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L a questione delle alleanze elettorali è oggi il solo argomento di rilievo di cui si discuta pubblicamente nell’area moderata (Forza Italia, Ncd) del centrodestra. Forza Italia deve allearsi con Alfano e Casini o con la Lega di Salvini? O deve riuscire a tenerli tutti insieme? Le alleanze sono importanti ma è patologico che soltanto di questo si parli. Svela il vuoto di idee da cui quella parte del centrodestra è afflitto e mostra, più in generale, uno schieramento di destra che, sul piano nazionale almeno, potrebbe essere destinato a non toccar palla per un tempo assai lungo (cinque anni? dieci? di più?). Perché discutere di alleanze anziché delle cose che si intendono fare, significa non avere capito quali novità abbia introdotto nel discorso pubblico l’ascesa di Matteo Renzi.Lega di Salvini a parte (che invia messaggi chiari agli elettori sulle cose che vuole fare), se guardiamo agli stili comunicativi dei vari esponenti del centrodestra, solo pochissimi sembrano avere mangiato la foglia, sembrano aver compreso la novità.
Perché io elettore di centrodestra non voterò Schittulli, di Amerigo De Peppo
Pubblicato il 26 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »
Francesco Schittulli con Silvio Berlusconi
Caro Presidente Berlusconi, può un elettore importunare il leader del suo partito, peraltro già alle prese con mille problemi, per annunciargli che, in occasione della prossima tornata elettorale, non potrà contare sul suo voto? Che nel suo piccolo non sosterrà un gentiluomo come il professor Schittulli? Può e deve.
Lo deve innanzitutto per quella doverosa lealtà nei Suoi riguardi , quella lealtà che è mancata in quegli eletti con il simbolo del PdL che, all’improvviso, hanno voltato le spalle a Lei e a quegli Elettori che li avevano votati, nel caso dei parlamentari senza neanche poterli scegliere.
Lo può, perché, almeno nel mio caso, intendo dare nel mio piccolo un segnale: non sono detentore di un pacchetto di voti, controllo a malapena il mio, ma se, dopo aver votato Forza Italia e Pdl ininterrottamente dal 1994 a oggi, intendo prendermi una “vacanza”, vuol dire che almeno ai miei occhi si sta commettendo un suicidio politico ed è impossibile per me prendervi parte.
Mi spiego. Dopo l’ennesima delusione per il risultato alle elezioni comunali a Bari, ho sperato, ho voluto credere che almeno in vista delle regionali la scelta del candidato sarebbe avvenuta in tempi brevi e che, come peraltro era stato fatto in passato, sarebbe stata scelta una figura capace quantomeno di potersi battere per la vittoria. Invece assisto da mesi al solito, mesto teatrino della politica: tavoli di coalizione che non hanno portato a nulla, assurdi veti personalistici, figli di una volontà di resa dei conti, che hanno fatto ipotizzare sin dal primo momento una soluzione di compromesso al ribasso, uno snervante ping pong tra Bari e Roma. Insomma, rinvii su rinvii: per fortuna la legge imponeva ovviamente la presentazione delle candidature prima del voto, altrimenti sulla scheda, come su alcuni atti di compravendita di immobili, avremmo trovato la dicitura “candidato presidente da definire”…
Sono intimamente convinto che le primarie di coalizione sarebbero state l’unico modo per dare uno choc positivo all’elettorato pugliese di centrodestra, visto che non si riusciva a tirare fuori il coniglio dal cilindro, ossia un nome nuovo così carismatico da rompere tutti gli schemi e riaprire una partita che non io, ma l’autorevole notista del Giornale Adalberto Signore dà per persa già da qualche mese. Ormai però, dopo aver archiviato l’opzione primarie, il risultato finale sarà che Schittulli candidato, con l’ennesima partenza ad handicap e l’inevitabile “fuoco amico” che lo colpirà da alcuni settori della coalizione, grazie anche all’inqualificabile sistema del voto disgiunto, potrà ambire al massimo a un onorevole piazzamento. Insomma, il nuovo governatore della Puglia ha già un nome: Michele Emiliano.
E allora? Tempo fa, respinsi con sdegno l’analisi di un amico, politico pugliese della Prima Repubblica, secondo il quale la nostra regione era diventata ormai l’Emilia Romagna del Sud, ma ora devo purtroppo ammettere che aveva e ha ancora ragione.Di qui la mia decisione. Non parteciperò all’ennesimo funerale del centrodestra pugliese, non voterò per un galantuomo, sconfitto in partenza, ma non mi asterrò, dal momento che in questo modo andrei a confondermi con chi è ammalato, con chi è lontano da casa per lavoro, o magari si è dimenticato dell’appuntamento elettorale per andare alla partita o dalla fidanzata…
No, io non mi asterrò e per rafforzare questo mio gesto polemico voterò per Michele Emiliano. Se con questi atteggiamenti poco comprensibili il centrodestra sta facendo di tutto per agevolargli il cammino verso la vittoria, facendomi sentire deluso come i tifosi di quelle squadre i cui giocatori si vendevano le partite, allora offro il mio aiuto anche io, e in maniera trasparente, a Michele Emiliano, attribuendogli il mio piccolo, insignificante consenso. Il mio no a Schittulli non è un no alla sua persona, ma, come ha detto Lei motivando il Suo rifiuto a votare Mattarella, un no al metodo usato per arrivare alla sua candidatura.
