Archivio per la categoria ‘Giustizia’

POVERA YARA, UCCISA SETTE VOLTE

Pubblicato il 24 marzo, 2011 in Cronaca, Giustizia | No Comments »

Caso Gambirasio, ognuno spara la sua ipotesi sulla 13enne. Anche per coprire troppi errori

L’hanno uccisa ancora. L’hanno ammazzata per la settima volta, la piccola Yara Gambirasio. Giornalisti (anche noi) e trasmissioni tv, criminologi, inquirenti, magistrati, teorie e indiscrezioni: da quel 26 febbraio, giorno in cui la ragazzina è stata trovata morta a Chignolo d’Isola (era sparita esattamente tre mesi prima a Brembate Sopra, a 700 metri da casa), si è ipotizzato di tutto. Troppo, a volte con dettagli macabri e inutili. A volte con teorie fantasiose ed esagerate. A volte con mezze smentite e tanti non so di comodo, utili soltanto ad allentare la pressione e mascherare gli errori delle indagini. E se all’inizio, appena ritrovato il cadavere, tanta era la voglia di far luce sul terribile omicidio che aveva commosso (e continua a commuovere) l’Italia che veniva d’istinto cercare – in tutti i modi – di capire le dinamiche del delitto, ora forse sarebbe il caso di rallentare. Stare zitti. Aspettare gli esiti ufficiali dell’autopsia, che è stata complicatissima (viste le condizioni del corpo) e richiede ancora un po’ di attesa. Anche perché, sulla morte di Yara, ormai è stato ipotizzato di tutto e l’ultima teoria mancante era proprio  quella – appunto – che ha ucciso (simbolicamente) la giovane ginnasta per la settima volta. La nuova indiscrezione battuta dalle agenzie dice che ad ammazzare Yara sarebbe stato un taglio che avrebbe reciso la trachea, provocando così una crisi respiratoria, poi causa del decesso.

Eppure solo pochi giorni fa si parlava di strangolamento. «Troppe invenzioni giornalistiche – ha accusato  il pm Letizia Ruggeri – non c’è, non esiste lo strangolamento. Non so da dove escano certi dettagli, anche il fatto che ci sarebbero segni sul collo della ragazza. Al momento non sappiamo quale è la causa esatta della morte. Posso dire che sul volto e sulla testa ci sono tre aree di infiltrazioni ematiche anomale, che denotano i colpi subìti.
Se si è trattato di pugni o di un corpo contundente è difficile dirlo. Non ci sono riflessi di quei colpi sulle ossa del volto e del cranio». Mezze conferme e mezze smentite. Mezze interviste (o si parla chiaramente, oppure è meglio stare zitti) che non aiutano certo a fare chiarezza e non hanno aiutato a farla in questi mesi. Yara, la prima volta, è stata ammazzata con sei coltellate o, in alternativa, sei colpi di cacciavite anche se non si è mai capito quale sarebbe stato quello letale. Poi, dopo qualche giorno, una nuova teoria: a uccidere la ragazzina sarebbero state due armi differenti, una lama e un altro oggetto invasivo, una pietra o qualcos’altro. Smentite. Silenzi. Qualche ammissione del pm. Poi, l’ipotesi soffocamento. Accantonata (Ruggeri: «Non penso che sia morta per asfissia»). E ancora, durante una conferenza stampa, il procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, ha spiegato che l’agonia della ragazzina non sarebbe stata breve, non escludendo, quindi, che potrebbe essere “morta di freddo” (teoria che ora sembra scartata). A sorpresa, poi, lo scenario più strano. Yara sarebbe stata uccisa per un rito satanico e dunque la sua morte sarebbe avvenuta per dissanguamento.
Una, due, tre, quattro, cinque, sei volte uccisa, povera Yara. Ora, con il taglio della carotide, l’hanno ammazzata per la settima volta. Troppo. Adesso basta, lasciamola riposare in pace e aspettiamo gli esiti ufficiali dell’autopsia. di Alessandro Dell’Orto,24/03/2011

ASSOLTO IL TABACCAIO CHE NEL 2003 UCCISE UN RAPINATORE: LEGITTIMA DIFESA

Pubblicato il 21 marzo, 2011 in Cronaca, Giustizia | No Comments »

Un'immagine del 2003

Il tabaccaio Giovanni Petrali che nel maggio del 2003 uccise un rapinatore e feri’ un suo complice, che avevano tentato di mettere a segno una rapina nella sua tabaccheria, e’ stato assolto in appello dalla accusa di omicidio, perche’ i giudici hanno ritenuto sussistente la legittima difesa. In primo grado era stato condannato a 1 anno e 8 mesi per omicidio colposo.

