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CASO NAPOLITANO, L’INTRIGO SI COMPLICA, di Giuliano Ferrara

Pubblicato il 3 settembre, 2012 in Giustizia, Politica | No Comments »

Il direttore di Repubblica dovrebbe riflettere: il suo, il loro è un giornali­smo morto.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il direttore di Repubblica Ezio Mauro

Opulento, professiona­le, ricco di notizie e opinioni, ma com­posto nella bara dell’uniformità confor­mista. Avevano appena dato un segno di vita, richiamando una tradizione di pluralismo delle opinioni e di conflitto civile con lo scontro tra Scalfari e Zagre­belsky su Napolitano e la procura di Pa­lermo, avevano fatto saltare la copertu­ra della bara per un istante, ecco che si richiude. È un peccato, perché nessu­no si augura un’Italia in cui scompaia nell’irrilevanza la loro voce,opacizzata e infine spenta dall’incapacità di farla sentire se non in un corale tremenda­mente parrocchiale, senza offesa per le parrocchie sede di ben altri e sani con­flitti di dottrina e spirito.

Voglio dire una cosa assai semplice, diretta e non equivoca. Se i ragazzacci del Fatto , il cui capo non sa rispondere alle più ele­mentari domande sullo Stato e la mafia in tv, va in vacanza con il dot­tor Ingroia e dice di lavorare solo per il lettore, si mettono per una qualche ragione fuori linea, allora il commissario politico del giorna­le, il suo direttore, emette un ana­tema: sono di destra, sono la nuo­va destra. Vogliono mangiarsi la destra in insalata, i gianburrasca delle manette, chiedono il sangue di Berlusconi e si atteggiano a solo­ni dell’antipopulismo, fingono perfino un interesse loro estraneo per gli operai e i sindacati, sono im­bevuti di piccolo trotzkismo alla Flores d’Arcais, ma sono di de­stra. Solo il mio amico Stalin, fac­cio per dire, definiva di destra, con­trorivoluzionari, quelli che non la pensavano come lui, anche e so­pra tutto se erano a sinistra del par­tito.

Altro caso, Panorama . Giovan­ni Fasanella, un cronista di forma­zione comunista e perfino berlin­gueriana, propone al direttore del settimanale di Mondadori un ser­vizio che farà chiasso: mettiamo insieme le propalazioni di vario genere sulle frasi dette presuntiva­mente da Giorgio Napolitano al te­lefono con Nicola Mancino, fac­ciamoci giustamente una coperti­na che richiami il ricatto dei vari Pm palermitani al presidente, e vai con lo scoop di approfondi­mento in seguito al quale forse il Quirinale si risentirà, e si capisce, ma tutto sarà più chiaro. Anatema di bel nuovo, la destra è all’attac­co. Ma questo, lo vedono tutti, non è un modo di ragionare, non è un atteggiamento liberal o di sini­stra, è un modo di sragionare e get­tare sabbia sugli occhi del lettore bambino come fa il Sandman del­le f­avole e delle canzonette ameri­cane.

Lo stato di confusione men­tale e culturale non è di sinistra, è uno stato di confusione di cui i pri­mi­a preoccuparsi dovrebbero es­sere editori e lettori del giornalo­ne di Largo Fochetti in Roma.

Il web della sottocultura di Re­pubblica non è da meno, fa i suoi rilanci. Camillo Langone scrive ogni giorno una preghierina tradi­zionalista su un quotidiano, sem­bra scritta in latino da quanto è bella. Certo, ha le sue idee e le sue sensibilità e una sua dottrina che sembrano fatte apposta per pro­vocare al pensiero critico chi si vanta di possederlo e non ne sa al­cunché, gli illetterati novisti e mo­dernisti che non sanno leggere. Nel caso in specie, Langone ha scritto dell’assassinio di«una don­na nigeriana, che di mestiere fa la puttana», ha aggiunto che «le ne­gre sono bellissime» e «i transes­suali dopo il tramonto» sono bel­lissimi pure loro. Ha concluso con una morale perfettamente ge­suitica: va’ a letto, o maschio put­taniere, con persone che puoi pre­sentare in società e alla mamma senza scandalo. Be’, una volta l’ambasciatore di Spagna in Italia mi inviò un gentile cartoncino in cui ero invitato a cena con «il part­ner » e non più con mia moglie, perché Zapatero aveva deciso, a norma del codice civile, che ma­schi e femmine, marito e moglie, padre e madre, non esistono più. Volevo rispondergli alla Lango­ne: vengo con un negro altro due metri rimediato alla stazione do­ve si trovano un sacco di partner, rigorosamente senza scarpe, che rutta, le va bene o pensa che ci pos­san­o essere problemi con il princi­pe delle Asturie? A pensarci bene, anche peggio di Langone. Ho so­prasseduto signorilmente alla ri­sposta e alla cena in quella bella e accogliente casa del politicamen­te corretto.

