allora la DC, anche ora il PDL, sebbene si stringa, non foss’altro che per soppravvivere, intorno al presidente Berlusconi e faccia quadrato per impedirne la morte – politica -, ogni volta, però,  che di mezzo non c’è direttamente Berlusconi, singoli esponenti del PDL non esitano a “delegittimare” (aborrisco usare questo abusato verbo di natura comunista doc) i loro colleghi un pò più temerari. Prima di arrivare a Lassini, e solo per fermarmi a questi ultimi giorni: Larussa ha in Aula uno scatto (giustificato!) di nervi contro Fini? eccoti lo Scaiola di turno che inveisce contro Larussa con uno stentoreo “vergognoso” (ma lui è quello di Biagi e della casa al Colosseo, ben più vergognosi dello scatto di Larussa); Pisanu, ex consigliere del buon Zaccagnini, arruolato da Berlusconi nel 1994 e da questi resuscitato politicamente, ora da tempo in zona “critica” del PDL,  sottoscrive una lettera congiunta con Veltroni – PD –  per invitare Berlusconi a farsi da parte per dare vita a una nuova stagione di decantazione politica (sic); sul Corriere della sera la signora Stefania Craxi, che ama chiamare il suo papà non “papà” ma Craxi, col cognome,  dà del “vecchio” a Berlusconi che secondo lei dovrebbe uscire di scena prima di farsi ridere dietro… (salvo poi giustificarsi con la scusa che ciò che l’ha spinta ad insultare Berlusconi, senza del quale lei starebbe dov’è suo fratello Bobo, è il gran bene che gli vuole..chissà cosa avrebbe scritto e detto se gli avesse voluto un gran male….; ieri, non più tardi, un deputato del PDL ha presentato una proposta di legge mirata a riscrivere l’art 1 della Carta (vezzosamente anch’io non aggiungo Costituzionale perchè come è noto in Italia c’è solo lei di Carta….) per precisare che la nostra Democrazia ha nel Parlamento, liberamente eletto dal Popolo, in libere elezioni, la sua centralità….apriti Cielo da parte delle opposizioni che definiscono la proposta “eversiva”…addirittura…..ma non era la centralità del Parlamento che rivendicava il Pci (lo ha ricordato Cicchitto) negli anni 70 e sino a d oggi e più di recente non lo ha rivendicato in tutte le salse l’ex fascista Fini, quello che qualche anno addietro avrebbe  volentieri ripristinato il Gran Consiglio da sostituire al Parlamento? Ebbene  l’on Lupi, di solito uno dei migliori e dei più accorti dirigenti del PDL, ha chiuso la faccenda con un lapidario “occupiamoci delle cose serie”.  Eppure la riscrittura dell’art. 1 non modifica alcunchè nella sostanza in quanto, per esempio, il Capo dello Stato, l’attuale Napolitano come il defunto picconatore  Cossiga, è il Parlamento che li ha eletti in nome  e per conto del Popolo che a sua volta ha eletto il Parlamento. Quindi….E veniamo a Lassini. Io non voto a Milano ma se votassi a Milano io  voterei la preferenza a Lassini,  ad onta di tutto e anche  delle dichiarazioni della signora Moratti che a sua volta dimentica che a votarla e ad eleggerla (mi auguro) ci saranno migliaia e migliaia  di milanesi che la pensano esattamente come Lassini, a proposito non della Magistratura nel suo complesso, ma di alcuni magistrati militanti che usano la giustizia per fare politica. Lassini, poi, una qualche ragione per essere “arrabbiato” con la Magistratura pur ce l’ha, se è vero come è vero, che negli anni 90, quando arrestare un sindaco, specie se DC,  era uno sport cui taluni magistrati si dedicarono con notevole superficialità – e il caso Lassini lo dimostra – negli anni 90, dicevo, Lassini fu arrestato, tenuto in cella 45 giorni, processato e assolto con ampia e liberatoria sentenza perchè il fatto di cui era accusato non sussisteva e risarcito, poi, con appena 5 mila euro, mentre da una parte il Pm suo accusatore, senza prove, faceva carriera e lui, invece, s’era vista distrutta la vita e la carriera, perchè essere stato in carcere, sia pure da innocente, è un marchio che non ti toglie più nessuno. Chissà… se la signora Moratti avesse subito le stesse “attenzioni” riservate a Lassini, forse non sarebbe stata così drastica e draconiana nei suoi confronti, ingiungendogli di lasciare la lista, sebbene una volta in lista, dovrebbe saperlo la Moratti, lì rimane e se i milanesi dovessero votarlo, come gli auguro, Lassini comunque siederà in Consiglio comunale,ad onta di tutte gli sdegni e le indignazioni del mondo, che per essere vere devono riguardare tutti, anche il Presidente del Consiglio che è una istituzione dello Stato, al pari del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle due Camere, quella alta e quella bassa, nella quale, anche nel corso dell’ultimo voto,  s’è sentito un tal Di Pietro definire Berlusconi “coniglio” senza nè che il presidente della Camera sentisse il dovere di togliergli immediatamente la parola, nè si è appreso che l’indomani, dall’alto del più alto Colle il suo attuale inquilino stilasse un doveroso comunicato di sdegno e di indignazione, simile ai tanti che vengono emessi e che, come sempre quando abbondano, fniscono per perdere significato e valore. g.