Il sostituto procuratore generale di Milano, Piero De Petris, aveva chiesto una condanna per il commerciante a 9 anni e mezzo di reclusione per omicidio volontario e tentato omicidio, come aveva fatto anche in primo grado il pm. L’uomo però nel febbraio del 2009 era stato condannato a 1 anno e 8 mesi con la sospensione della pena per omicidio colposo e lesioni colpose, perché i giudici avevano ritenuto che l’anziano commerciante era incorso in un errore di percezione, essendo sconvolto al momento della rapina. Oggi i giudici della prima corte d’assise d’appello, presieduti da Maria Luisa Dameno, in parziale riforma della sentenza di primo grado, hanno dichiarato “non punibile” Petrali per i reati di omicidio e lesioni colpose contestati in virtù del riconoscimento della “legittima difesa putativa” ossia, il commerciante riteneva in quel momento di agire in uno stato di legittima difesa. Il secondo capo di imputazione, invece, ovvero la detenzione e il porto dell’arma all’esterno del locale, è stato dichiarato prescritto. Il 17 maggio del 2003, il commerciante aveva ucciso con un colpo di pistola il rapinatore Alfredo Merlino e aveva ferito al polmone il suo complice, Andrea Solaro. I due avevano cercato di mettere a segno un colpo nel suo bar-tabacchi di piazzale Baracca.

I giudici della prima corte d’assise d’appello di Milano hanno anche disposto la restituzione della pistola, con cui l’uomo sparò, all’imputato. L’arma, con la quale quel 17 maggio del 2003 Petrali sparò sette colpi, era stata sequestrata e i giudici di primo grado avevano stabilito che venisse confiscata. Gli avvocati del tabaccaio, invece, nei motivi d’appello avevano chiesto il dissequestro e la restituzione della pistola, che oggi i giudici hanno accolto.

“Mio padre non farebbe una scelta del genere, di detenere una pistola, per evitare qualsiasi tipo di decisione da prendere in quegli istanti”. Lo ha spiegato Marco Petrali, avvocato e uno dei figli di Giovanni Petrali. “Oggi è stata scritta una bella pagina di giustizia”, ha commentato Marco Petrali, che difende il padre assieme all’ avvocato Marco Martini. L’altro figlio del commerciante, Antonio Petrali, ha detto che con la sentenza di oggi “é una storia finita e siamo tutti felici”. E sui colpi esplosi da suo padre nei confronti dei rapinatori, ha aggiunto: “Meglio un brutto processo che un bel funerale”. Il fratello, poi, ha spiegato che il padre, dopo l’episodio, ha sempre detto che non farebbe più la scelta di tenere in negozio un’arma. Il Corriere della Sera, 21 marzo 2011

……………Almeno questa volta s’è trovato un giudice a Berlino che ha fatto giustizia, assolvendo il tabaccaio.

SENTENZA DELLA CASSAZIONE: SOLO IL CROCEFISSO PUO’ STARE NEI TRIBUNALI ( E NEGLI ALTRI UFFICI PUBBLICI)

Pubblicato il 14 marzo, 2011 in Cronaca, Giustizia | No Comments »

ROMA – Per esporre negli uffici pubblici, tra i quali rientrano le aule di giustizia, simboli religiosi diversi dal crocefisso «è necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste». Lo sottolinea la Corte di cassazione nelle motivazioni con le quali ha confermato la rimozione dalla Magistratura del giudice «anticrocefisso» Luigi Tosti, che rifiutava di tenere udienza finché il simbolo della cristianità non fosse stato tolto da tutti i tribunali italiani. In alternativa Tosti chiedeva, anche in Cassazione, di poter esporre la Menorah, simbolo della fede ebraica.

RISCHIO DI «POSSIBILI CONFLITTI» – Dopo aver respinto la pretesa di Tosti per quanto riguarda la richiesta di esporre il simbolo ebraico accanto al crocefisso, la Cassazione rileva che una simile scelta potrebbe anche essere fatta dal legislatore valutando, però, anche il rischio di «possibili conflitti» che potrebbero nascere dall’esposizione di simboli di identità religiose diverse. «È vero che sul piano teorico il principio di laicità – scrive la Cassazione – è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto (laicità per addizione) che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione)». «Tale scelta legislativa, però, presuppone – spiega la Cassazione – che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo o del non credente, nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili». Il Corriere della Sera, 14 marzo 2011

CASA DI MONTECARLO: IL GIP ARCHIVIA L’INCHIESTA E GRAZIA FINI

Pubblicato il 14 marzo, 2011 in Cronaca, Giustizia, Politica | No Comments »

Roma – Una decisione da copione. Il gip del tribunale di Roma ha archiviato il procedimento a carico del presidente della Camera, Gianfranco Fini, e del senatore Francesco Pontone. I due erano accusati di truffa per la vendita dell’appartamento in boulevard Princesse Charlotte a Montecarlo, che era stata donata nel 1999 dalla contessa Anna Maria Colleoni ad Alleanza nazionale e in un secondo momento venduta a una società off shore.