Fatto sta che il web minaccia e insulta Langone per quella pre­ghierina gesuitica, perché i trans devono essere belli anche di pri­ma mattina, e i giornali celebrano la morte del cardinal Martini, su­blime gesuita, all’insegna, un’in­segna non troppo originale, della scomparsa dell’uomo del dialo­go. Ma di quale dialogo state par­lando? Mi piacerebbe che France­sco Merlo o Michele Serra o altri stimabili opinionisti di Repubbli­ca , non dico insorgessero (verbo caro ai cronisti di quel giornale), ma almeno facessero capolino per dire: ragazzi, il mondo libero è stato inventato perché gli anate­mi contro la destra o la sinistra scomparissero dalla scena, voglia­mo fare del giornalismo non si di­ca sbarazzino, probabilmente non ne siamo capaci nella nostra torvaggine, ma almeno formal­mente rispettoso della libertà?

Attendo serenamente e aspetto pur sempre amandovi la prova (come disse un grande Papa agli uomini delle Brigate rosse) che ne siete capaci. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 3 settembre 2012

LO SCANDALO INTERCETTAZIONI: I VERTICI DELLO STATO SPIATI 10 VOLTE AL TELEFONO

Pubblicato il 31 agosto, 2012 in Giustizia, Politica | No Comments »

Tre giornali, Panorama , Il Fatto e Re­pubblica . Tre palazzi, il Quirinale, la Pro­cura di Palermo, la Corte costituzionale. E uno scontro istituzionale tra Colle e pm, probabilmente mai giunto a livelli così al­ti, che è riuscito a realizzare l’impossibile, spaccare il fronte giustizialista di sinistra: di qua, contro Napolitano, Idv, i grillini, il quotidiano di Antonio Padellaro e Marco Travaglio; di là, paladino del Colle senza se e senza ma, Eugenio Scalfari; e di là ­contro pm, Idv&Co – anche chi non ti aspetti, il Pd Luciano Violante, già icona del partito dei giudici, che grida al «popu­lismo giuridico» che strumentalizza le procure e punta ad abbattere Monti e Na­politano.

Per comprendere il pasticciaccio brutto culminato ieri nella nota del Quirinale a smentita dello scoop di Panorama sui col­loq­ui spiati tra il capo dello Stato e l’ex mi­nistro Nicola Mancino (indagato a Paler­mo nell’ambito dell’inchiesta sulla tratta­tiva Stato-mafia per fermare le stragi de­gli anni Novanta, con l’accusa di falsa te­stimonianza) bisogna fare un passo indie­tro. All’inizio dell’estate, quando il ping pong incrociato di rivelazioni, tra Il Fatto e Panorama , prende la via del Colle. A da­re il «la» è il quotidiano di Padellaro, il 16 giugno scorso, quando sotto il titolo «I mi­steri del Quirinale » racconta di una telefo­nata del dicembre 2011 fatta da Nicola Mancino, telefonata in cui l’ex ministro (all’epoca non ancora indagato ma già spiato) si lamentava dei pm di Palermo, esprimeva preoccupazioni per come sta­vano trattando l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e chiedeva aiuto al Quirina­le. Loris D’Ambrosio,consulente giuridi­co di Napolitano, conferma di aver parla­to con Mancino. I contenuti delle telefo­nate, otto, ça va sans dire , finiscono inve­ce sui giornali. Il 20 giugno è Panorama che rilancia: in due telefonate Mancino parla con Napolitano. E fanno dieci. Il Col­le si ribella. E si preoccupa quando in un’intervista a Repubblica , il 22 giugno, il pm Nino Di Matteo, titolare del fascicolo di cui è dominus l’aggiunto Antonio In­groia, si lascia scappare una smentita che è una conferma: «Negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non so­no minimamente rilevanti». Ergo, però, ci sono: «Quelle che dovranno essere di­strutte con l’instaurazione di un procedi­mento davanti al gip­aggiunge il pm –sa­ranno distrutte, quelle che riguardano al­tri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti». La linea della procu­ra di Palermo è segnata. Il procuratore Messineo minimizza: quelle intercetta­zioni saranno distrutte, non servono, ma a decidere sarà il gip Traduzione: rischia­no di diventare pubbliche. È l’esplosione del bubbone. Che diventa scontro il 16 lu­glio, quando il Quirinale annuncia l’aper­tura del conflitto di attribuzione davanti alla Consulta contro i pm di Palermo. Na­politano non poteva essere intercettato, neanche indirettamente, e pertanto quel­le bobine vanno distrutte, è la tesi del ri­corso; non le useremo, ma si possono di­struggere solo se lo decide il gip, insiste la procura di Palermo.Il 26 luglio D’Ambro­sio muore: infarto, troppo stress. E men­tre i vari Lucifero e Nerone surriscaldano agosto, è a sinistra che si consuma lo scon­tro pro e contro Napolitano, pro e contro i pm di Palermo: Il Fatto , l’Idv di Di Pietro e Grillo contro il capo dello Stato; Repubbli­ca con Eugenio Scalfari pro Napolitano; il Pd Luciano Violante, che quasi grida al golpe contro Napolitano e denuncia: «Procure usate come clava».

