Archivio per la categoria ‘Giustizia’

CASO CANCELLIERI-LIGRESTI: DUE PESI E DUE GIUSTIZIE?

Pubblicato il 2 novembre, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

La notizia è la seguente. Si scopre che un autorevole membro di governo (la ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri) ha telefonato a funzionari di Stato (ispettori del ministero) per perorare la scarcerazione di una donna (Giulia Ligresti) che si trova in stato di detenzione a Torino; donna che la ministra conosce personalmente molto bene, essendo lei amica di famiglia dei Ligresti, che tra l’altro sono datori di lavoro di suo figlio (di recente liquidato con buona uscita di oltre due milioni).

Pochi giorni dopo l’intervento ministeriale, la signora Ligresti viene scarcerata e ieri, a cose note, la Procura di Torino si è affrettata a fare sapere che tutto è avvenuto nel rispetto delle leggi con tanto di diffida a sostenere un nesso tra i due fatti (pressioni-scarcerazione).

La pratica viene definita dagli interessati come un legittimo e innocuo «intervento umanitario», vista la particolare situazione fisica e psicologica della detenuta. Bene, siamo d’accordo, mai interferenza – legittima o no a norma di legge o di opportunità non importa – fu più benedetta e ricordo che a suo tempo, era agosto, facemmo anche noi una campagna per mettere fine alla barbara detenzione preventiva di Giulia Ligresti. Ma ci chiediamo, alla luce di tutto questo: perché se un autorevole esponente di governo (Silvio Berlusconi) telefona a funzionari di Stato (dirigenti della Questura di Milano) per perorare l’affidamento a norma di legge di una donna (Ruby) che lui conosceva e che si trovava in stato di fermo, si becca sette anni di carcere? E perché, in questo caso, i funzionari pubblici che hanno sostenuto che tutto è avvenuto a norma di legge sono finiti sotto inchiesta per falsa testimonianza? La parola di un poliziotto di Milano vale meno di quella di un pm di Torino?

Azzardiamo delle risposte. La Cancellieri ha commesso un reato, ma, a differenza di Berlusconi, la passa liscia perché ha sempre difeso l’operato dei magistrati. Oppure. Ha commesso reato, ma ha lo scudo di essere stata ministra prima di Monti (agli Interni) e poi di Letta, due governi ferocemente antiberlusconiani che si sono rifiutati di affrontare la riforma della giustizia. O ancora. Come Berlusconi, non ha commesso alcun reato, solo che lei non è Berlusconi e quindi giustamente la sfanga. Qualsiasi sia la risposta giusta, fate voi, siamo di fronte alla prova inconfutabile che in Italia la giustizia è marcia fino al midollo, esercitata spesso da criminali che per di più ci prendono per i fondelli. Vero, caro ministro dell’Ingiustizia? Alessandro Sallusti

STUPRATA DAL MANIACO? “E’ CONCORSO DI COLPA, PERCHE’ GLI HA APERTO LA PORTA”, SECONDO

Pubblicato il 20 ottobre, 2013 in Cronaca, Giustizia | No Comments »

La vittima aveva 74 anni. Secondo l’Avvocatura dello Stato la donna agì incautamente, quindi non dev’essere risarcita

Ha aperto la porta all’uomo che poi l’avrebbe violentata? Non ha diritto al risarcimento: ha contribuito allo stupro. Insomma, come dire, che quasi sarebbe stata «consenziente».

Ginevra è nome da favola, che solo a pronunciarlo fa venire a mente castelli fatati e principi azzurri. Ginevra è il nome che la fantasia dona a una signora sassarese finita all’inferno.