La decisione del gip di Roma Il gip Carlo Figliolia ha accolto le richieste di archiviazione formulate da procuratore Giovanni Ferrara e dell’aggiunto Pierfilippi Laviani, secondo i quali nel 2008 non vi fu da parte dell’allora presidente di An Fini e del tesoriere Pontone alcun artificio o raggiro nella cessione alla società off shore della casa di boulevard Princess Charlotte. Nel sostenere l’assenza di elementi penalmente rilevanti, la procura riteneva che la questione della vendita dell’immobile, avvenuta a un prezzo inferiore al valore di mercato, poteva presentare al massimo aspetti civilistici. L’indagine della procura aveva preso il via dalla denuncia presentata da due esponenti di La Destra, Roberto Buonasorte e Marco Di Andrea, che si erano poi opposti alla richiesta di archivazione. Secondo i denuncianti, i pm avevano omesso, tra l’altro, di sentire Giancarlo Tulliani, fratello dell’attuale compagna di Fini, che, stando alla documentazione consegnata dal ministro della Giustizia del governo di Santa Lucia, risulterebbe titolare delle varie società off-shore protagoniste, in tempi diversi, della compravendita dell’appartamento di Montecarlo. La procura, però, aveva definito del tutto “irrilevante” il contenuto della carte fatte pervenire “con una nota riservata e confidenziale” al nostro ministero degli Esteri dal governo di Santa Lucia. Dalle indagini, avevano spiegato i pm, “è risultato che Fini, all’epoca della vendita, era amministratore esclusivo del partito Alleanza Nazionale, con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, sicchè il predetto, in autonomia, ha deciso e disposto la vendita dell’appartamento, senza artifizi e raggiri e senza induzione di terzi in errore”. A parere dei magistrati di piazzale Clodio, “nessun ruolo penalmente rilevante” poteva “assumere la condotta del senatore Pontone, il quale, nel caso in esame, ha rivestito la mera figura di mandatario dell’onorevole Fini, firmando l’atto notarile di compravendita alle condizioni indicate dal mandante e in virtù di procura generale a lui conferita il primo dicembre 2004 dal presidente Fini stesso”. Dunque, secondo chi indaga, la documentazione riservata sull’appartenenza delle società off shore Printemps ltd, Timara ltd e Jaman Directors ltd, tutte con sede a Santa Lucia, lascia il tempo che trova.

Storace: “Reagiremo” “Dice il mio portiere che la legge è uguale per tutti. Ma credo che stia cambiando città, regione, paese”, scrive Francesco Storace segretario nazionale de La Destra. “Spero di non dovermi beccare la solita querela dagli incriticabili giudici di questo paese – scrive il segretario de La Destra – ma è davvero da lasciare senza fiato la sentenza del gip Figliolia sulla casa di Montecarlo: archivio. E’ lì che finisce una storia che ha indignato tutti tranne i faziosi. Da oggi, 14 marzo, si stabilisce che non è reato vendere sottocosto il bene di un’associazione che si presiede, qual è un partito”. “Si stabilisce che è normale che un partito venda a società off shore un bene che possiede frutto di una donazione – prosegue – Si stabilisce che è inutile frignare se quel bene, donato per ‘la buona battaglia’ finisce nella disponibilità del cognato di chi guida il partito. Tutto questo non lo si può ufficialmente chiamare vergogna, altrimenti arriva la querela. Come predica Ingroia. Lo chiameremo Andrea, ma non cambia poi molto. Abbiamo un giudizio molto negativo sulla sentenza. Almeno questo lo si può dire, signor giudice?”. “Ovviamente non ci fermiamo – conclude – C’è la Cassazione, c’è la sede civile, molte sono le sedi giurisdizionali dove far valere le ragioni di una comunità che non si arrende. In ultima analisi, sia maledetto quel bene e chi lo detiene abusivamente. E chi glielo ha regalato, alla faccia di ventisette ragazzi morti ammazzati. È alle loro famiglie che Gianfranco Fini deve chiedere scusa. Quello che è successo può sfuggire alla legge, ma non alla morale, ell’etica, alla politica. Reagiremo, eccome se reagiremo”. Il Giornale, 14 marzo 2011

RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: BISOGNA FARLA PER TRE MOTIVI SEMPLICI

Pubblicato il 13 marzo, 2011 in Giustizia | No Comments »