L’ultimo atto, per ora, è lo scoop di Pano­rama sui contenuti di quei colloqui tra Mancino e Napolitano. Parlerebbero da vecchi amici.E da amici,fuori dall’ufficia­lità, si lascerebbero scappare frasi un po’ sopra le righe: su Berlusconi, fresco di di­missioni all’epoca; su Di Pietro, che di at­taccare il Colle non perde occasione; sui pm di Palermo. Frasi innocenti, appunto tra amici. Frasi imbarazzanti, se uno dei due amici è il capo dello Stato. È questo il motivo del conflitto di attribuzione solle­vato dal Colle? Al pettine restano troppi nodi: quelle conversazioni potevano es­sere intercettate? I pm potevano conser­varle? E se non potevano perché l’hanno fatto, rischiando, come è avvenuto con Panorama , che il loro contenuto trapelas­se? Misteri su misteri. Che si aggiungono ai tanti misteri sulla trattativa, da quello sulla sua reale esistenza a quello sui silen­zi, anche a sinistra, conservati per anni. La guerra è in corso. E il verdetto della Consulta, quale che sia il risultato, non cancellerà i veleni. Il Giornale, 31 agosto 2012

INGROIA E I GUAPPI DELL’ANTIMAFIA-SHOW

Pubblicato il 26 agosto, 2012 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Che tipi che sono, che guappi di cartone. Bisognerebbe lasciarli al loro destino di altezzosa ipocrisia, ha ragione Alessandro Sallusti.

Ma non si può. Lavorano sodo al peggio, e da tanti anni. Inquinano senza remore una democrazia impazzita. Rieducano menti e sentimenti dei ragazzi a una specie di Rivoluzione culturale di cui il web è tra i principali campi di correzione. Poi nascondono la mano, si rifugiano dalla mammina, e prolungano il grande inganno. Gustavo Zagrebelsky, giurista di regime e di lotta, raduna al Palasharp di Milano folle osannanti con Eco, Saviano e un tredicenne che dà dello schifoso al presidente del Consiglio dal basso della sua innocenza talebana, infine accusa Napolitano di essere «il perno» di un’azione di intimidazione della Procura di Palermo che vuole la verità sulla mafia. Rimbrottato dai suoi, per una volta, replica imbarazzato e imbarazzante che lui non fa politica, che il consenso del Palasharp non è la sua materia, lui è un tecnico «ingenuo» che cerca il diritto e lo storto nelle cose, risparmiategli la responsabilità personale di quello che dice e la lotta politica.

E il dottore Antonio Ingroia? È violento, come spesso succede ai fanatici, querela chi dissente da lui, pluriquerele «per una serena vecchiaia» con risarcimenti decisi dai colleghi in corporazione. Fa comizi con le mani in tasca e la toga sotto i piedi, illustra alle masse la retorica del partigiano, partigiano della Costituzione che l’immonda maggioranza parlamentare forse voleva riformare, come la Costituzione stessa prevede a maggioranza semplice, naturalmente per motivi criminali dietro lo schermo della politica. Vive di conferenze, di talk show e di libri mal scritti, mielosi, vanitosi, in cui ricorda la stima che gli portava un magistrato martire, perché c’è sempre un morto che afferra il vivo e lo mette sul piedistallo del vero, del giusto e del buono. Ingroia dovrebbe essere da tempo fuori dalla magistratura, consegnato alla politica partitante dei suoi compagni sindaci e capipopolo da un Consiglio superiore, se ce ne fosse uno non democristiano, non doroteo, non mellifluo e sulfureo come lo sono da tempo tutti i consessi togati che dovrebbero vigilare sul prestigio del giudiziario.

Il dottor Ingroia si comporta in modo nocivo e fazioso. Alimenta un mito mediatico-giudiziario-politico, un’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia «che non si regge in piedi», come ha detto in tv perfino un Enrico Deaglio, che sull’antimafia cingolata ha scritto intere biblioteche di plauso e ammirazione. Decreta con l’aiuto di Santoro e compagnia, davanti a milioni di sprovveduti spettatori della Rai, che c’è un’icona dell’antimafia, il pataccaro figliolo di Vito Ciancimino, e pluricalunniatore, e che lui è in grado di rivelare la verità sulle stragi e sull’omicidio di Borsellino e della sua scorta. Indovinate chi sono gli utilizzatori finali delle stragi, chi c’è al culmine della ricostruzione fantasiosa e sghemba, capace di travolgere anche i carabinieri che hanno arrestato Riina? Berlusconi e Dell’Utri, ovvio. Il metodo, riassunto nell’eternizzato fascicolo «sistemi criminali», è quello di tenere sempre aperta la porta all’indagine che non finisce mai, che deve nutrire le ambizioni di riscrittura della storia patria di un pugno di magistrati incaricati di applicare la legge, e per chiari motivi politici. L’agenda rossa di Borsellino, agitata in piazza con disgusto sommo e tardivo perfino del direttore di Repubblica Ezio Mauro, vale la villa di Como di un senatore e amico dell’ex premier. L’accusa di concorso esterno in mafia, distrutta dalla Cassazione con una relazione Jacoviello in cui si dice con smarrimento che in quel processo tutto c’è tranne la definizione del reato, è il suggello, naturalmente destinato a fallire, dell’attività di giustizia alla Ingroia. Potrei continuare con la tecnica delle interviste del suo ufficio, del suo sodale, a Repubblica e al Fatto, in cui si rivela che la voce del capo dello Stato è lì a disposizione degli happy few in toga, dunque attenti tutti a quel che fate e che dite. Ma ora debbo fermarmi.