Il mio comunque non vuol essere un invito ad altri elettori del centrodestra perché mi imitino, ma solo la reazione di chi ritiene che così non si possa andare avanti. Se, come i comunisti, credessi nel primato del Partito, al pari di Maurizio Ferrini, il mitico personaggio di arboriana memoria di cui Bersani sembra il clone, direi: “non capisco, ma mi adeguo” e voterei, turandomi il naso. Da inguaribile liberale quale sono, sognatore e individualista, dico invece: “non capisco e non mi adeguo”. Amerigo De Peppo, cfr. Il Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2015
….Salvo qualche non marginale “modifica ed integrazione”, questa lettera aperta di un elettore storico, come egli stesso si definisce, di Berlusconi e del centrodestra, potrebbe essere scritta e firmata e sottoscritta da uno qualsiasi dei 10 milioni di elettori di centrodestra che fra il 2008 e il 2014 hanno disertato il voto al PDL-F.I. in tutta la penisola o da uno qualsiasi delle decine e decine e decine di migliaia di elettori pugliesi che hanno fatto altrettanto tra il 2008, il 2013 e il 2014 e che si apprestano a farlo anche nella ormai imminente scadenza elettorale delle Regionali. Lo spettacolo che si offre agli occhi degli elettori del centrodestra pugliese è ancor più drammatico rispetto allo spettacolo offerto altrove. Qui lo spettacolo è non solo deludente quanto penoso, con gli insulti che ormai volano come stracci da una parte all’altra, tra i “nemici” di Fitto, che, va detto, hanno dato il là alla bordata di insulti e minacce e i suoi “amici”, tra i quali non sono mancati i primi disertori come è consuetudine in ogni luogo e in politica ancor di più. Una cosa però va detta con chiarezza: Fitto ha ragione da vendere nelle cose che dice e nelle contestazioni che fa per la gestione del partito e delle mancate battaglie politico-parlamentari di questi ultimi due-tre anni, ma ha torto lì dove dimentica che di questo andazzo egli stesso ha fatto uso, o quanto meno ha consentito che se ne facesse uso da parte del suo “cerchio magico” (non è solo Berlusconi ad averne uno….) in suo nome e per suo conto nella gestione del partito nella nostra regione. Il risultato è che al netto di tutto, le prossime scadenze elettorali, salvo miracoli e ripensamenti da pate di centinaia di migliaia di elettori moderati, segnaranno la palla in rete di Emiliano in Puglia e, purtroppo, di Renzi nel resto d’Italia, mentre il popolo di centrodestra, quel 65% di italiani, come amava ricordare Tatarella, che non è e mai sarà di sinistra, dovrà rinuciare non solo a vedere le proprie idee trionfare, ma rinunciare, forse per sempre, all’obiettivo di un unico grande contenitore politico-elettorale di centro destra, visto che prolificano galli e pollai, e tante, tante galline. g.
PRESIDENTE MATTARELLA, ORA APRA IL QUIRINALE AGLI ITALIANI, di Gian Antonio Stella
Pubblicato il 11 febbraio, 2015 in Il territorio | No Comments »

Brindano a Madrid: il Palacio Real, nel 2014, ha fatto il botto: un milione e duecentomila visitatori. In un solo anno. Mostre temporanee e «dependance» escluse. Quanti il Quirinale, dicono i dati diffusi dall’ex segretario generale come prova di apertura al pubblico, in tutti gli otto anni di Giorgio Napolitano. Il confronto dice tutto. E potrebbe spingere Sergio Mattarella, nuovo inquilino di quello che è considerato uno dei più bei palazzi del pianeta, a chiedersi: può essere sufficiente, come gira voce, aprire qualche stanza in più per qualche ora in più la domenica prolungando fino alle otto di sera le visite previste ora soltanto la mattina?
Può esser vantato come un grande successo l’ingresso nella «casa degli italiani» nel 2014 di 15.400 alunni e insegnanti pari a 42 al giorno e cioè poco più di quanti studenti visitano quotidianamente la redazione del Corriere ? Sono in tanti, ormai, a invocare la trasformazione del Quirinale in uno straordinario museo della storia, della cultura, dell’arte d’Italia. Dall’ex vicepremier e ministro della cultura Francesco Rutelli ai presidenti del Fai Andrea Carandini e di Italia Nostra Marco Parini e via via un numero crescente di studiosi, parlamentari, siti web, opinion makers , associazioni, cittadini, giornali… In prima fila il nostro.