FINI, DOPO MONTECARLO, LA FA FRANCA ANCORA UNA VOLTA : RESTA IMPUNITA LA SUA IMMERSIONE ILLEGALE

Pubblicato il 16 aprile, 2011 in Cronaca, Giustizia, Politica | No Comments »

Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica

Per raccontare l’ennesima disavventura giudiziaria a lieto fine del presidente della Camera, prendiamo in prestito le parole di Carlo Rienzi, generalissimo del Codacons. Che nel rendere noto il dispositivo di archiviazione del tribunale di Grosseto sui presunti reati commessi dai compartecipi all’immersione di Gianfranco Fini e della sua compagna Elisabetta nelle acque off-limits della riserva marina di Giannutri, con sarcasmo fa presente che la decisione del giudice Valeria Montesarchio d’ora in poi «autorizzerà» qualsiasi altro sub della domenica a immergersi nei fondali inaccessibili dell’isola toscana, previa «raccomandazione» telefonica alle cosiddette autorità. Insomma, se si comporterà come s’è comportato il subacqueo di Montecitorio il 26 agosto 2008, mandando avanti il suo caposcorta, rischierà punto. Giurisprudenza diving.

«Grazie a questa decisione – attacca Rienzi – chiunque voglia farsi un bagno nella acque protette di Giannutri potrà farlo senza correre il rischio di violare le norme a tutela dell’ambiente purché, però, dimostri di aver fatto un paio di telefonate alla Capitaneria di porto o ad altro ente locale». Per capire come si è arrivati all’assoluzione di tutti gli imputati (Fini non è stati mai nemmeno indagato) occorre rituffarsi nel passato, fino a quel giorno dell’agosto di tre anni fa quando il futuro leader del Fli e la signora Tulliani, con tanto di muta, pinne e bombole, accompagnati sul posto da una pilotina dei vigili del fuoco, vennero immortalati dai fotografi dell’associazione ambientalista Legambiente mentre, per diletto, impunemente, violavano i divieti previsti nell’area protetta «1» (pesca, navigazione, ancoraggio, sosta e immersione) fermandosi all’altezza della costa dei «Grottoni».

Il Codacons inviò subito un esposto in procura. Le foto dell’onorevole sommozzatore erano nitide, la location proibita pure, le immagini non ammettevano dubbi. Così le indagini accertarono come effettivamente «una imbarcazione dei vigili del fuoco era entrata nella zona parco 1, località Grottoni, pur non avendo ottenuto i preventivi nulla osta dell’Ente Parco». Dopodiché i «successivi accertamenti identificavano i pubblici ufficiali che partecipavano all’escursione, ritenuti possibili responsabili del reato». Sott’inchiesta finirono il capo scorta di Fini, i pompieri che lo scortarono a Giannutri, il responsabile della Capitaneria che ricevette le telefonate dal braccio destro del presidente della Camera. Solo che ognuno, discolpandosi, offriva una versione dei fatti differente. E così, anziché affidare al dibattimento l’accertamento della verità, il pm ha optato per una richiesta di archiviazione basata sull’impossibilità di accertare le responsabilità dello sconfinamento in acque protette.
E il gip di Grosseto, Montesarchio, ha accolto quella richiesta con un’ordinanza di archiviazione che ha mandato il Codacons su tutte le furie. La violazione, e non poteva essere altrimenti, è accertata anche secondo il giudice. Che scrive però come non sia «possibile individuare con certezza il soggetto a cui attribuire la penale responsabilità per il fatto contestato».