Infatti il procuratore aggiunto, che non convince a firmare le sue carte nemmeno il procuratore capo e i membri tutti del suo ufficio, sente la pressione di un’Italia che alla fine gli resiste, e anche lui, come Zagrebelsky, si ritrova alla Fracchia con i diti tutti intrecciati, chiede venia in un’intervista al Corriere e in un articolo sull’Unità, per carità lui è sereno, e tutti giù a ridere, per carità anche lui è un ingenuo che applica il diritto come giudica sensato, mica ce l’ha con alcuno, da Napolitano agli altri, no, lui fa il suo mestiere e basta, la sua carriera internazionale fino all’Onu e al Guatemala, la sua partita la gioca non grazie ma nonostante le strumentalizzazioni non sollecitate del povero giornale tribuna dei manettari, scaricato con tante scuse alla prima curva. Un racconto di Leonardo Sciascia diceva che bisognerebbe essere uomini e invece spesso ci si ritrova ominicchi se non quaquaraquà. Giuliano Ferrara, 26 agosto 2012

…………Nulla da aggungere! g.

INTERCETTAZIONI: NAPOLITANO CONTRO I PM DI PALERMO SOLLEVA IL CONFLITTO TRA POTERI DELLO STATO DINANZI ALLA CORTE COSTITUZIONALE

Pubblicato il 16 luglio, 2012 in Giustizia, Politica | No Comments »

Dopo le polemiche delle ultime settimane per la mancata distruzione delle intercettazioni delle telefonate con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, passa al contrattacco.  Il Capo dello Stato dà incarico all’Avvocato Generale dello Stato di rappresentare il Quirinale nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, per le decisioni che questa ha assunto sulle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Capo dello Stato.

Decisioni, queste, che il Presidente considera lesive delle prerogative attribuitegli dalla Costituzione.

Alla decisione di sollevare il confitto, il presidente Napolitano è arrivato perché considera “dovere del Presidente della Repubblica”, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, “evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

.……………La notizia non sarbbe neppure una notizia se non fosse che a sollevare il conflitto tra  poteri  (Presidenza della Repubblica e procura di Palermo) sia stato in prima persona proprio lui, Giorgio Napolitano, che in tutti questi anni dinanzi alle sconcezze di tante procure d’Italia che non hanno esitato a sciorinare al vento le intercettazioni telefoniche, spesso neppure utili e talvolta del tutto irrilevanti ai fini delle indagini, non ha mai trovato il tempo sia di condannarle, sia di favorire il varo di u na legge che mettesse fine alla barbarie di vite distrutte dalla pubblicazione di intercettazioni, spesso uscite chissà come dai cassetti dei tribunali d’Italia. Ora che la sconcezza ha lambito proprio lui, il grande capo, Napolitano s’arma di sciabola e pugnale e scende in campo. Meglio tardi che mai, potremmo dire, ma non possiamo non sottolienare la doppiezza ipocrita di chi scopre solo quando la cosa lo riguarda,  quanto grave sia stato l’uso indiscriminato da parte di disinvolti magistrati delle intercettazioni telefoniche. E ‘ proprio vero: non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te! g.

BUFERA SU MONTI E MOODY’S

Pubblicato il 5 giugno, 2012 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Sul web le voci della partecipazione del premier al board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating bollò l’Italia come “Paese a rischio”. Palazzo Chigi smentisce

Un brutto sospetto è circolato nelle ultime ore sul web. Il presidente del Consiglio Mario Monti avrebbe fatto parte del board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating tirava bordate contro l’Italia e faceva affondare l’economia del Belpaese nel baratro della recessione e della crisi economica.

Il premier Mario Monti

Adesso, proprio Moody’s è indagata, insieme a Fitch e a Standard & Poor’s, dalla procura di Trani per manipolazione di mercato. Palazzo Chigi si affretta a spiegare che il Professore è stato membro del “senior european advisory board” dell’agenzia “dal luglio 2005 al gennaio 2009, periodo in cui ricopriva l’incarico di presidente dell’Università Bocconi”.

In Italia scoppia la bufera contro le agenzie di rating. La procura di Trani sta mettendo sotto la lente di ingrandimento le accuse, i giudizi e i tagli di rating che negli ultimi anni hanno colpito il Belpaese contribuendo ad affossarne la solidità e a minarne la tenuta. Giudizi che, molto spesso, venivano comunicati a mercati ancora aperti. Tagli di rating che agli inquirenti sono sembrati un vero e proprio strumento per colpire l’Italia. Proprio oggi la sede di New York di Standard & Poor’s è stata indagata dai pm di Trani per manipolazione del mercato. È un nuovo fascicolo-stralcio che segue la chiusura delle indagini notificata nei giorni scorsi a cinque persone: l’ex presidente di S&P Deven Sharma, l’attuale responsabile per l’Europa Yann Le Pallec e i tre analisti senior del debito sovrano che firmarono i report sotto accusa Eileen Zhang, Frank Gill e Moritz Kraemer. Per quanto riguarda gli uffici italiani il pm di Trani Michele Ruggiero ha indagato l’amministratore delegato Maria Pierdicchi. Nel mirino le ore immediatamente precedenti la comunicazione ufficiale di S&P sul taglio di due gradini del rating al debito sovrano dell’Italia del 13 gennaio scorso: da A a BBB+.