Eugenio Montale diceva che «la semplicità è difficile a farsi». La riforma della giustizia non è un testo poetico, ma si compone di cose molto semplici. Berlusconi si è fi­nalmente deciso a provarci sul serio. E, naturalmente, siccome siamo un Pa­ese in cui i guru dell’opinione pubbli­ca di sinistra si comportano in modo sempre più fanatico, e incivile, si sta scatenando l’inferno. Un inferno fatto di menzogne, di manipolazioni, di de­pistaggi. La più grave manomissione è che i magistrati dell’accusa, quelli che fanno della militanza corporativa e sin­dacale una piattaforma per muovere guerra al «nemico assoluto», abbiano condannato una proposta del gover­no al Parlamento prima ancora di aver­la letta e che abbiano dichiarato senz’altro la mobilitazione generale nel Paese e nei media compiacenti. La lotta faziosa di una parte dell’ordi­n­e giudiziario contro il potere legislati­vo, inaudita in un Paese liberale qua­lunque, è uno scandalo istituzionale. E il presidente del Consiglio superiore della magistratura, che è il capo dello Stato Giorgio Napolitano, sarà inevita­bilmente spinto, sulla scia di suoi pre­cedenti interventi, a richiamare i pm, non soltanto con la sua persuasione morale ma con i suoi poteri di primo magistrato d’Italia,al rispetto della Co­stituzione. In certi casi esercitare il pro­prio dovere di persuasione morale è af­fare di una semplicità che non è «diffi­cile a farsi »: forniscano i togati una con­sulenza nelle sedi istituzionali, quan­do richiesti, e si conducano nella loro delicata funzione senza distrazioni po­litiche e senza aggressività verso chi ha il potere e il dovere di scrivere la leg­ge di cui i magistrati debbono limitarsi a essere «la bocca». Senza una leale col­laborazione istituzionale un Paese non si governa, e quel galantuomo di Napolitano è il primo a saperlo in virtù della sua lunga esperienza politica. Ma veniamo agli elementi semplici di cui la legge di riforma si compone. Il primo è che il magistrato inquirente deve essere messo sullo stesso piano del difensore, mentre chi giudica deve stare al di sopra delle parti. Questo è la «separazione delle carriere». Senza, non c’è vera giustizia, c’è una grotte­sca caricatura della giustizia. Se l’avvo­cato difensore è un mendicante di di­ritti appena tollerato mentre il pubbli­co ministero che indaga e promuove l’accusa è un collega di chi emetterà la sentenza, lavora con lui, fa la stessa carriera, si appoggia agli stessi uffici, ha con il giudice una quotidiana fre­q­uentazione e una comunanza di inte­ressi corporativi e professionali, la giu­stizia è negata in radice. Se chi oggi per­segue domani può giudicare, e vicever­sa, alla negazione si aggiunge la beffa. Il secondo elemento è la responsabi­lità verso i cittadini nell’esercizio della professione di magistrato. Se un fun­zionario qualsiasi sbaglia, e magari con dolo o comunque travolgendo i di­ri­tti del cittadino, quel funzionario pa­ga ragionevolmente le conseguenze dell’errore, è responsabile civilmente del proprio comportamento. Senza questa regola, l’ufficiale dell’anagrafe assonnato e distratto può prenderci a pernacchie quando gli chiediamo un certificato all’ora del caffè. E l’irre­sponsabilità dei magistrati ha conse­guenze più gravi di un dileggio o di un ritardo nel rilascio di una carta d’iden­­tità: pesa sulla vita delle persone, sul loro onore, sugli affetti, sulla salute, sulla libertà di noi tutti. La terza semplice verità è che non si può essere processati una seconda vol­ta dopo essere stati assolti. Perché? È facile da dire. Il diritto anglosassone stabilisce che si possa essere condan­nati solo se considerati colpevoli «al di là di ogni ragionevole dubbio»(l’avvo­cato Perry Mason nei vecchi telefilm contava su questa garanzia per trova­re il vero colpevole e scagionare l’inno­cente). L’esclusione di ogni possibile ombra è un ancoraggio oggettivo del giudizio, una garanzia decisiva per le libertà civili. Da noi il principio è che si può emettere sentenza in base al «libe­ro convincimento del giudice», un cri­terio meramente soggettivo. Bisogna invece che la libertà del giudice sia an­corata all’oggettività di una certezza come base per un giudizio nel giusto processo. Ed è ovvio che una sentenza di assoluzione lascia e lascerà sempre un ragionevole dubbio nell’aria, an­che se nel giudizio di appello arrivasse una condanna. Dunque: niente dop­pio processo una volta che l’imputato sia assolto perché manca una assoluta certezza processuale. A sinistra e tra i magistrati non fazio­si cresce da anni la consapevolezza che queste riforme liberali sarebbero un progresso decisivo. Da Falcone a Violante a molti altri, anche giovani in­­sofferenti dei vecchi schemi bellige­ranti, i fautori della separazione delle carriere di ieri e di oggi non si contano. I capi burocratizzati della sinistra, i rot­tamandi, alzano la voce per coprire questi dubbi. Lo stesso fanno i pm che scambiano il diritto per una baionetta su cui infilzare il nemico politico e civi­le. A Berlusconi e Alfano spetta dun­que di parlare un linguaggio costante, paziente, persuasivo e mai arrogante. E la battaglia è vinta. Gli italiani che giudicheranno con un referendum sanno da anni che la malagiustizia è un ostacolo etico alla loro libertà e un impedimento materiale allo sviluppo.