I tre pompieri della squadra sommozzatori, infatti, per il gip hanno «credibilmente» agito «nell’adempimento di un obbligo di servizio, e quindi nell’adempimento di un dovere, prestando l’assistenza a loro richiesta». Il caposcorta del presidente della Camera, Fabrizio Simi, sempre secondo il gip vede «parzialmente riscontrata» la versione data a verbale, di non aver «consapevolezza e volontà di violare le disposizioni normative vigenti a tutela dell’ambiente nell’area interessata». Questo, tra l’altro, perché è riscontrato che abbia chiamato due volte il comandante della capitaneria di Porto. Simi sostiene di averlo fatto per essere autorizzato. Il comandante nega assolutamente il contenuto delle conversazioni, ma conferma le chiamate, e tanto basta. D’altra parte, anche il numero uno della Capitaneria, Maurizio Tattoli, indagato a sua volta, va archiviato, secondo il gip, semplicemente perché non aveva alcun «potere autorizzatorio».

Un balletto di versioni e racconti che manda tutto in archivio. E a parte la discutibile figura, a Fini e alla Tulliani è andata pure meglio: pagando a ottobre 2008 412 euro di multa, hanno chiuso la questione. Prezzo non troppo proibitivo, per l’immersione proibita.

…..Dopo Montecarlo, arriva una nuova archiviazione per Fini da parte di una Magistratura assai benevola. Una nuova ragione per domandarsi se per caso non abbia ragione Berlusconi quando sostiene che tra Fini e certa magistratura sia stato sottoscritto un accordo per impedire che vada in porto qualsivoglia riforma della Giustizia che non piaccia alle toghe rosse. Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi diventano una prova. Aspettiamo il terzo indizio. g.

COSA FA PAURA AI GIUDICI? LAVORARE. LA PROVOCAZIONE DI FILIPPO FACCI

Pubblicato il 15 aprile, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Sette anni per il primo grado Parmalat. Viareggio? Non c’è nemmeno la prima udienza. Colpa del processo breve?

Libero-news.it

L

a paura è che gli tocchi di lavorare, anzi neanche, perché se i magistrati in futuro non riusciranno a chiudere un primo grado in qualcosa come tre anni (tre anni, non tre giorni) potranno sempre dire che è colpa di Berlusconi: eppure lo sanno tutti che i magistrati lavorano mediamente poco, che non di rado tizio «oggi non c’è», che caio «oggi lavora a casa», che sempronio «oggi non è venuto», che pochi si sobbarcano il lavoro di molti, che molti sono imboscati o fuori stanza: perché sono uomini e funzionari e dipendenti statali come gli altri, la differenza è che non timbrano il cartellino (e dici poco) e che in qualche caso si sentono eticamente superiori agli altri salariati pubblici. Cosicché i problemi sono sempre altrove: è colpa della «mancanza di risorse» se al pomeriggio in tribunale c’è il deserto dei tartari, è colpa della «cattiva organizzazione» se molti magistrati appongono fuori dalla porta gli orari di ricevimento come se fossero insegnanti delle medie, e se un avvocato cerca un fascicolo e però il pm l’ha portato a casa. Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, lo disse chiaramente in un libro di Massimo Martinelli: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza».

Ecco perché i parenti delle vittime di Viareggio dovrebbero farsi spiegare, dai magistrati, come abbiano fatto a non fissare neppure la prima udienza dopo due anni e mezzo; i terremotati dell’Aquila dovrebbero farsi spiegare se undici anni e otto mesi non siano più che sufficienti per definire un giudizio ed evitare la prescrizione; mentre i risparmiatori truffati dalla Parmalat dovrebbero farsi spiegare, pure, perché siano serviti sette anni per un primo grado sulla bancarotta, mentre il processo bis – quello contro le banche – attende ancora la prima sentenza. Già oggi vanno in prescrizione 450 processi al giorno: i magistrati non hanno nessuna responsabilità in tutto questo? E neppure i 51 giorni di ferie l’anno – record italiano – significano niente? Si saranno mai chiesti, i magistrati, perché la vecchia uscita del ministro Renato Brunetta sui tornelli a palazzo di Giustizia, in un sondaggio pubblicato dal Corriere nell’ottobre 2008, vide favorevole l’80 per cento dei votanti? Anche Giuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Suggerì che si facesse come quel procuratore capo che ogni mattina bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono gli stakanovisti.