Sulle stesse agenzie di rating i pm di Trani stanno indagando dal 2010 dopo la denuncia congiunta di Adusbef e Federconsumatori. Il 6 maggio del 2010 un report pubblicato da Moody’s bollava l’Italia come “Paese a rischio”. Da quella denuncia l’inchiesta si è allargata a Fitch e Standard & Poor’s per i giudizi che hanno contribuito a far precipitare la situazione politica fino alle dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. D’altra parte l’ex premier ha ripetuto più volte di aver lasciato la presidenza del Consiglio per il bene del Paese. Sei mesi dopo l’attacco di Moody’s, Mario Monti diventava premier e sul web è stata ventilata da diversi blog l’ipotesi (rilanciata dal sito Dagospia) che il Professore potesse finire coinvolto nell’indagine di Trani. Palazzo Chigi ha subito spiegato che la partecipazione di Monti al board di Moody’s comportava “la partecipazione a due-tre riunioni all’anno”, dal luglio 2005 al gennaio 2009, che non avevano per oggetto, “neppure in via indiretta”, la valutazione di stati o imprese sotto il profilo del rating.

Contattati in mattinata, gli uffici londinesi di Moody’s non ci hanno ancora fatto sapere il ruolo di Monti all’interno dell’agenzia: dopo averci chiesto il motivo del nostro interesse sul ruolo del Prof dentro a Moody’s, sono scomparsi nel nulla. Restiamo in attesa di una risposta ufficiale. Ad ogni modo, presa per buona la smentita di Palazzo Chigi, resta comunque che dal 2005 il Professore era “international advisor” per la Goldman Sachs, una delle più potenti banche del mondo che ha contribuito a mettere in ginocchio l’economia greca. Ma questa è tutta un’altra storia. Forse. Andrea Intini, Il Giornale, 5 giugno 2012

.…………..Quando tuona, piove, recita un vecchio adagio. Aspettiamo per vedere in quali mani ci hanno messo un pugno di politici vili e sprovveduti. g.

L’ASSOLUZIONE DELL’EX GOVERNATORE DELLA BANCA D’ITALIA, FAZIO, E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURE IN UN CLAMOROSO CASO GIUDIZIARIO

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Giustizia | No Comments »

ANTONIO FAZIOANTONIO FAZIO

Per una inchiesta della magistratura che ha fatto acqua da quasi tutte le parti, la Bnl è finita in bocca ai francesi di Bnp Paribas, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, si è dovuto dimettere insieme al capo della vigilanza, sono stati cambiati assetti di potere rilevanti in Italia parteggiando per alcuni e danneggiando altri. È stata violentata la storia stessa di questo paese, con un episodio che non è stato insignificante nel renderlo più debole e più suddito all’interno dell’Unione europea.

Non c’è solo una raffica di assoluzioni per non avere commesso alcun tipo di illecito nella sentenza di appello sulla scalata Unipol-Bnl del 2005. C’è soprattutto il mutamento artificiale degli assetti di potere economico e in fondo anche politico sulla scelta della magistratura di entrare a piedi uniti (e senza ragioni) in una vicenda finanziaria per modificarne il corso, come voleva all’epoca il gruppo di interessi politico-economici che si univa intorno al capitale della Rcs-Corriere della Sera.

Basterebbe andare a riprendersi le cronache di quel 2005 per trovare la violenza con cui quegli interessi si saldarono e vinsero la partita proprio grazie all’intervento della magistratura. Basta metterla confronto con la sentenza di appello di mercoledì per vedere come il film dell’epoca si fosse svolto tutto in contrasto con la verità, in ogni suo passo. La memoria evidentemente difetta a tutti, compreso l’attuale presidente della Bnl, che ha commentato la sentenza di appello sostenendo che la magistratura non fu all’origine di nessuna scelta societaria, perché alla fine fu Bankitalia a bloccare la scalata di Unipol alla Bnl aprendo la strada ai francesi che se la papparono.

Questo però avvenne nel gennaio 2006, quando ormai la spallata politico- finanziario-giudiziaria era avvenuta. Fazio e Frasca, capo della vigilanza, si erano già dimessi, l’offensiva giudiziaria infondata era nel pieno del suo fragore, la spallata mediatica contro la cordata Caltagirone- Statuto-Ricucci-Coppola e bresciani era già stata assestata con colpi che avevano tramortiti. Quel che avvenne dopo, compresa la firma dell’allora direttore generale della Banca d’Italia, Vicenzo Desario, allo stop che aprì le porte ai francesi, fusegno di una resa inevitabile,provocata da tutto il resto.

Piero FassinoPiero Fassino

Avevano ragione gli avvocati difensori degli imputati assolti mercoledì a dire che grazie ai pubblici ministeri di quella inchiesta l’Italia aveva perso una banca. La storia l’ha certificato, e la sentenza di appello ora l’ha semplicemente suggellato. Come la storia stessa ha tragicamente dimostrato la lungimiranza della politica di difesa del sistema nazionale del credito adottata dall’allora governatore Fazio di fronte alle scorribande di grandi gruppi stranieri con bilanci gonfi di titoli spazzatura.