Certo, rovesciare di colpo le scelte dei predecessori non è facile. I presidenti nei decenni hanno privilegiato il palazzo sul Colle come luogo simbolo dell’eccellenza e del prestigio del Paese in grado di stupire e affascinare i Grandi del mondo, come una sorta di strepitosa vetrina del nostro patrimonio storico e monumentale. C’era un senso, nel vivere il Quirinale come una sorta di «Reggia» laica senza Papi e senza re. Ma oggi? Anche Francesco, scegliendo di vivere in bilocale del convitto di Santa Marta aveva lo stesso problema: non sarebbe suonata, quella decisione, come una presa di distanza dai Pontefici precedenti? Ha deciso la svolta. E Dio sa quanto il gesto sia stato apprezzato dai fedeli. C’è chi insiste che no, non è il caso che il presidente della Repubblica, di questi tempi, traslochi in un altro palazzo, magari bellissimo, nel centro di Roma. Che il cuore dello Stato è lassù sul Colle e lì deve restare. Può essere. Vanno custoditi con amore, certi simboli. Ma se la stessa Casa Bianca ha accolto l’anno scorso 600 mila visitatori spalmati su cinque giorni settimanali pur essendo un bel villone molto più piccolo e più esposto a ogni genere di rischio, possiamo ben immaginare che il Quirinale, con le sue 1.200 stanze, possa esser insieme le due cose. Lo scrigno dello Stato e un immenso spazio museale spalancato tutti i giorni, e non in dosi omeopatiche, ai suoi proprietari: gli italiani. Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 11 febbraio 2015
-….Altri l’hanno già scritto, ora si aggiunge Gian Antonio Stella a chiedere al neo presiente della Repubblica di rinunciare al ruolo di “re laico” nelle 1200 stanze del Quirinale per aprire le porte di questo splendido palazzo alcentro di Roma, con i suoi giardini sinora privilegio della casta di regime il 2 giugno di ogni anno, le scuderie aperte solo in occasione di mostre, e le già ricordate 1200 stanze, a beneficio degli italiani cosicchè essi possano davvero sentirsi i padroni di quella “casa”. Lo farà Mattarella o come spesso è accaduto sceglierà la strada delle prediche d’occasione, come quella enunciata in occasione della sua proclamazione (penso alle speranze e alle sofferenze degli italiani…) e perpetuerà la regola sinora seguita dai suoi predecessori? Il tempo, in tempi brevi, darà la risposta. g.
TUTTO CIO’ CHE MANCA ALLA DESTRA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 10 febbraio, 2015 in Il territorio | No Comments »
Tutto lascia credere che l’elezione del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto contare: cioè l’uso di maggioranze parlamentari di volta in volta diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei provvedimenti da votare. Il che, tuttavia, non ha certo cancellato quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura); che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici internazionali.
Ce n’è uno però, come dicevo, più importante degli altri. Questo: la Sinistra, quando è al governo, sa e può fare,pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto. Nella Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di appartenenza – o se si preferisce di «laicità» – che esiste in Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di percorrerne una sola.
Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo Renzi è il massimo esempio – ma non il solo: negli enti locali i casi sono moltissimi – di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la Destra?
Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi – se mai c’erano – essa mirasse a realizzare. Tanto meno – figuriamoci! – Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di sinistra».
Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’ elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione.
Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia – come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale – una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente – non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano – la cultura del cattolicesimo politico.
Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana.
Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 10 febbraio 2015
…….Lucida analisi della realtà che però non riguarda solo il centrodestra della seconda repubblica. Anche nella prima repubblica il centrodestra, che salvo le correnti di sinistra peraltro subalterne per scelta autonoma alla sinistra dell’epoca (basta ricordare gli “indipendenti di sinistra”, tutti cattolici eletti nelle liste del PCI), poteva ben individuarsi nella DC, era “vittima” della sua collocazione ideologica e perciò costretta a scelte che anche quando potevano considerarsi indirizzate ai ceti medio-bassi della scoietà, finivano per portare acqua alla sinistra ufficiale. Del resto incominciò nella prima repubblica l’asservimento del mondo culturale italiano alla sinistra, anzi, per dirla tutta, iniziò sin da subito dopo la guerra, quando Togliatti non ebbe scrupolo ad arruolare nel PCI i tantissimi intellettuali forgiati dal fascismo (e la lista sarebbe lunghissima) affidando loro il compito di indirizzare la “cultura” verso la sinistra. Fu allora che la sinistra occuò tutti gli spazi possibili, dai premi letterari alla cinematografia alle case editrici, attraverso cui operò una intensa opera di “cattura” della società italiana del dopoguerra, nonostante che il benessere procurato dal boom degli anni non potesse ascriversi di certo alla sinistra in genere e al Pci in particolare. Poi è arrivata la seconda repubblica e l’improvvisa assunzione del potere da parte anche di quel segmento della politica escluso sino ad allora dalla vita dello Stato. Stranamente, però, è stato proprio questo segmento, cioè la destra missina e poi postmissina, a mancare l’appuntamento con la storia e con la realtà, è stata questa che, a prescindere dallo stesso Berlusconi che pur nella prima repubblica aveva comuqnue tranquillamente operato, ha glissato rispetto a tutto ciò che aveva denunciato come invasione e straripamento della sinistra nella società italiana. Come molti commentatori, primo fra tutti Pietrangelo Buttafuco, hanno rilevato, la classe dirigente postmissina si è preoccupata più di se stessa, anzi solo di se stessa e magari dei propri cari, piuttosto che della società, per cui invece di rifare al contrario ciò che la sinistra aveva fatto nei decenni precedenti,non ha in alcun modo rimodulato la presenza del centrodestra all’interno della società, mostrando non solo indifferenza, ma, peggio, evitando accuratamente di restituire alla destra ciò che le era stato tolto. Insomma, mostrando assoluta manxcanza di spregiudicata disinvoltura nelle scelte, da quelle culturali a quelle politiche, a quelle economiche. Certo, ha vinto e governato, ma ha mancato i grandi appuntamenti che pure milioni di elettori moderati, la grande maggioranza di questo Paese, si attendevano che fossero raggiunti. E ciò spiega le ragioni per cui oggi esso è elettoralemente minoritario nel Paese che pur rimane, come rileva Galli della Loggia, nella sua maggioranza moderato e liberale. g.
TATARELLA NEL RICORDO DI PIETRANGELO BUTTAFUOCO
Pubblicato il 8 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »
16 anni fa, l’8 febbraio 1999 moriva Pinuccio Tatarella. Nell’anniversario della morte ecco un “ritratto” del politico e del’Uomo di Pietrangelo Buttafuco, oggi uno dei pochi intellettuali di Destra del nostro Paese.
Le vinceva sempre le sue battaglie politiche, Pinuccio Tatarella, perché non faceva altro che passeggiare durante le campagne elettorali. E stravinceva perché trasformava il tempo della città in un continuo far campagna, propaganda, attività e presenza di un destino consumato tutto in pubblico, tra la gente, e non per farsi tramite retorico, piuttosto spugna. Nel mare grande di una festa di popolo. Dove lui assorbiva tutti gli umori. E i colori.
Nichi Vendola, per conquistare Bari, la città tutta di superba plebe, si prese il testimone di Pinuccio Tatarella. E il vero erede di Tatarella – scomparso ancora prima di vedere la propria creatura, la destra di governo, sfasciarsi – fu proprio il comunista Vendola, uno degli uomini più fortemente poetici nella politica (tanto quanto Pinuccio, genuino e sentimentale lo fu nella “narrazione”, la capacità di dare coralità alla stagione dell’Armonia marchiandone i tempi).
Il governatore delle Puglie fu degno erede di Pinuccio non solo perché imparò presto a far doverosa sosta da Cenzino, il bar di piazza Mercantile, o per intrattenersi con la partita a carte e nel rinunciare alla vita blindata, ma perché seppe evocare nel comizio la ragione sociale della prima qualità dei pugliesi: la politica.
La destra che nella parentesi di governo non seppe scendere dalle sue auto blindate, non riuscì più a fare comizi come un tempo li faceva a Bari, in piazza S.Ferdinando: “Gianfrango” – recitava in cerignolese al microfono Tatarella presentando Fini ai baresi – “non sei tu che parli a questa piazza, è questa piazza che parla a te”. In nessun altro posto come a Bari, infatti, vale l’equazione tra piazza e politica – non c’è posto che eguagli Bari nella lettura dei giornali, nella discussione, nel ragionamento – ed è veramente un Mezzogiorno emancipato quello che ha dato all’Italia l’alta scuola di Tatarella, una prospettiva sociale e culturale che attraversa le pagine delle tante testate fondate da Pinuccio e fabbrica, con il vissuto popolare, la specificità di un laboratorio politico purtroppo irripetibile. Se vale l’ancoraggio meridiano, e in tema di Bari vale, altro che, ciò che ha radicato Tatarella nella scienza della politica neppure un Aldo Moro lo ha lasciato, al netto della vicenda esistenziale, tutta di tragedia e di potere. Se vale, infine, l’attraversamento trasversale, e tutto in Pinuccio è trasversale, quel suo modello è paradigma di pluralità in ragione di un fatto tutto speciale e tutto suo: nell’impossibilità di immaginare l’amministrazione della res senza la corresponsabilità dell’avversario.