A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni: feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Il primo grado oltretutto aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando – sacrilegio – anche sino al tardo pomeriggio, talvolta – pazzesco – anche nei weekend. Nelle scorse settimane, in compenso, un’intera procura che doveva mandare alla sbarra Berlusconi – caso Ruby – si è fatta prestare gente da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie: del resto la prostituzione minorile è il problema cardine del Paese. Già che ci siamo: Antonio Di Pietro ha perfettamente ragione a dire che la giustizia italiana funziona benissimo e che il processo breve in sostanza c’è già: nel febbraio 2009 fu inquisito per offesa al Capo dello Stato e prosciolto in dieci giorni, tempo necessario affinché il pm compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni; Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già dai tempi di Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero ai terzo grado in soli tre anni; lo dimostrò anche quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica nel febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo; e che la giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, statistiche alla mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore.

Tutto il resto, meno rilevante, va come  sappiamo: sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale in primo grado. È per questi processi che manca la carta per le fotocopie, che Tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio. di Filippo Facci, Libero, 15 aprile 2011

LA GIUSTIZIA USATA PER FINI ELETTORALI

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Giustizia, il testo sul processo breve arriva in Senato Poverini. Almeno a sentire i vertici del tribunale di Milano, i magistrati che vi lavorano sono “infastiditi” per il chiasso, diciamo così, dei processi a Silvio Berlusconi. I cui elettori, rintuzzati da dimostranti di opposto orientamento, si radunano davanti al Palazzo di Giustizia ogni volta che c’è udienza a suo carico per incoraggiarlo. E per raccoglierne i ringraziamenti e gli sfoghi sulla situazione “irreale” in cui egli si trova, costretto a dividersi in momenti difficili come questi fra gli impegni di capo di governo e di plurimputato. Anche per ovviare a simili inconvenienti il Parlamento ha più volte tentato non di cancellare, come sostengono le opposizioni, ma di sospendere i processi al presidente del Consiglio, e ad altre autorità istituzionali, durante l’esercizio del loro mandato, bloccandone contemporaneamente i termini di prescrizione. Lo ha fatto, in particolare, con diversi “lodi” e infine con la legge sul cosiddetto legittimo impedimento. Ma i magistrati di Milano, sempre loro, si sono costantemente opposti ricorrendo con successo alla Corte Costituzionale, le cui decisioni hanno consentito la ripresa dei processi, tutti insieme. L’elenco si è anzi allungato con il procedimento, ancora più clamoroso degli altri, che porta il nome di Ruby. E che ha ottenuto addirittura la corsia preferenziale del rito immediato per la presunta, assai presunta, completezza di prove addotta dagli inquirenti. Visti i loro insistenti e riusciti ricorsi alla Corte Costituzionale, il meno che si possa dire del “fastidio” ora lamentato dai magistrati milanesi è che se la sono cercata, sottovalutando peraltro le doti comunicative del loro imputato eccellente. Ma non minori sono naturalmente le responsabilità dei giudici costituzionali, che con le loro decisioni hanno disatteso anche il presidente della Repubblica. Il quale ci aveva messo la faccia nella promulgazione di leggi studiate apposta per risparmiare al Paese gli imbarazzanti spettacoli di questi giorni.