Nel 2007 aveva 74 anni. Una donna che non si è mai sposata, molto religiosa. Ma a casa sua un giorno arrivò il «diavolo».
Un uomo, poi dichiarato seminfermo di mente, che bussa. Lei apre. Lui la strattona, la picchia, la violenta. A processo il maniaco sceglie il rito abbreviato e se la cava con quattro anni. Oggi è libero. La vittima, invece, è ancora prigioniera: la depressione non l’ha più abbandonata. E ora ha un nuovo nemico: la Repubblica italiana. Il suo violentatore avrebbe dovuto risarcirla, come sentenziato dal Tribunale, con 30.000 euro. Ma quello, squattrinato, s’è ben guardato dal farlo. I legali dell’anziana hanno allora citato in giudizio la Presidenza del consiglio dei ministri, fidando su una direttiva europea del 2004 che in caso di insolvenza del responsabile impone al Paese di residenza di garantire un indennizzo a chi abbia subito un crimine violento. Deciderà il giudice. Intanto, l’Avvocatura di Stato s’è opposta, come logico nel gioco delle parti, sollevando mille eccezioni. Tra tutte una risalta. Suona più o meno così: «La parte attrice ha aperto consapevolmente e incautamente ad uno sconosciuto: pertanto deve rispondere a titolo di concorso di colpa di quanto accaduto».
Insomma: non aprite quella porta. E più che il titolo d’un vecchio film horror è l’orrore che trasuda da un atto giudiziario che s’inserisce nel solco della triste giurisprudenza statale sui crimini del sesso. Favorisce il suo stupratore chi, ignara, socchiude l’uscio al trillo del campanello così come agevolava il suo aggressore la ragazza che indossava jeans così stretti da lasciar presumere che se non ci fosse stata «la sua fattiva collaborazione mai alcuna violenza intima avrebbe potuto esserle usata»: era il 1999, e la Terza sezione della Cassazione il suo convincimento lo affidava a una sentenza prontamente messa in naftalina tanto era assurda. Eppure, è stato necessario attendere il 2008 perché la Suprema Corte, sempre attraverso la Terza sezione, riconoscesse che «i jeans non sono paragonabili ad una cintura di castità» e che dunque, a ben considerare, non sono d’ostacolo alla violenza sessuale. Ma assolti da ogni responsabilità i calzoni a cinque tasche, sul banco degli imputati è rimasta la donna: se lo stupro riguarda una fanciulla non più vergine «il trauma sarà da ritenersi più lieve» ed il maschio assalitore «avrà diritto ad una condanna più lieve», ha stabilito nel 2006 ovviamente la Terza sezione. La stessa che un anno fa ha bissato: quando lo stupro è di gruppo, in attesa di giudizio ben può il giudice adottare misure alternative alla carcerazione. E nell’ottobre del 2012 un’altra pronuncia da manuale: se più sono i violentatori «va riconosciuto uno sconto di pena a chi non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia limitato a consumare l’atto».
La giustizia non è di questo mondo. Esiste solo nelle fiabe. Ginevra, adesso, lo sa.

…..Siamo curiosi di sapere cosa sentenzierà questa volta la Magistratura:  se accoglierà la tesi pateticamente ridicola dell’Avvocatura di Stato che ci fa riandare col pensiero all’indimenticabile Flaiano secondo il quale in Italia anche le tragedie finiscono in farsa, oppure se condannerà lo Stato a risarcire la vittima dello stupro. In tal auspicabilke ipotesi dovrebbe   condannerà gli incauti funzinari dell’Avvocatura di Starto alla pena acessoria della stessa violenza subita  della 74enne. Perchè  in futuro si asterrebbero dallo scrivere cazzate. g.

IL PAESE DELLE OMBRE

Pubblicato il 18 ottobre, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Ammettere la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia da parte della Corte d’assise di Palermo sarà pure «pertinente», come ha affermato ieri uno dei sostituti procuratori. Ma non può non lasciare un sottofondo di stupore e di perplessità. Gli stessi magistrati si rendono conto dell’enormità della loro mossa. E infatti, per giustificarla riconoscono limiti rigidi e ampi che toccano le funzioni del presidente della Repubblica e le esigenze di riservatezza legate al suo ruolo. Il rischio, tuttavia, è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura.

È sacrosanto chiedere a tutti informazioni che possano contribuire a trovare la verità. Ma in questo caso non si può non valutare anche una questione di opportunità; e chiedersi se non sia foriero di pericolosi equivoci gettare ombre sul presidente della Repubblica, citandolo come testimone delle preoccupazioni di un suo collaboratore scomparso. In una fase in cui a livello internazionale Napolitano viene considerato uno dei pochi ancoraggi di un’Italia condannata a galleggiare nell’incertezza, la vicenda assume contorni lievemente surreali. Dietro un aggettivo come «inusuale», utilizzato ieri dalla Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, si indovina l’imbarazzo per una sentenza che accoglie e insieme schiva le decisioni della Corte costituzionale.