La storia di Tatarella incontra quella della destra in Italia. Nel 1994, anno del primo governo Silvio Berlusconi, quando per definire Roma non si seppe trovare altra definizione che “cloaca”, in quella stessa cloaca che attentava all’efficienza della neonata Seconda Repubblica, Pinuccio Tatarella, vice-presidente del Consiglio, intuì la prima delle impossibilità. Quella di mettere alla prova le energie di piazza e di popolo da sempre tenute fuori dalla centrale del potere. Si vide respingere per ben tre volte una lettera da un dirigente del Ministero delle Telecomunicazioni, raccontò l’accaduto a Berlusconi e gli disse: “Qua non duriamo”. La storia della destra in Italia è nel perdurare del non durare. Ci fosse stato ancora Tatarella, lungo tutto il ventennio del berlusconismo, non avrebbe che avuta confermata, negli esiti, quella sua intuizione. Ci fosse stato ancora Tatarella non si sarebbe forse avuta la liquefazione di An – piuttosto vi avrebbe iscritto Berlusconi in persona – ma avrebbe acceso ancora attività, presenza e campagne elettorali nell’unica agorà accessibile all’animale politico, la piazza d’Italia la cui originaria impronta è la libertà. Ci fosse ancora Pinuccio, saremmo tutti in piazza, ciascuno forte della propria voce. Pietrangelo Buttafuco, 8 febbraio 2015.
Al direttore Antonio Polito il premio dedicato a Tatarella
Antonio PolitoLECCE – Ad Antonio Polito è stato assegnato il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico. Sull’editorialista del «Corriere della Sera» e direttore del «Corriere del Mezzogiorno» è caduta la scelta dei comitati direttivi della «Fondazione Giuseppe Tatarella» e dell’associazione «Giuseppe Tatarella», che hanno istituito il riconoscimento che ogni anno premierà un giornalista politico italiano e che vuol ricordare l’impegno di Tatarella nel giornalismo. Il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico si tiene sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica, con il patrocinio del Presidente del Consiglio, del Presidente della Giunta regionale della Puglia, del Sindaco di Bari e del Sindaco di Cerignola, mentre il Presidente della Camera e il Presidente del Senato hanno inviato un premio di rappresentanza al vincitore del riconoscimento.La cerimonia di consegna del premio avverrà nel mese di marzo a Roma nel corso di un’iniziativa che sarà introdotta da Michele Placido che tratteggerà la figura di Giuseppe Tatarella. La costituzione del premio, che è stato assegnato l’8 febbraio, giorno della scomparsa del politico pugliese, vuole onorare l’impegno reale per la cultura e le idee profuso da Tatarella e la sua capacità di dar vita a riviste politiche capaci di interpretare i cambiamenti del sistema.
…E’ una scelta che condividiamo per la stima che nutriamo per il direttore Polito i cui editoriali e il cui pensiero non sono omologabili se non nel verso del più assoluto equilibrio. g.
LA DISSOLUZIONE DEL CENTRODESTRA, di Pierluigi Battista,
Pubblicato il 1 febbraio, 2015 in Il territorio | No Comments »
Nel giorno dell’elezione di Sergio Mattarella e del trionfo di Matteo Renzi, ciò che resta del centrodestra certifica la sua completa dissoluzione. Lo spettacolo umiliante di questi giorni non rivela infatti soltanto insipienza tattica, confusione mentale, goffaggine estrema nel perseguire un obiettivo, paralisi psicologica nel complesso e infido gioco parlamentare, incapacità di stabilire una strategia minima di alleanze.
Rivela nel modo più doloroso per chi nell’elettorato italiano ha guardato in passato al centrodestra l’evanescenza di ogni leadership. Un fondo di disperazione politica di fronte a un avversario forte che ha impresso una svolta impressionante nello scenario politico italiano. Un legame sempre più sottile con la società italiana: interi ceti sociali che abbandonano la rappresentanza berlusconiana, la quasi totalità degli enti locali (se si esclude il Veneto, una ridotta lombarda e qualche macchia nel Sud) in mano al Pd, un’opinione pubblica frastornata, muta, sconfortata, residuale. Un partito afasico, con un leader che le vicende giudiziarie hanno piegato e ferito molto più di quanto non si dica. Una classe dirigente mediocre e inadeguata che pensa al partito come a una corte in fuga, in attesa di una parola e di un favore elargiti da un monarca sempre più appannato, come nell’ Ancien Régime alla vigilia del 1789. Forza Italia nel caos. Il «Nuovo centrodestra» vissuto come un poltronificio, i «Fratelli d’Italia» prigionieri di un reducismo minoritario. E accanto l’unico leader in partita, in crescita, aggressivo, capace di mietere nuovi consensi: Matteo Salvini. Che però è l’opposto di un centrodestra di governo: è la destra di protesta, vociante ed energica ma che non potrà mai aspirare a contendere a Matteo Renzi l’ingresso a Palazzo Chigi.