AL COSTITUZIONE DAY IL PM INGROIA FA UN COMIZIO CONTRO BNERLUSCONI. SE VUOLE SCENDERE IN POLITICA LASCI LA TOGA.

Pubblicato il 13 marzo, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Sul palco c’è un tribuno della plebe che arringa la folla. «Con questa controriforma ­dice – non è in gioco la separa­zione delle carriere, ma l’egua­glianza di tutti i cittadini di fronte alla legge». Si chiama Antonio Ingroia, nelle aule giu­diziarie veste la toga del pub­blico ministero, ma al «Costi­tuzione day », in piazza del Po­polo, a Roma, attacca il gover­no Berlusconi con i toni accesi del leader politico. Di manifestazioni ce ne so­no in tutt’Italia, gli organizza­tori parlano di un milione di partecipanti ma per il Vimina­le sarebbero 43mila in tutto, di cui 25mila nella capitale. È qui che il procuratore ag­giunto di Palermo fa il suo di­scorso, accanto agli esponenti dei partiti. «Il fatto che ci siano tanti italiani dimostra che ave­te capito che la cosiddetta ri­forma della giustizia in realtà è una controriforma. Non è solo una ritorsione contro la magi­­stratura, c’è in gioco una posta molto più grande. Se dovesse passare avremmo uno Stato di diritto azzoppato, sfigurato nei suoi principi fondamenta­li così come disegnati dai pa­dri costituenti». Il presidente dell’Anm, Lu­ca Palamara, con più cautela ha mandato un messaggio di «adesione e solidarietà» alle manifestazioni:«L’associazio­ne si riconosce in questi princi­pi ed è più che mai impegnata a difendere gli interessi della collettività, l’indipendenza e l’autonomia della magistratu­ra ». Palamara è della corrente maggioritaria Unicost e l’Anm, che il 19 dovrà decide­re sullo sciopero o altre forme di protesta, è sotto pressione soprattutto da parte delle cor­renti di sinistra, Magistratura democratica e Movimento per la Giustizia. Che chiedono addirittura le dimissioni delle toghe che lavorano al ministe­ro della Giustizia. Ingroia ci mette la faccia. Lo ha fatto altre volte, anche in di­­battiti tv come Annozero, ma stavolta incarna la fase due del­la rivolta della magistratura. Quella a lungo preparata nelle infuocate mailing list , in cui si reclama una svolta di aperta lotta politica dell’Anm.La stra­tegia è quella di allargare lo scontro sulla giustizia a tutti i cittadini, di convincere gli elet­tori a mobilitarsi soprattutto per mandare a casa il governo. Prima di Cristo i tribuni del­la plebe si opponevano ai magistrati dei patrizi grazie all’assoluta inviolabilità e sa­cralità della loro carica, la sa­crosanctitas , oggi i magistra­ti antiberluscones sventola­no nelle piazze la bandiera della loro sacrosanta autono­mia e indipendenza. Ha un bel dire il premier che questi principi non sono intaccati dalla riforma. Ha un bel ripe­tere il Guardasigilli Angeli­no Alfano che non c’è nessu­na «crociata» contro le to­ghe, ma si cerca il dialogo in Parlamento. I falchi del­l’Anm hanno già deciso che la riforma dev’essere il caval­lo di Troia per far crollare il palazzo del Cavaliere. Che non ci sia più spazio per alcuna prudenza, neppure per tutelare l’immagine di im­­parzialità del magistrato, lo di­mostra il comizio di Ingroia. «L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge- dice il pm an­­timafia, attirando gli applausi – non sarebbe garantita se il po­te­re giudiziario venisse schiac­ciato da quello politico. Il go­verno sta tentando di prende­re­il controllo diretto dell’azio­ne penale. La posta in gioco ha a che fare non tanto con il no­stro presente, ma con il vostro futuro». Paradosso. Il leader Pd Pier Luigi Bersani dice «non siamo il partito dei giudici e dei pm», proprio mentre Ingroia sem­bra candidarsi a nuovo leader del partito. «Come fa l’Anm ­dice il capogruppo alla Came­ra del Pdl Fabrizio Cicchitto­ a parlare di difesa,dell’indipen­denza dei magistrati, di fronte ad episodi così clamorosi di schieramento politico?». Lui, il tribuno della plebe In­groia, intanto ha già avuto un’investitura dalla piazza, con la colonna sonora dell’In­no di Mameli, mentre svento­lano testi della Costituzione e bandiere tricolore. Il Giornale, 13 marzo 2011