Si tratta del verdetto col quale a gennaio la Consulta stabilì la distruzione delle intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, ritenendole inammissibili. Non solo. I commenti fatti a caldo da alcuni magistrati della Procura palermitana contengono giudizi negativi e liquidatori sull’ipotesi di amnistia e indulto avanzata nei giorni scorsi al Parlamento proprio da Napolitano: parole anche queste un po’ irrituali. Oggettivamente fanno sponda a quanti, nei partiti, hanno criticato la proposta del capo dello Stato, evocando un inconfessabile salvacondotto per Silvio Berlusconi: sebbene si abbia la sensazione che il vero motivo dell’attacco al Quirinale sia l’ennesimo tentativo di dare una spallata al governo delle larghe intese.

Dalla presidenza della Repubblica ieri è arrivato un comunicato nel quale si precisa di essere «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza… per valutarla nel massimo rispetto istituzionale»: risposta ineccepibile e insieme gelida, che lascia aperta la possibilità di rispondere alla Corte d’assise di Palermo in base alle tesi esposte dai giudici; e che lascia trasparire l’eventualità di un nuovo conflitto tra vertici dello Stato. Il fatto che perfino il presidente del Senato, Pietro Grasso, sia stato chiamato a deporre a Palermo, non rende l’iniziativa meno singolare, anzi. Grasso è stato a lungo ai vertici della Procura del capoluogo siciliano, e poi capo dell’Antimafia a livello nazionale. E si è attirato l’ostilità di alcuni settori della magistratura per non avere voluto avallare teoremi a suo avviso poco fondati sul piano delle prove.

C’è da sperare che quanto sta accadendo non abbia niente da spartire con una stagione apparentemente archiviata. La testimonianza richiesta alla prima carica dello Stato e al suo supplente, tuttavia, se anche non è una forzatura in punto di diritto, suona poco comprensibile dal punto di vista istituzionale. Rischia di gettare su un Napolitano rieletto per un settennato senza che l’abbia chiesto né cercato, il peso di vicende figlie di un conflitto trasversale fra spezzoni della magistratura e dei partiti: un residuo di veleni antichi e più recenti, versati su un equilibrio politico e su un sistema già fragili e tormentati. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 18 ottobre 2013

…….Quella di Palermo,   la convocazione di Napolitano come teste in un processo che intende processare lo Stato, anche alla luce della sentenza che ha scagionato per la seconda volta il generale Mori da qualsiasi accusa di compromessi con la mafia, appare non solo inusuale, irrituale e surreale, ma anche offensiva per lo Stato e le sue Istituzioni e pone la Magistratura, o meglio una certa piccola parte della Magistratura, nella posizione di improprio “avversario” di quello Stato di cui essa è solo una parte, importante, certo, ma sempr e solo una parte, chiamata non a legiferare nè a ipotizzare   improbabili complotti ma a punire delitti certi quando siano stati accertati. Infine v’è una nota  tra il ridicolo e il patetico  che va sottolineata: Nnapolitano dovrebbe testimoniare circa le pene intime di un suo collaboratore poi morto per malore, forse provocato da ingiuste  accuse. E se Napoitano testimoniasse che il suo ormai defunto consigleire giuridico è morte di crepacuore provocato dalle accuse infondate  di qualche PM in cerca di gloria, che accadrebbe? Che quel PM potrebbe finire sotto processo per responsabilità indiretta della morte di un uomo? g.


CASO ILVA: TANTI SALUTI ALL’INDUSTRIA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 15 settembre, 2013 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 settembre 2013