Il centrodestra ha cominciato a morire nel novembre del 2011, con l’estromissione traumatica di Berlusconi dal governo. Il Pdl era già spaccato in fazioni, il leader sembrava sul viale del tramonto, ma solo la non vittoria di Bersani nelle elezioni del 2013 ha dato la sensazione che il centrodestra, dopo aver perso 16 punti percentuali in soli 5 anni, potesse risorgere. Intanto il Pd si rinnovava, con le primarie imponeva il suo dibattito nell’agenda politica e nel mondo dell’informazione e dell’immagine, con la vittoria di Renzi si dimostrava capace di parlare a un mondo che non era già rinchiuso nei recinti del centrosinistra classico. E nel centrodestra? Con il leader condannato ai servizi sociali e un Pd in vertiginosa ascesa, il centrodestra berlusconiano si è aggrappato al «patto del Nazareno» come ultima spiaggia per contare qualcosa e addirittura per cointestarsi la regia delle riforme istituzionali: Berlusconi a Cesano Boscone al mattino, ma Padre della Patria nel pomeriggio.
Ma un «patto» prevede, se non la perfetta parità, almeno una passabile equivalenza dei due contraenti. Le vicende di questi giorni, con il metodo renziano del prendere o lasciare, hanno dimostrato che tra i due contraenti del patto, uno detta le condizioni, l’altro può solo rincorrere e accettare i ritmi e le forme che il contraente giovane, pieno di futuro, carico di energia, spavaldamente certo di giocarsi la grande partita della vita impone al contraente stanco, sfiduciato, nel pieno del declino, con un partito sempre più fragile, silente, stordito.
E ora? Ora tra un Ncd che ha misurato in questi giorni tutta la sua precaria irrilevanza, con Forza Italia dilaniata da scontri mortali e una Lega salviniana sempre più tonica ma che rischia di trascinare l’intero schieramento dietro le sirene dell’antieuro e della guerra santa contro l’immigrazione, o nel centrodestra ci si rende conto che bisogna cambiare tutto, oppure il tramonto sarà inevitabile e doloroso. Cambiare tutto significa rimettere in discussione la leadership, il modo di essere, l’identità culturale. Significa un salutare bagno democratico. Rimettersi a parlare con il mondo e non starsene rinchiusi nella fortezza sempre più asfittica di un cerchio magico ripiegato in se stesso a contemplare le rovine. Altrimenti il bipolarismo italiano si trasformerà in monopolarismo, e una democrazia ha bisogno di almeno due competitori per essere sana e vitale. Perciò la dissoluzione del centrodestra riguarda l’intera politica italiana. Non una questione interna alla galassia tardo-berlusconiana, ma un problema dell’intero sistema. Se vogliamo ancora il bipolarismo. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 1° febbraio 2015
…….Pur con qualche inevitabile forzatura, l’analisi di Battista è coerente con la realtà. Il centrodestra, che apperna 7 anni fa raccoglieva quasi il 50% degli elettori italiani e ne rappresentava forse anche di più, in pochi anni si è dissolto, e si è dissolto il grande sogno degli italiani moderati, anticomunisti, antistatalisti, fortemente sensibili ai Valori del trinomio Dio, Patria, Lavoro, di essere rappresentati e di riconoscersi in un unico grande contenitore politico-elettorale. Di quel contenitore è rimasto solo l’involucro, con caratteristiche esclusivamente elettorali, ma privo del tutto di contenuti politici, programmatici, etici, proiettati verso il futuro. Come è ovvio i padri di questa debacle sono tanti, non il solo Berlusconi che ne ha la massima responsabilità ma i tanti che in questi anni chiudendo ostentatamente gli occhi su quel che accadeva intorno al partito e nel mondo, hanno favorito, giorno dopo giorno, l’eclissi di una stagione che non solo è lontana ma appare irripetibile. Quanto è accaduto negli ultimi mesi, poi, ha del surreale. Solo gli sciocchi chiudevano gli occhi per non vedere quello che stava accadendo e che poi è accaduto, la rovinosa caduta verso i piedi di Renzi la cui scarsa affidabilità avrebbe dovuto spalancare le orecchie. Invece. come i kamikaze giapponesi delle ultime ore di guerra, Berlusconi è stato lanciato verso il baratro da chi avrebbe dovuto aprirgli gli occhi e metterlo sul chi va là. Lo ha fatto Fitto, ma il suo tentativo di lanciare una OPA su Forza Italia era destinato all’insuccesso sia per lo scarso appeal personale fuori dalla Puglia, sia perchè in Puglia, in questi anni, Fitto ha fatto o ha lasciato fare le stesse cose che Berluscon ha lasciato fare nel resto d’Italia, cioè attorniarsi di utili idioti, sempre pronti a dirgli di si, in cambio di posizioni di potere mal utilizzati al momento opportuno e, sopratutto, a discapito del partito che se in Puglia non è arretrato come nel resto d’Italia è solo per l’antico e ancora diffuso sentimento quasi romantico che anima molti degli elettori di destra in una terra che la Destra ha sempre sentito molto più vicina della sinistra. E’ vero, il centrodestra italiano è nelle macerie e non è ipotizzabile che dalle macerie sia facile tirarsi fuori per ricostruire ciò che malamente è andato distrutto. Anche perchè, ed è quel che più pesa, si avveertè l’assenza di un leader, un nuovo leader, capace di intepretare i sentimenti del popolo e del mondo di destra, capace di restituire ad un esercito ora stanco e sfiduciato la voglia di ritonare a combattere e di ritornare a vincere. Ed anche quando questa figura apparisse all’orizzonte, la traversata nel deserto sarà lunga e difficile, ricca di nostalgie e di ricordi, sui quali però costruire il futuro. g.