LA VERA STORIA DEL PROF. TRAVAGLIO

Pubblicato il 12 marzo, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Marco Travaglio è un professori­n­o del giornali­smo. Dà le pa­gelle a tutti i colleghi e vi­gliacco che uno prenda almeno una volta la suffi­cienza. Si è autonomina­to erede di Montanelli, con il quale millanta una lunga frequentazione, quasi fossero padre e fi­glio, fin da quando lavo­rava per Il Giornale del quale era, pagato da Ber­lusconi, vicecorrispon­dente da Torino, cioè nul­la. I miei colleghi più an­ziani del Giornale non ri­cordano di averlo mai vi­sto una volta nella reda­zione centrale e scom­mettono che Montanelli non sapeva neppure chi fosse. Quando Indro eb­be la sciagurata idea di mollare la sua creatura per fondare La Voce , Tra­vaglio lo seguì, «uno dei tanti, nulla di più», ricor­dano oggi i compagni di avventura rimasti sulla strada. A parte questa piccola mitomania, di Travaglio giornalista non si ricor­da nulla. Ha avuto più for­t­una con le carte giudizia­rie trasformate in libri, grazie ai quali ha fatto sol­di e raggiunto la fama. Ie­ri ha stroncato pure Giu­l­iano Ferrara e il suo ritor­no in tv da lunedì, ogni se­ra dopo il Tg1. Egocentri­co e invidioso, Travaglio ha sentenziato che Ferra­ra non è un giornalista. La prova? Il Foglio , quoti­diano diretto da Ferrara, vende poche copie, mol­te meno del suo Il Fatto. Sai che ragionamento. È come se il proprietario di un sexy-shop si vantasse di avere più clienti di una galleria d’arte. Per curiosità, siamo an­dati a vedere come sono finiti gli scoop di Trava­glio campione di giorna­lismo senza macchia. Ec­co un elenco, probabil­mente incompleto, delle sue prodezze. Salvo erro­ri ed omissioni, la situa­zione è questa (il voto lo lasciamo a voi lettori). Nel 2000 è stato con­dannato in sede ci­vile, dopo essere stato ci­tato in giudizio da Cesare Previti a causa di un arti­colo su L’Indipendente , al risarcimento del dan­no quantificato in 79 mi­lioni di lire. Il 4 luglio 2004 è sta­to condannato dal Tribunale di Roma in se­de civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processua­li) per un errore di omoni­mia contenuto nel libro La repubblica delle bana­ne scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. In esso, a pagina 537, si descriveva «Falli­ca Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia», «commercian­te palermitano, braccio destro di Gianfranco Mic­cichè… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito pro­mosso deputato nel colle­gio di Palermo Settecan­noli ».L’errore era poi sta­to trasposto anche su L’Espresso , il Venerdì di Repubblica e La Rinasci­ta della Sinistra , per cui la condanna in solido, oltre­ché su Editori Riuniti, è stata estesa anche al grup­po Editoriale L’Espresso. Il 5 aprile 2005 è sta­to condannato dal Tribunale di Roma in se­de civile, assieme all’allo­ra dir­ettore dell ’Unità Fu­rio Colombo, al pagamen­to di 12.000 euro più 4.000 di spese processua­li a Fedele Confalonieri (presidente Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclag­gio, reati per i quali, inve­ce, non era risultato inqui­sito.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha con­dannato a risarcire Fede­le Confalonieri, presiden­te di Mediaset, con 6.000 euro, a causa dell’articolo «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato nella rubrica Uliwood Party
su l’Unità il 6 luglio 2006

Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribu­nale di Roma in sede civile, as­sieme al direttore dell’ Unità Antonio Padellaro e a Nuova Iniziativa Editoriale, al paga­mento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornali­sta del Tg1 Susanna Petruni come personaggio servile ver­so il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubbli­cazione- si leggeva nella sen­tenza – difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffa­matorio ».

Nel gennaio 2010 la Cor­te d’Appello penale di Ro­ma lo ha condannato a 1.000 euro di multa per il reato di dif­famazione aggravato dall’uso del mezzo della stampa, ai dan­ni di Cesare Previti. Il reato, se­condo il giudice monocratico, sarebbe stato commesso me­diante l’articolo «Patto scellera­to tra mafia e Forza Italia» pub­blicato sull’ Espresso il 3 ottobre 2002. La sentenza d’appello ri­forma la condanna dell’otto­bre 2008 in primo grado inflitta al giornalista ad 8 mesi di reclu­sione e 100 euro di multa. In se­de civile, a causa del predetto re­ato, Travaglio era stato condan­nato in primo grado, in solido con l’allora direttore della rivi­sta Daniela Hamaui, al paga­mento di 20.000 euro a titolo di risarcimento del danno in favo­re della vittima del reato Cesare Previti. Pochi giorni fa, in attesa della sentenza di Cassazione, il reato è caduto in prescrizione grazie ad una inspiegabile len­tezza dei giudici a scrivere le motivazioni.

Il 28 aprile 2009 è stato condannato in primo grado dal Tribunale penale di Roma per il reato di diffa­mazione ai danni dell’allo­ra direttore di Raiuno, Fabri­zio Del Noce, perpetrato mediante un articolo pub­blicato su l’Unità dell’11 maggio 2007.