……Se avessimo detto o scritto su questo blog ciò che scrive Panebianco a proposito dell’Ilva e dei magistrati onniscenti che ormai hanno immobilizzato il Paese e lo stanno trascinando verso l’abisso, ci sarebbe stato di certo il cretino di turno (ne abbiamo in mente uno che in  materia di cretinismo è il numero superuno)  che ci avrebbe accusato di volere la morte della gente di Taranto e ci avrebbe  arruolato nell’esercito dei delinquenti. Non ci avrebbe scalfito più di tanto perchè piuttosto che essere imbecilli talvolta può essere più conveniente (per gli altri) non esserlo. Il caso dell’Ilva è stato ridondante di imbecillità dall’inizio e ricorda da vicino un altro caso clamoroso: Punta Perotti. L’ecomostro – come fu definito dalla pubblicistica del tempo – nacque e crebbe e si innalzò sulle sponde del lungomare barese sotto gli occhi della magistratura che a quel tempo occupava un palazzo poco distante per cui non poteve non accorgersene. Ma stette zitta, non fiatà, sino a quando i palazzi avevano già assorbito ingenti risorse e i suoi appartamenti posti sul mercato immobiliare per la vendita. Solo allora i magistrati partirono all’attacco condotto sino in fondo, sino all’abbattimento che ha prodotto danni ingentissimi, finanziari, e d’immagine,  i cui risarcimenti sono oggetto di sentenze di altre magistrature, comprese quelle europee. Così l’Ilva. Sta lì, da decenni, si chiamava centro siderurgico e all’epoca della sua nascita fu considerato una sorta di risarcimento al sud bistrattato. Per decenni ha caratterizzato, nel bene e nel male, la crescita non solo di Taranto ma dell’intero suo hinterland che si estenede anche oltre i confini di quella provincia. Per decenni il siderurgico, passato attraverso mille traversie anche finanziarie, ha dato lavoro e sicurezza economica a migliaia di lavoratori e di famiglie, per decenni gli ecologisti, sopratutto quelli che di giorno concionano contro la modernità ma la sera non se ne fanno mancare neppure una, hanno innalzato cartelli e promosso cortei di protesta, e per decenni i magistrati tarantini hanno girato la testa dall’altra parte. Non dovevano mantenerla girata la testa dall’altra parte,  ma come dicevano i i romani, maestri di diritto,  “modus in rebus”. Invece no. Avendo deciso di rigirarla dopo decenni di sonnolenza hanno scatenato tutta la loro potenza di fuoco per ottenere quello che sta accadendo e che non riguarda solo l’Ilva, Taranto, la sua provincia.  Riguarda tutta l’Italia e la sua già disastrata economia oggetto di bramose attese da parte della concorrenza, in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’acciaio. La sistematica “attenzione” della magistratura  verso il grupppo Riva  che tra tante colpe pur qualche merito deve avercelo, ha prodotto il blocco del sistema siderurgico in  ogni parte del Paese, proprio quando il Paese ha bisogno di trovare ragioni e occasioni di ripresa per uscire dal tunnel nel quale siamo stati ficcati dalla balardaggine americana e dalla miopia della burocrazia europea, anzi, sopratutto tedesca che non potrà che gioire dell’ennesima imboscata all’industria italiana. E la politica che fa? Non è risuscita a bloccare, pur essendo la politica sovrana in un sistema di democrazia, l’azione distruttiva di un  magistratura straboccante e si balocca su questioni che sono come il pelo nell’uovo. Chi ha fame il pane lo inzuppa anche lì dove c’è il pelo, badando alla sostanza e tralasciando la forma. Altrimenti di forma finiremo col morire.g.

IL VIZIO DELLE TASSE RETROATTIVE E L’INUTILITA’ DELLO STATUTO DEI CONTRIBUENTI

Pubblicato il 31 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

E’ inutile, ogni volta che il Fisco si muove, i contribuenti, in qualche modo, rischiano di perdere qualcosa. Anche quando appare animato dalle migliori intenzioni. Prendiamo l’abolizione dell’Imu sulle prime case non di lusso: un risparmio, certo. Ma poi tra le pieghe del provvedimento preso in esame dal Consiglio dei ministri, si scopre che c’è un passaggio dal titolo preoccupante: “Ripristino parziale della imponibilità ai fini Irpef dei redditi derivanti da unità immobiliari non locate”. Detto in modo più chiaro: era previsto il ritorno dell’Irpef e delle addizionali locali, seppure ridotte al 50%, sulle seconde case sfitte. Norma che ieri Palazzo Chigi ha assicurato che non verrà inserita nel testo in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Eppure quell’articoletto (numero 6 nella bozza) nascondeva un vizio antico dell’Erario, del quale non riesce proprio a fare a meno: quello delle tasse retroattive. Il pagamento dell’imposta doveva scattare da gennaio e non dalla data di pubblicazione del decreto legge (oggi). Con otto mesi d’anticipo. Troppi.