IL PARTITO DERL NAZARENO, di Anonio Polito
Pubblicato il 22 gennaio, 2015 in Il territorio | No Comments »
È nata una nuova maggioranza, con Berlusconi dentro e Bersani fuori? Se lo chiedono in molti dopo che i senatori di Forza Italia, al grido di «forza Italicum», hanno salvato il governo sostituendosi ai voti della minoranza pd. Ma è una domanda ingenua, almeno per la prima metà. Berlusconi era già di fatto nella maggioranza che sorregge il governo fin dal suo parto; ne fu anzi l’ostetrico nell’incontro del Nazareno. S olo grazie al placet di Berlusconi sulle riforme Renzi poté presentarsi al Quirinale e chiedere l’incarico a Napolitano: era diventato in grado di fare ciò che a Letta e ad Alfano non era stato consentito.
I puristi della Costituzione formale potrebbero ora anche chiedere al capo dello Stato, se ce ne fosse uno nella pienezza dei poteri, una verifica parlamentare della nuova maggioranza. Ma la verità è che dalla nascita a oggi già più volte si è visto all’opera nelle Camere il partito del Nazareno (PdN?), o «soccorso azzurro» come lo chiamano spregiativamente gli avversari. Sulla riforma del Senato a Palazzo Madama, quando l’opposizione interna al Pd è stata resa ininfluente grazie al sostegno di Forza Italia. Ma anche per garantire il numero legale sul Jobs act. E sul decreto fiscale tanto contestato, quello della depenalizzazione dei reati sotto il 3%, si può star certi che Forza Italia sosterrà il governo quando se ne discuterà in Parlamento.
Né vale l’obiezione per cui la legge elettorale non è materia di maggioranza, perché lasciata al libero formarsi del consenso in Parlamento. Ma quando mai? La legge elettorale è la più politica delle leggi (De Gasperi mise addirittura la fiducia sulla legge-truffa). Infatti l’Italicum è stato preparato dall’esecutivo, accompagnato amorevolmente in Parlamento da un ministro plenipotenziario, ed è materia essenziale del programma di governo. La controprova sta nel fatto che se ieri fosse caduto, sarebbe caduto anche il governo (come del resto lo stesso Renzi ha fatto intendere ai suoi «ribelli»). Dunque sì, il voto di ieri configura una maggioranza politica. Solo che la novità non è questa. La novità è che, per la prima volta, i voti di Berlusconi sono determinanti: l’ex Cavaliere è diventato l’ago della bilancia di un equilibrio che finora pendeva tutto dalla parte di Renzi. In questo senso ha ragione il gianburrasca Brunetta: ora il premier non può più dire «se non ci state andiamo avanti da soli».