La Corte Costituzionale è alquanto permalosa quando se ne criticano le sentenze e se ne ricorda la natura oggettivamente politica, derivante dal fatto che i suoi giudici sono per i due terzi nominati o eletti, rispettivamente, dal capo dello Stato e dal Parlamento. D’altronde, essa fu definita una “bizzarria” all’Assemblea Costituente da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. Non minori furono le preoccupazioni successivamente espresse dall’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che il 20 giugno 1952 scrisse così al suo vice Attilio Piccioni: «Diffido dell’Alta Corte, che diventerà, temo, un corpo politico paralizzatore». I fatti purtroppo gli hanno dato ampiamente ragione, così come ha ragioni da vendere il Cavaliere quando ne sostiene la riforma. Ma torniamo ai processi di Berlusconi e ai «fastidiosi» inconvenienti improvvisamente scoperti dai magistrati che li hanno promossi e li conducono. Di tutti, il più clamoroso, come ho già scritto, è quello che porta il nome di Ruby. Esso però è anche il più lontano dall’epilogo, a dispetto del suo rito abbreviato, e il più evanescente. L’accusa sostiene che il presidente del Consiglio abbia concusso qualcuno alla Questura di Milano telefonando l’anno scorso a favore di una minorenne che vi era trattenuta e che in precedenza avrebbe fatto sesso con lui a pagamento, ma al processo nessuno si è costituito parte civile come concusso. Né si è costituita come parte lesa la ragazza, che nega di avere fatto sesso con l’imputato. A corto di speranze su questo accidentatissimo percorso giudiziario, per quanto disseminato di carte e di intercettazioni adatte allo sputtanamento del Cavaliere, le opposizioni si sono aggrappate al processo che porta il nome dell’avvocato inglese Mills perché lo considerano il più vicino ad una sentenza di condanna di Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. Gli si sono talmente aggrappate da avere alzato le barricate ostruzionistiche contro una legge all’esame della Camera perché contiene una norma che lo farebbe decadere in poche settimane. Essa accorcia di un sesto i tempi di prescrizione per gli incensurati, qual è ancora il presidente del Consiglio, nonostante i tentativi in corso da una ventina d’anni di farne un pregiudicato. Il fatto è però che anche senza questa norma il processo Mills non ha alcuna possibilità di concludersi con una sentenza definitiva, scattando comunque la prescrizione a fine gennaio dell’anno prossimo. Rimarrebbe a portata di mano solo una sentenza di condanna di primo grado, tanto ininfluente sul piano giuridico, mancando un verdetto definitivo di secondo o terzo grado, quanto spendibile sul piano propagandistico contro il Cavaliere. Ecco a che cosa mirano i suoi avversari, togati e non: alla ennesima, arbitraria speculazione elettorale. Che il presidente del Consiglio e la maggioranza parlamentare, a questo punto, cercano legittimamente di impedire. Di un processo destinato a dissolvenza naturale una magistratura svincolata da visioni e interessi politici si libererebbe da sola, come fa con tanti altri procedimenti analoghi, dando la precedenza a processi di più sicura prospettiva. Non è evidentemente il nostro caso. C’è da esserne non infastiditi ma indignati. Francesco Damato, Il Tempo, 13 aprile 2011

E’ ORA DI FERMARE IL PARTITO DEI GIUDICI

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Oggi alla Camera c’è la partita che vale la stagione. Si vota per ap­provare la prescrizione breve agli incensurati, ma sarebbe ri­duttivo vederla solo così. Si vota per ripri­stinare l’autonomia del potere legislati­vo da quello giudiziario. Si vota per dire che finalmente nessuno si farà più inti­midire dalle scorribande nella politica. Sì vota per decretare il fallimento del pat­to occulto tra Fini e la magistratura per disarcionare Berlusconi e il suo gover­no. Si vota per dimostrare che in demo­crazia comandano le maggioranze elet­te, non le lobby, le caste, i giornali, i san­toni. E si vota anche per Silvio Berlusco­ni. E perché no? Non c’è il male nel fatto che una maggioranza difenda il suo lea­der dalla più spudorata e violenta ag­gressione giudiziaria della storia. Le opposizioni hanno fatto ieri e faran­no oggi ostruzionismo leggendo in aula articoli della Costituzione, come atto estremo e solenne di difesa del Paese. Certo che al ridicolo non c’è limite.

D’Alema e Bersani martiri di chi? Della prescrizione breve, norma già in vigore in tutti i Paesi occidentali? La sinistra sta giocando sulla pelle della gente. La real­tà è che, a fronte di una norma di civiltà, rischiano di saltare lo 0,2 per cento dei processi penali, nulla in confronto ai procedimenti che vanno già ora in pre­scrizione per la lentezza e l’incapacità di certi magistrati. Bersani e D’Alema laCostituzione do­vrebbero leggerla sì, ma all’articolo che sancisce la libertà e la segretezza delle comunicazioni private tra cittadini, quello violato dalle intercettazioni tele­foniche selvagge ordinate dalle procure per spiare la vita degli italiani. Dovrebbe­ro leggerla, loro e Fini, nelle parti che sta­biliscono l’autonomia e l’indipendenza del potere legislativo da quello giudizia­rio. Ma, soprattutto, mi chiedo che sen­so abbia che ex comunisti sventolino la Costituzione come se fosse cosa loro.

Per quarant’anni ne hanno tradito l’es­senza, complottando occultamente con­tro l’Occidente, e quindi l’Italia, assie­me (e finanziati) all’alleato Unione So­vietica. Se oggi siamo una democrazia è perché questi signori hanno perso e al­tri, in nome della Costituzione, hanno vinto. Cari compagni, la Costituzione non è il Libretto Rosso di Mao. Addirittura, co­me previsto da chi l’ha scritta, la si può cambiare. Che piaccia o no a voi, a Di Pietro e ai magistrati. Il Giornale, 13 aprile 2011