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazio­ne ( Terza sezione civile, senten­za 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giu­dice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il ma­nuale del perfetto inquisito , af­fermazioni giudicate diffama­torie dalla Corte in quanto riferi­te «in maniera incompleta e so­stanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sen­tenza di prescrizione o, comun­que, la mancata puntualizza­zione del­carattere non definiti­vo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definiti­va (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribuna­le di Torino- VII sezione civile ­a risarcire 16.000 euro al presi­dente del Senato Renato Schifa­ni ( che aveva chiesto un risarci­mento di 1.750.000 euro) per diffamazione, avendo evocato la metafora del lombrico e del­la muffa a Che tempo che fa il 15 maggio 2008. Il Giornale, 12 marzo 2011

RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: ALFANO TENDE LA MANO AL PD

Pubblicato il 12 marzo, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, tende la mano al Partito democratico e lo invita a presentare le sue proposte sulla riforma della giustizia. Ospite del Tg1, il guardasigilli ha detto: «Non comprendo le opposizioni che dicono no: c’è un testo, si parla da venti anni anni di riforma della giustizia. Il Parlamento sarà chiamato a confrontarsi su questo testo». «Noi abbiamo espresso la nostra opinione – ha aggiunto Alfano – crediamo sia dovere di un grande partito dell’opposizione come il Pd manifestare la propria opinione. È doveroso per il Pd dire realmente cosa pensa della riforma della giustizia: ci faccia sapere, se non condivide la nostra, qual è la sua idea. Possiamo confrontarci serenamente in Parlamento, abbiamo tanto tempo per approdare a un testo definitivo». Il titolare del dicastero di via Arenula ha anache avvertito: «La riforma non è una crociata contro la magistratura e la magistratura non deve fare una crociata contro la politica e crediamo anche che in una democrazia che funziona i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario debbano collaborare e giocare insieme la stessa partita per una grande squadra che si chiama Stato. «Quando la riforma sarà entrata in vigore – ha sottolineato il ministro della Giustizia – gli italiani potranno contare su giudice realmente equidistante». E poi, ha insistito, cone la riforma «si conclama il diritto dei cittadini, che dovessero aver patito un danno ingiusto, di fare azione per avere il giusto risarcimento».

Una linea che è condivisa anche dall’ex deputato verde Marco Boato, che fu relatore della riforma della Giustizia nella commissione bicamerale presieduta da D’Alema: l’opposizione «fa un grosso errore a rifiutare il confronto» e dire che il Paese ha «bisogno solo di leggi ordinarie, non è vero», significa «delegittimare il proprio passato». «Anch’io – ha spiegato – dò un giudizio drasticamente negativo sul premier e sulla sua maggioranza» ma è «sbagliato e anche un po’ suicida fare opposizione chiedendo tutti i giorni le dimissioni del presidente del Consiglio. Una volta che un Governo continua ad ottenere la maggioranza al voto di fiducia è privo di senso pretendere che si dimetta. Non si può anadare avanti per due anni, dicendo dimettiti». Anche Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, aveva avvertito: «La riforma della giustizia proposta dal governo Berlusconi tiene conto di un dibattito che anche la sinistra nel passato ha affrontato con alcune proposte analoghe. Il testo presentato in Consiglio dei ministri, infatti, riprende anche parte di vecchie proposte, da Boato a quelle del Pd più recenti. Ci sono quindi i presupposti per confrontarsi liberamente senza pregiudizi, per avere certezza della pena, meno politica tra le toghe e più rapidità dei giudizi». Il Tempo, 12 marzo 2011


GIUSTIZIA: ALCUNI PUNTI FERMI

Pubblicato il 11 marzo, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

editoriale di Pierluigi Battista, Il Corriere dell a Sera, 11 marzo 2011

Sulla giustizia si potrebbe evitare l’ennesima guerra di religione, se ambedue gli schieramenti la smettessero di farsi imprigionare dall’incubo di Silvio Berlusconi. Certo, sembra impossibile scindere il tema della giustizia dalle vicende giudiziarie che riguardano il premier. Ma bisogna liberarsi dalla dittatura delle convenienze. E non aver paura di entrare nel merito delle cose, uscendo dallo schema perenne di una maggioranza prepotente e di una opposizione rinchiusa nella retorica impotente del «no» globale e preventivo.