Molti degli assalitori dell’epoca oggi non ci sono nemmeno più, finiti gambe all’aria e travolti dai derivati e della crisi finanziaria che li ha mostrati fragili e inconsistenti. Gran parte dell’aggravarsi della crisi italiana di questi anni è responsabilità di chi allora fece di tutto per fermare la Banca d’Italia e quella regia- poi rivelatasi assai saggia- del suo governatore.

MASSIMO DALEMA NICOLA LATORREMASSIMO DALEMA NICOLA LATORRE

Oggi Fazio si gode l’assoluzione con la famiglia e non cerca rivincita (ha risposto grato e rapido agli amici che gli hanno telefonato nelle ultime ore), ma sa che quella storia che lo mise fuori gioco oggi va profondamente riscritta. Nella sentenza Unipol-Bnl è restata una sola doppia condanna, e un solo fatto illecito: quello delle telefonate fra Consorte e i vertici dei Ds dell’epoca, da Piero Fassino, Massimo D’Alema e Nicola Latorre. In quei colloqui fu consumato il reato di insider trading, fornendo agli interlocutori informazioni finanziarie di cui il mercato non era in possesso.

Questo fatto -l’unico fatto della sentenza di appello- ieri non è stato nemmeno citato in titoli e occhielli di tutta la stampa italiana (con rarissime eccezioni). Né sono arrivate le scuse di Eugenio Scalfari che nel 2005 tuonò contro chi (Maurizio Belpietro e Gianluigi Nuzzi e Il Foglio) pubblicò quelle telefonate dove si era compiuto il solo reato di tutta la vicenda definendo le cronache giornalistiche «una mattanza contro i Ds». Franco Bechis, Libero, 2 giugno 2012

IL COLPEVOLE E’ LA GIUSTIZIA

Pubblicato il 28 aprile, 2012 in Giustizia | No Comments »

Renato Busco piange, abbracciato dalla moglie Il simbolo della giustizia è la bilancia, metafora dell’equilibrio, del peso e contrappeso, della giustezza e della precisione. La sentenza d’appello sul delitto di Via Poma risponde certamente al criterio di giustizia, ma evidenzia tutti i mali di cui quel pianeta soffre da decenni senza che il Parlamento li risolva. Non basta che la magistratura si autogoverni – come credono gli esponenti dell’Associazione Nazionale Magistrati – perché il processo diventi un luogo cristallino, senza ombre, senza pregiudizio. Che Busco fosse innocente, che le indagini facessero acqua da tutte le parti, che le prove fossero assolutamente risibili, era chiaro anche a un pivello che comincia a scrivere di cronaca giudiziaria. Ma che questo impianto accusatorio potesse essere considerato sufficiente per condannare un uomo di un delitto così grave ed efferato, è letteralmente incredibile per un paese che vuol dirsi democratico. È ora di cambiare le norme, di introdurre il principio sacrosanto della responsabilità dei magistrati, non per penalizzare chi persegue i crimini, ma per assicurare il corretto funzionamento della giustizia, la sua efficacia, lo svolgimento per l’interesse pubblico e non per il protagonismo dei suoi attori, siano essi i procuratori o gli avvocati. Non sto a snocciolare il dettaglio dei casi che lasciano interdetti la pubblica opinione (Garlasco, Amanda, Yara, Parolisi, Sarah Scazzi) ma è chiara la visione terribile di un groviera procedurale e investigativo che mina la fiducia del cittadino di fronte a un tribunale. Qualunque esso sia. Che la culla del diritto sia ridotta a questo è responsabilità certamente del Parlamento, ma anche in misura seria di una corporazione che pensa di essere irriformabile in un mondo che si evolve alla velocità della luce. La magistratura per prima dovrebbe avere interesse a cambiare lo status quo. Il gradimento dei cittadini nei confronti di questa istituzione è colato a picco nel giro di alcuni anni e invece di correre ai ripari si è preferito mettersi al riparo, sottraendosi a qualsiasi tipo di discussione e addirittura impedendo al Parlamento, che è sovrano, di deliberare su una materia che tocca la vita di tutti. Simonetta Cesaroni è morta, Busco è innocente, la giustizia è malata. Mario Sechi, Il Tempo, 28 aprile 2012

.………Quella della Giustizia è la riforma che non si farà mai. A parole la vogliono tutti, ma come per la legge elettorale, ciascuno la vuole a modo suo, anzi a suo uso e consumo. E così ha la meglio chi sui mali della giustizia costruisce il proprio potere. E la riforma finisce nel cassetto delle cose da non farsi e chi se ne frega dei cittadini che hanno la sventura di imbattersi con i suoi mali, i suoi attori e i suoi comprimari. Cosi è se vi pare. Sconsolatamente. g.