Tutto bene se in Italia non fosse (o forse si dovrebbe dire sarebbe) in vigore una legge di salvaguardia per i cittadini, il cosiddetto «Statuto dei diritti del contribuente». Una specie di scudo anti-soprusi. Un casco anti-balzelli iniqui. Leggiamo l’articolo 3: «…le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo». Un criterio minimo di tutela: le imposte vanno pagate ma soltanto per il futuro. Lo Stato non può cambiare le regole per il passato. Lo stesso principio che vale per le norme penali. Una protezione violata già centinaia di volte in nome del gettito. Una difesa che spesso lo Stato, con l’alibi dei vincoli di bilancio, aggira.

Come? Con una semplice parolina, che tanto spiega del modo tutto italiano di considerare i cittadini-contribuenti: basta infatti scrivere nelle norme fiscali la frasetta «in deroga» e, come d’incanto, lo Statuto del contribuente si trasforma da scudo scalcagnato in foglia di fico bucherellata. Esattamente quello che stava per accadere con la reintroduzione dell’Irpef sulle case sfitte passata nel consiglio dei ministri. Un caso isolato? Macché. Da poco è accaduto anche sul redditometro, il Fisco ha la possibilità di andare a verificare gli scostamenti sui redditi fino al 2009. Ma per avere uno Statuto così fragile e così facilmente aggirabile forse sarebbe più corretto (e serio) nei confronti dei cittadini gettarlo alle ortiche. Come si direbbe intermini giuridici: abrogarlo. Oppure rispettarlo. Senza trucchi. Il Corriere della Sera, 31 agosto 2013

……Questa si che srebbe una bella battaglia, quella per vietare che nelle leggi compaia la parolina “in deroga”, in nome della quale vengono commesse nefandezze di ogni genere. Se ne è occupato di recente anche un simpatico trattattello dal titolo appropriato: Privuilegium. Perchè ogni deroga è un privilegio che quando si tratta dello Stato è anche una vera e propria truffa, oltre che essere una inaccettabile violazione della certezza del diritto e della civiltà del diritto che vietano la retroattività di ogni norma quando in danno del cittadino, specie in materia fiscale. Ma c’è nel Parlamento, da destra a sinistra, passando per il centro qualcuno che se ne voglia intestare la titolarità? Non ci parem, visto che nessuna deroga è stata mai oggetto di ricorso alle supreme corti perchè ne cancellino gli effetti. Perciò…zitti mosca, non i contribuenti ma quelli che li rappresentano e che ad ogni occasione si dicono interpreti e difensori della “centrtalità” del cittadino…quale centralità? quella del pagatore! g.

GIUSTIZIA: LA RIFORMA PIU’ DIFFICILE

Pubblicato il 6 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Così come non c’è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.

Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po’ per antiberlusconismo, un po’ perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po’ perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.

Ma lo squilibrio di potenza c’è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l’ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.

Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest’ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.

La magistratura è l’unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare – ma solo se i magistrati acconsentiranno – interventi volti ad introdurre un po’ più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».

Il problema va aggredito da un’altra prospettiva. C’è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l’azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell’area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).

Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.

Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l’impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.

Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2013

……………Ciò che scrive Panebianco è ispirato oltre che dalla conoscenza approfondita, da ottimo politologo qual’è, dei fatti, anche dal buon senso. Non solo! Anche dalla recente invettiva lanciata da una deklle fazioni della magistratura, Magistratura Democratica (sic!), all’indomani dell’auspicio formulato dal presidente della Repubblica di una sollecita e cmplessiva riforma del pianeta giustizia. Nessuno si azzardi, Parlamento compreso, a dar corso ad alcuna  riforma  che vada nella direzione di rivedere i meccanismi attuali di intervento della magistratura nella vita del Paese. E’ stato questo il succo dell’invettiva dei magistrati cosiddetti democratici, succo che conferma, ove ve ne fosse bisogna, che ha ragioneda vendere Panebianco quando scrive che la magistratura è nel nostro Paese l’unico potere forte, tanto quanto è debole, dall’altra parte, il potere politico. Non solo perchè la politica stessa si è autoindebolita, quant perchè in virtù di ciò il potere giudiziario, da Tangentepoli in poi, si è autoinsignito di ruoli che non gli appartengono. Ed ha ragione Panebianco quando afferma che solo se la politica saprà riformare se stessa riguadagnandosi rispetto e credibilità, e solo allora, si potrà procedere sula strada della riforma della giustizia e della sua riciollocazione nell’alveo naturale del sistema costituzionale del nostro Paese. Una prima occaisone la politica ce l’ha in queste ore e l’ha offerta la inopportuna intervista rilasciata alla stampa dal presidente del collegio della Cassazione che venerdì ha condannato Berlusconi. Nell’intervista il giudice ha anticipato, fatto del tutto inconsueto e fuori delle regole,   le ragioni della condanna di Berlusconi, sproloquiando sul concetto del “non poteva non sapere” e su quello che invece “sapesse”. L’intervista ha provocato polemiche infuocate er ancora ne provocherà nelle prossime ore. Ebbene, mentre il primo presidente della Cassazione ha definito inopportuna l’intervisdt e il ministro Cancellieri ha chiesto informazioni e tre componenti laici del CSM hanno chiesto di aprire una praqtica a carico del giudice troppo loquace, si è registrato,  da una parte,  l’intervento del presidente dell’ANM il quale si è precipitato a sostenere che nulla v’è da rilevare sotto il profilo disciplinare a carico del giudice medesimo, dall’altra,  il silenzio assordante di quanti, a sinistra, ogni qual volta da destra si “constesta”, anche a ragione come in  questo caso,  la magistratura, si strappano le vesti per “difendere”, ovunque e comunque,  la magistratura. Ecco ciò che  rende debole la politica e la pone in stato di sudditanza della magistratura. E sino a quando rimarrà tale stato di cose nel nostro Paese la riforma della Giustizia, la più ampia,   e che  è di certo la riforma più difficile ma   anche la più urgente, anzi l’unrgenza assoluta, difficilmente potrà realizzarsi. g.

COSI’ INFANGAVA BERLUSCONI IL GIUDICE CHE L’HA CONDANNATO

Pubblicato il 3 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Questo è l’articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell’impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s’è ribellato: «Devi!».

Il presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito

Dunque eseguo per scrupolo di coscienza.
In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti – fiducia e rispetto – per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio.
Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell’illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l’ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell’imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre.
Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L’avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m’invita in veste di moderatore-intervistatore. È un’incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell’occasione l’ex giudice istruttore dei processi per l’assassinio di Aldo Moro e per l’attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l’uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato.
Seguì un ricevimento all’hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d’onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest’ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora presidente del Consiglio. A sentire l’eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?».
Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio.
Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell’Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l’altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l’esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio?
Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell’udienza, v’è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell’avventura che m’è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d’appello l’8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente.
A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un’affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po’ brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l’altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati».
Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d’aver ecceduto con l’Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo
. Stefano Lorenzetto, 3 agosto 2013

……Lorenzetto è un giornalista che scrive per molte testate, è famoso sopraqtutto  per le  interviste a personaggi influenti della politica, dello spettacolo, della cultura,  spesso divenute libri. E’ difficile immaginare che  quanto denuncia oggi sul giudice che ha giudicato e condannato Berlusconi se lo sia inventato. E se non se lo è inventato è abbastanza lecito nutrire dubbi sulla terzietà almeno di questo giudice, il più influente perchè presidente  del collegio che ha condannato Berlusconi. E se dubbi ci sono ci pare che qualcuno che ne abbia autorità e poteri  debba accertare la verità e nel caso disporre un nuovo processo con giudici sicuramente terzi. g.