La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non può essere un tabù per il centrosinistra, anche se a proporla è il governo Berlusconi. Superfluo ricordare che quel tabù venne già violato nella Bicamerale presieduta da D’Alema tra il ‘96 e il ‘98. E del resto l’imparzialità e la terzietà del giudice rispetto alle parti è una garanzia per lo Stato di diritto tanto quanto l’indipendenza della magistratura dal potere politico. Un’opposizione libera dall’incubo di Berlusconi non potrebbe forse trovare un terreno di interlocuzione sul tema della terzietà, contrastando al contempo ogni tentazione di subordinazione dei pubblici ministeri agli imperativi della politica? Non è un tabù nemmeno la responsabilità civile dei giudici laddove sia ravvisabile un dolo nei loro comportamenti: se non altro perché un referendum ne ha sostenuto il principio (poi disatteso) già negli anni Ottanta. Perché la sinistra garantista dovrebbe avere paura di un principio che vincola i magistrati a una condotta di responsabilità simile a quella cui devono giustamente attenersi tutti i professionisti che svolgono attività su temi delicatissimi per la vita e la libertà dei cittadini? Sull’obbligatorietà dell’azione penale, poi, spieghi l’opposizione se oggi questa regola viene effettivamente osservata nelle procure italiane, o se i fascicoli che si accumulano sulle scrivanie dei tribunali non siano smaltiti con criteri che con l’«obbligatorietà» hanno poco a che fare.

Di tutto questo si può e si deve discutere, senza gridare all’«eversione» per proposte opinabili ma non incompatibili con i principi dello Stato di diritto. «Discutere», però, deve valere per tutti. Per il Pd, che può trovare un’occasione per smarcarsi dall’ipoteca giustizialista di Di Pietro. Ma soprattutto per la maggioranza di governo che non può procedere a strappi, spallate, ultimatum. Che non deve lasciarsi sopraffare da sentimenti di vendetta politica nei confronti della magistratura. Che non può pretendere di vendere un pacchetto preconfezionato senza ascoltare un’opposizione dialogante, i magistrati, gli avvocati e, naturalmente, i consigli saggi del presidente della Repubblica. I modi e i toni con cui la riforma della giustizia è stata annunciata lasciano temere il peggio. Ma la maggioranza è ancora in tempo a rovesciare questa impressione. Per realizzare con serietà, e senza proclami bellicosi, una riforma promessa oramai da 17 anni. Nell’interesse di tutti, e non per la conquista di un trofeo.

.……….Le considerazioni di Battista sono condivisibili. Sia quelle riferite alla opposizione, sia quelle rifeirte alla maggioranza. Ma per quanto riguarda la maggioranza, ieri sera a Porta a Porta il ministro Alfano è stato chiaro e preciso: la maggioranza è pronta a discutere e migliorare il testo della riforma. Diverso l’atteggiamento della minoranza che per bocca di D’Alema ha subordinato la disponibilità a discutere solo se Berlusconi si dimette. Richiesta  ridicola o grottesca che pone problemi non alla maggiorazna ma alla minoranza. g.

LA CODA DI PAGLIA DEI MAGISTRATI SPIONI

Pubblicato il 10 marzo, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

I magistrati si sono molto arrabbiati do­po aver letto sul no­stro quotidiano di ie­ri le loro email nelle qua­li sparlano di Silvio Ber­lusconi e degli elettori del centrodestra. Ci cre­do, al loro posto avrei avuto la stessa reazione. Vedere pubblicato sui giornali cose che uno pensa debbano restare riservate fa girare i san­tissimi. Se poi queste co­se, come nel caso in que­stione, smascherano un progetto politico che do­veva restare segreto in quanto incompatibile con la loro professione e presunta indipendenza, be’ allora la rabbia di­venta ira.

Al punto che hanno riunito d’urgen­za i loro vertici e chiesto l’intervento del Garante della privacy per blocca­re il Giornale . Troppo onore. Abbiamo sempli­cemente fatto il nostro lavoro, cioè pubblicato una notizia. Soltanto che in questo Paese, per non finire nei guai, si possono pubblicare esclusivamente le noti­zie gradite ai magistrati politicizzati, cioè funzio­nali al processo mediati­co contro Berlusconi e il suo governo. In quel ca­so non c’è privacy, anzi è tutto un bunga bunga dell’informazione dove chi più ne ha più ne met­ta, senza che nessuno lo disturbi. È poi paradossale che chi dello spiare e dell’en­trare nelle vite private senza regole e rispetto ne ha fatto una norma, oggi si atteggi a verginel­la di fronte alla pubblica­zione dei propri deliri af­fidati a una rete inter­net, che sarà anche riser­vata ai magistrati ma non certo segreta per­ché costituirebbe reato.

Riservata sì, ma come le migliaia di telefonate che ogni giorno vengo­n­o intercettate e non get­tate anche se il contenu­to nulla ha a che fare con un reato. Riservata co­me riservata dovrebbe essere la casa e il corpo di giornalisti di questa te­stata che sono stati per­quisiti, direi violentati psicologicamente, in cerca di fantomatici dos­sier che ovviamente non esistevano. Questi magistrati che chiedono di censurare il Giornale hanno la coda di paglia. Dopo aver af­fossato la giustizia e az­zoppato la politica, ora vorrebbero intervenire sull’informazione per decidere che cosa si può e si deve pubblicare. In­vece di scrivere procla­mi politici e tramare con­tro il governo pensino a fare il loro lavoro. Che al nostro ci pensiamo noi. Il Giornale, 10 marzo 2011