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA FU SCIOLTA ILLECITAMENTE: ECCO PERCHE’

Pubblicato il 25 aprile, 2012 in Giustizia, Il territorio, Politica | No Comments »

Riceviamo dall’avv. Giuseppe Mariani, stimato avvocato amministrativista del Foro di Bari, un commento politico-giuridico su una vicenda che benchè lontana nel tempo di certo ha inciso profondamente nella più recente storia del nostro Paese. La sentenza, la n. 1305 del 2009 della Corte di Appello di Roma, passata in giudicato, stabilisce una volta per tutte che nel 1993 lo scioglimento della DEMOCRAZIA CRISTIANA  fu deciso arbitrariamente con conseguenze che pesarono notevolmente sugli allora  scenari della politica e sui successivi sviluppi che ne furono determinati, sino a quelli odierni che vedono i partiti della cosiddetta seconda repubblica,  nati sull’onda di Tangentopoli e alcuni in virtù dell’arbitrario sciglimento della DC,  in gravissimo affanno, e in altrettanta gravissima  crisi di credibilità nel Paese  e fra gli elettori. Ecco il commento dell’avv. Mariani. g.

Dopo 18 anni è stato definitivamente chiarito, quanto meno sul piano giuridico, che la Democrazia Cristiana di Sturzo, De Gasperi e Moro non è mai stata sciolta e che la deliberazione del Consiglio nazionale della DC del 29 gennaio 2004 con la quale si cambiava il nome e si dichiarava lo scioglimento, in quanto assunta da un organo radicalmente incompetente, secondo le previsioni dello Statuto, è da considerarsi INESISTENTE.
Tale sconvolgente verità è contenuta nella sentenza della Corte di Appello di Roma n. 1305 del 2009, ormai passata in giudicato, con la quale è stato negato il diritto di successione in favore di tutte le formazioni politiche di ispirazione democristiana sorte dal 1993, ad iniziare dal PPI di Martinazzoli, Bindi e Buttiglione.
La sentenza della corte di Appello di Roma è leggibile al sito http://www.nocensura.com/2012/04/i-beni-della-democrazia-cristiana-tra.html.
Sono stato giovane protagonista periferico della fase del cambiamento del nome da Democrazia Cristiana in Partito Popolare Italiano, oltre che inerme spettatore della lunga diatriba che ha contrapposto la sinistra democristiana al neo segretario del PPI Rocco Buttiglione per accaparrarsi l’uso di un simbolo prestigioso che non poteva essere usato da altre forze politiche, benché di tradizione democristiana.
Dopo quasi venti anni dalla triste stagione di tangentopoli e dalla disintegrazione dei partiti che hanno fatto grande l’Italia, prima fra tutti la Democrazia Cristiana, dobbiamo ringraziare gli “eroi” che il 30 marzo 2012 in Roma, su convocazione di Clelio Darida, hanno ridato continuità associativa e giuridica alla Democrazia Cristiana originaria, ricostituendo quel che resta del Consiglio nazionale risultato eletto a seguito della celebrazione del XVIII Congresso nazionale del 1989, con avviso di convocazione regolarmente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 marzo 2012.
Il Consiglio nazionale in carica all’epoca dell’ultima riunione del 29 gennaio 1994, in sostituzione dell’ultimo segretario politico, Mino Martinazzoli, ha eletto come segretario politico nazionale l’on.le Gianni Fontana, mentre in sostituzione di Rosa Russo Jervolino, assente e rinunciataria, ha nominato come Presidente del Consiglio nazionale della DC l’on.le Silvio Lega.
Dopo quasi venti anni di oblìo e di oscuramento della democrazia partecipata nel nostro Paese, credo sia tornato il momento dell’impegno dietro uno scudo carico di valori e di storia nazionale, orgogliosi delle nostre radici cristiane.
Invito tutti gli amici della Democrazia Cristiana a sostenere lo sforzo di Gianni Fontana e di Silvio Lega, ricostituendo in ogni comune d’Italia la base organizzativa di militanti, direttivi sezionali e segretari politici sezionali in carica al gennaio 1994 o nuovi militanti, per riprendere una continuità associativa che possa consentire di legittimare il più possibile il rinnovo del tesseramento, aperto a chiunque voglia condividere i valori dello scudocrociato in un’epoca di rinnovato impegno e con lo spirito che ha animato gli “eroi” che il giorno 30 marzo 2012, malgrado l’appesantimento dell’età, hanno ripreso faticosamente un nuovo cammino politico.
Rinvio a questa pagina http://www.dccampania.eu/2012/04/04/segretario-nazionale-dc-gianni-fontana-eletta-la-direzione/ per la lettura della relazione introduttiva alla ripresa dell’attività politica e per i nominativi del Consiglio nazionale, che condivido pienamente.Avv.  Giuseppe Mariani – Bari

ALFANO: NON CEDEREMO SULLA RESPONSABILITA’ DI GIUDICI.

Pubblicato il 31 marzo, 2012 in Giustizia | No Comments »

Giustizia: Alfano, non cederemo su responsabilita' toghe“Sulla giustizia noi stiamo lavorando su tre cose molti importanti ma non cederemo sulla responsabilità civile dei magistrati”. Lo ha detto il segretario del Pdl Angelino Alfano. “Non cederemo su un punto importante: il principio che chi sbaglia paga si deve applicare a tutti e non a tutti tranne che ai magistrati”.

.……………..Non scommetteremmo sulla promessa di Alfano…però vogliamo vedere le carte.