GIUSTIZIA A GOGO’

Pubblicato il 19 luglio, 2013 in Giustizia | No Comments »

Il Gip di Milano, dopo solo due giorni di carcere, ha mandato agli arresti domiciliari a casa sua, l’assassino della ragazzina di appena 17 anni, travolta dall’auto dell’uomo, che nè si fermò per prestare soccorso, e che per sfuggire alla cattura nascose l’auto. Quando il cerchio delle indagini stava per chiudersi intorno all’uomo, consigliato dai suoi avvocati, si è costituito, dichiarandosi pentito e per questa ragione è stato “premiato” con i domicialiari…tanto, come dice il proverbio, avrà pensato il Gip di Milano, “chi muore giace, e chi vive di dà pace”. Siamo  noi che non ci diamo pace del fatto che la giustizia sia così male  amministrata in questo Paese, per cui  l’assassino di una giovinetta,  stroncata all’alba della vita,  può tornarsene  a casa dopo poche ore di carcere  e fra qualche mese se la caverà con un paio d’anni, pena sospesa, e il ricordo della giovinetta rimarrà solo nel dolore dei suoi genitori che ogni giorno si domenderanno, finchè avranno vita: perchè!?!?.  Già, perchè a Milano si danno sette anni di carcere a chi avrà pure fatto un brutto mestiere – il magnaccia- ma non ha ucciso nessuno e verso chi uccide si usa tanta magnanimità sotto forma di formale applicazione della legge per cui l’omissione di soccorso non viene considerato reato da carcere? Ci domandiamo: se la giovinetta uccisa fosse stata figlia di quel magistrato  tanto scrupolosamente attento ai diritti dell’assassino, e non alla vita interrotta della giovinetta di 17 anni, quello stesso magistrato si sarebbe comportato allo stesso modo? C’è qualcosa di sbagliato nella giustizia del nostro Paese ma guai a chi lo dice e lo scrive. Noi lo scriviamo perchè lo pensiamo e ne siamo tanto fermamente convinti da considerarla la vera emergenza di questo Paese . g.

ASSOLTO IL GENERALE MORI, ENNESIMA CAPORETTO DELLA PROCURA DI PALERMO

Pubblicato il 17 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Crolla il teorema contro Mario Mori, il generale dei carabinieri accusato insieme al colonnello Mauro Obinu di non aver arrestato il boss Bernardo Provenzano nel ‘95, consentendogli così di restare latitante.

Entrambi erano imputati per favoreggiamento aggravato alla mafia, ma sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”.

I giudici hanno inoltre trasmesso i verbali delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del colonnello Michele Riccio, i grandi accusatori che di fatto non sono stati considerati attendibili.

Non si arrendono però i pm palermitani Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. “È una sentenza che non condividiamo e che impugneremo sicuramente”, ha detto Di Matteo. “Siamo amareggiati. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi, come il tribunale, ha analizzato le carte. In tutti i processi si può vincere e si può perdere ma sono importanti le motivazioni”, ha commentato invece il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, “Bisogna vedere il ragionamento che hanno fatto i giudici per ritenere non credibili Riccio e Ciancimino. Non conosco quale sia questa riflessione. Massimo Ciancimino è un testimone, comunque, che nel processo Stato-mafia non ha la centralità che aveva in questo dibattimento”.

Il processo di primo grado è durato poco più di cinque anni: il 18 giugno 2008 quando il gip accusò Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu del mancato blitz di Mezzojuso. Per la Dda di Palermo, infatti, il boss Bernardo Provenzano – già latitante – poteva essere catturato il 31 ottobre 1995: la sua posizione sarebbe stata rivelata dal confidente Luigi Ilardo al cononnello Michele Riccio. Mori e gli altri alti ufficiali del Ros hanno sempre sostenuto però che il colonnello non aveva mai parlato con chiarezza della presenza di Provenzano e che anzi proprio Riccio evitò l’intervento per non mettere in pericolo l’informatore Ilardo. Secondo l’accusa comunque Mori e Obinu hanno evitato ulteriori indagini che avrebbero portato all’arresto nell’anno successivo. Mori, del resto, era già stato processato per favoreggiamento in relazione al caso del covo di Riina, che non venne perquisito per diciotto giorni dopo la cattura del “capo dei capi” avvenuta il 15 gennaio del 1993. Anche in questo caso il generale fu assolto insieme al “capitano Ultimo” nel 2006. Fonte: Il Giornale, 17 luglio 2013

……………….Giustizia è fatta. Per l’ennesima volta le disinvolte tesi della Procura di Palermo sono naufragate miseramente dinanzi alla inconsistenza delle prove e sopratutto dei testi: il mafioso Ciancimino junior e un ufficiale dell’Arma roso da gelosia e desiderio di  vendetta  nei confronti dei suoi commiliotni e del suo comandante,  il generale Mori, assolto dall’accusa infamante di aver aiutato la mafia, lui, un ufficiale che ha servito l’Arma e il Paese con fedeltà e abnegazione per decenni. Non possimao che esere felici, non solo per L’Arma ma anche per i Valori che essa da sempre interpreta e rappresenta: lo Stato, la Nazione, il Popolo. g.

LA GIUDICE CHE E’ UN FULMINE CON BARLUSCONI LASCIA LIBERO UNO STUPRATORE

Pubblicato il 11 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Licenziate questa toga: per condannare Berlusconi si è scordata uno stupratore

Il giudice di Milano Alessandra Galli

I tromboni di sinistra, gli italici manettari, i frequentatori assidui dell’antiberlusconismo militante ripetono ai quattro venti che no, non è mica vero che la giustizia si accanisce contro Silvio Berlusconi e che i tempi della pronuncia in Cassazione sul caso Mediaset sono stati affrettati. Secondo l’intellighenzia forcaiola è prassi che un processo sul punto di essere prescritto venga affidato alla sezione feriale della Suprema Corte. Per carità, è vero, può anche essere la prassi. Ma in questo caso è una prassi quantomeno sospetta. E peccato, però, che a distruggere il pensiero di chi sostiene che non ci sia alcuna “doppia velocità” nel sistema-giustizia (solitamente pachidermico, rapido invece quando c’è di mezzo il Cav) ci sia l’emblematico caso della signora Alessandra Galli, della corte d’Appello di Milano. Efficientissima quando di mezzo c’è l’ex premier, lentissima in altri (gravi) casi.

Giudice saetta – La Galli è la toga che ha diretto a piè sospinto il processo d’appello Mediaset contro Berlusconi, e che lo scorso 8 maggio nell’aula della seconda sezione penale lesse il dispositivo della sentenza che confermava in toto la condanna al Cav per frode fiscale (la ricordiamo: quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici). Si tratta della sentenza su cui il prossimo 30 luglio dovrà decidere la Cassazione. Sempre la Galli contribuì a velocizzare il processo spedendo gli ufficiali in ospedale per le celeberrime visite fiscali a Silvio ricoverato per l’uveite; sempre lei rifiutò più volte il rinvio delle udienze per impegni elettorali e – particolare piuttosto significativo – depositò le motivazioni della condanna nel termine minimo previsto dal codice (quindici giorni), un termine che non viene rispettato praticamente mai. Ricordiamo infine come con la medesima solerzia, proprio dalla “sua” Corte d’Appello di Milano, pochi giorni fa sia scattato l’allarme sulla possibile prescrizione di Berlusconi, allarme recepito – via Corriere della Sera – dalla Cassazione.

Stupratore in libertà – Velocissima quando c’è da infilzare il leader del Pdl, dunque, ma come detto immobile quando sul banco degli imputati ci sono altri figuri. Uno stupratore, per esempio. Già, perché il giudice Galli doveva scrivere le motivazioni di un altro processo, meno noto, in cui l’imputato era accusato di stupro. Un dentista drogava le sue pazienti e abusava di loro: fu il figlio a scoprirle le immagini delle sue vittime, raccolte sul computer del dentista violentatore. L’uomo, il 12 luglio del 2012, ha dichiarato il dentista colpevole del reato di violenza sessuale aggravata: sette anni di carcere. E’ passato un anno esatto da quella pronuncia, e lo stupratore è ancora a piede libero. Il motivo? Manca il giudizio in Cassazione. E perché? Perché il processo in Cassazione non si può tenere se le motivazioni della condanna emessa in appello non sono state depositate. E non sono state depositate: né dopo i 15 giorni che sono stati sufficienti per scrivere le motivazioni della condanna del Cav, né nei sessanta o novanta giorni che per il codice di procedura penale sono il limite di ritardo invalicabile. Le motivazioni le doveva scrivere il giudice Galli, celere solo quando c’è di mezzo Berlusconi. Non con gli stupratori. Libero, 12 luglio 2013

…..Ci pare superfluo ogni commento.