IL PM PALERMITANO INGROIA IRRIDUCIBILE: DELL’UTRI E’ AMICO DELLA MAFIA

Pubblicato il 14 marzo, 2012 in Giustizia | No Comments »

La Cassazione ha demolito il suo teorema ma il pm palermitano pontifica: “Il senatore ambasciatore della mafia”

La sentenza ha seminato dubbi e la requisitoria del procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello si è quasi trasformata in un’arringa in difesa di Marcello Dell’Utri, ma lui non ha smarrito le sue certezze.

Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, colonna dell’antimafia siciliana e accusatore da una vita del senatore e bibliofilo, senza aspettare di leggere le motivazioni del verdetto che ordina la celebrazione di un nuovo processo. Anzi, in qualche modo Ingroia prova a riscrivere la sentenza in un’intervista senza freni al programma di Radio24 la Zanzara. Per lui Dell’Utri era e resta «un ambasciatore di Cosa nostra nel mondo imprenditoriale e finanziario milanese, un portatore di interessi della mafia».
Un giudizio durissimo che, evidentemente, scavalca la Cassazione e le sue preoccupazioni. Il parlamentare infatti è finito sotto inchiesta per concorso esterno e la Suprema corte, per superare una sorta di nouvelle vague giudiziaria e processi basati su suggestioni più che su prove, aveva fissato a suo tempo paletti rigidi. Ora i giudici hanno stracciato il verdetto di Palermo ritenendolo non in linea con gli standard della Suprema corte. Questo non significa che Dell’Utri sia innocente, ma la Cassazione afferma in sostanza che le prove non reggono.
Un ragionamento esplosivo che non modifica di una virgola il convincimento di Ingroia: Dell’Utri lavorava per Cosa nostra. Di più, l’avventura politica del senatore «nasce per gli interessi di Cosa nostra. L’idea della costituzione di Forza Italia è del senatore Dell’Utri ed è anche nell’interesse della mafia». Ingroia non arretra di un millimetro: già la sentenza della Corte d’Appello, che pure aveva condannato il senatore a 7 anni di carcere, l’aveva assolto per gli episodi successivi al 1992 e dunque collegati alla nascita di Forza Italia e alla presunta trattativa fra Cosa nostra e spezzoni dello Stato. Ora la Cassazione va oltre e contemporaneamente la magistratura fiorentina, al termine del processo contro un boss condannato per la bomba agli Uffizi, spiega che non ci sono riscontri all’ipotesi che Forza Italia abbia dialogato con i capi di Cosa nostra. Non importa.
Per Ingroia, invece, le prove «non ci sono» su Silvio Berlusconi che pure è stato sotto i riflettori della magistratura per anni e anni. Ora il magistrato tende a distinguere i ruoli, ma al Cavaliere riserva una stilettata ancora più graffiante: «Berlusconi ha detto che Dell’Utri ha sofferto 19 anni di gogna? Si potrebbe replicare che quando lui era al governo poteva fare una riforma per accorciare i tempi dei processi, invece ha fatto esattamente il contrario. Anche il processo Dell’Utri è durato così tanto per colpa di Berlusconi, questo è sicuro». Dunque, comunque si rigiri la questione, per Ingroia, che pure si sente «sconfitto» dalla Cassazione, questo non è il tempo della prudenza.
E così respinge anche le parole, davvero controcorrente, scandite in aula dal procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello che aveva bollato «il concorso esterno, un reato in cui non crede più nessuno». Non è così per Ingroia che manda in prescrizione solo i dubbi dei colleghi e difende il concorso esterno così come è oggi. Anzi, il magistrato stila una spericolata classifica virtuale dei procedimenti più noti. In questo caso «ci sono molte più prove e più concrete. Sarebbe ingiusto rispetto a Bruno Contrada, per esempio, se Dell’Utri se la cavasse mentre lui è finito in galera. Su Contrada c’erano meno prove a carico».
Naturalmente è possibile ribaltare le conclusioni del procuratore aggiunto: se vacillano le prove raccolte contro Dell’Utri, allora si può sostenere che la condanna di Contrada poggia su palafitte marce e forse l’ex 007 è stato vittima di un errore giudiziario.

Ma Ingroia è sempre stato un magistrato senza peli sulla lingua e anche questa volta non si smentisce. E rivendica anche la propria passione civile: «Non mi pento di essere andato al congresso del Pdci, ci tornerei anche domani e devo dire che andrei anche da altri partiti. Sì, se mi invitassero Alfano e Berlusconi andrei a parlare di giustizia pure dal Pdl. Basta che non mi interrompano». Manlio Contento, avvocato e deputato del Pdl, si rivolge però al ministro della Giustizia Paola Severino perché avvii l’azione disciplinare. Alla fine la Zanzara rischia di pungere proprio lui. Stefano Zurlo, Il Giornale, 14 marzo 2012

…………...Su questo Pm che non rispetta le sentenze e le giudica senza neppure leggere le motivazioni, e quindi solo per partito preso, vi invitiamo ad ascoltare il commento di Giuliano Ferrara,  su Radio Londra di questa sera. g. (ascoltare  il commento andare sul Foglio e cliccare su Radio Londra).