E qui arriviamo alla seconda domanda. Assodato che Berlusconi è in maggioranza, se ne deve dedurre che Bersani, D’Alema, Cuperlo, Fassina e tutta la schiera di dissidenti democratici sono passati all’opposizione? Gente del mestiere come loro non poteva non sapere che facendo mancare 27 voti a Renzi avrebbe innescato la clausola di mutua difesa del patto del Nazareno, producendo così l’effetto collaterale di rendere determinante Berlusconi. È possibile che l’abbiano fatto deliberatamente? Da tempo si dice che la minoranza Pd è divisa tra chi vorrebbe metter su una casa nuova e chi vuol acquartierarsi nella vecchia. D’Alema guiderebbe il primo gruppo, e a sentirlo l’altra sera da Floris mentre tifava Tsipras si era indotti a crederlo. Mentre Bersani vorrebbe restare nella Ditta, di cui del resto ha il copyright . Ma nel gruppo dei 27 oltre a Gotor, che è pur sempre un professore guidato dall’etica weberiana della convinzione, c’era anche Migliavacca, che di Bersani è invece l’uomo d’azione, rotto a ogni compromesso. Se stavolta non c’è stato, vuol dire che qualcosa di profondo è accaduto. La scelta di abbandonare l’assemblea del gruppo al Senato, presieduta dal segretario-premier, è simbolica per le liturgie di quel partito, quasi una scena da congresso di Livorno. Così come lo è la convocazione nella sala Berlinguer di 140 parlamentari fedeli. Tutto ciò autorizza il sospetto che davvero Bersani&co, più Fitto&co dall’altra parte, possano passare all’opposizione del governo, oltre che del partito del Nazareno.
Se così fosse il terreno ideale per la resa dei conti, col favore del voto segreto, è ovviamente l’elezione del nuovo capo dello Stato. Ne uscirebbe definitivamente sancito un tale rimescolamento tra sinistra e destra che perfino Giorgio Gaber non sarebbe più in grado di riconoscerle. Potrebbe diventare l’apoteosi di Renzi, l’ homo novus che libera la sinistra dai suoi rompiscatole. Ma potrebbe anche essere un cambio di pelle costoso per il giovane leader. Perché una cosa è appoggiarsi a Berlusconi, un’altra è mettersi nelle sue mani. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 22 gennaio 2015
.…..Polito è uno dei più bravi analisti politici in circolazione, la sua analisi dei fatti è sempre attenta, e lo è anche quella che attiene ai recenti sviluppi della situazione politica dopo lo strappo di ieri al Senato, dove con un artificio regolamentare proposto da un ex sostenitore delle preferenze (il sen. Esposito del PD) e il sostegno aperto e rivendicato di una forza politica a parole alternativa al Pd, il PD ha incartato il via libera ad una legge elettorale che ripropone con modalità diverse la stessa identica minestra del porcellum cioè un lungo elenco di nominati nel Parlamento futuro. Sulla scelta di Berlusconi di legarsi mani e piedi a Renzi rimandiamo alle parole di Fitto secondo il quale si tratta di una scelta suicida non soltanto perchè di Renzi è assai nota la propensione a pugnalare alla schiena chiunque, ma anche – e sopratutto – perchè induce altri milioni di elettori, dopo i tanti che già l’hanno abbandonato, ad allontanarsi dal ex contenitore unico del centrodestra nel quale in tanti avevano riposto speranze e attese, che ora appaiono tradite.
L’ERRORE DI PAGARE PER GLI OSTAGGI, di Marco De Marco
Pubblicato il 18 gennaio, 2015 in Il territorio | No Comments »
La liberazione di Greta e Vanessa ci restituisce due vite, ma col cedimento al ricatto altre ne espone.
Siamo tutti felici per la liberazione di Greta e Vanessa, ma siamo tutti preoccupati per le sorti generali. E in più c’è il fatto che l’inconciliabilità tra questi due atteggiamenti non può più essere occultata per tacitare il senso morale e favorire la ragion pratica. La liberazione di Greta e Vanessa ci restituisce due vite, le strappa alla ferocia dei tagliagole, ma molte altre ne espone. Ciò può avvenire non in astratto, ma in concreto, vista la ferocia cieca che si è scatenata in Francia e ovunque nel mondo. Se si fosse pagato un riscatto quei soldi, molti o moltissimi che siano, finirebbero per finanziare nuovi attacchi armati e nuovi rapimenti. Può accadere di mettere molte altre vite in pericolo soprattutto perché un cedimento al ricatto spaccherebbe il fronte occidentale dell’antiterrorismo; perché separerebbe chi paga per liberare i propri concittadini da chi invece resiste affinché si vinca tutti; perché sminuirebbe la considerazione internazionale di chi si piega; perché costringerebbe chi contratta a dissimulare mediazioni e compromessi indicibili; e perché indurrebbe a sacrificare quella trasparenza dell’azione di governo che alimenta la fiducia del cittadino nello Stato. Su questi ultimi punti, il ministro Gentiloni è stato molto chiaro: quando ha detto che le decisioni assunte per Greta e Vanessa sono in linea con quelle adottate nel passato e quando ha aggiunto che esse sono le decisioni dell’Italia e non «di questo governo», da una parte ha invitato a non alzare inutili polveroni, ma dall’altra ha anche chiuso ogni margine per l’indignazione demagogica. Ostaggi sono stati liberati, insomma, anche quando al governo c’erano Berlusconi e i suoi alleati. Ma al posto di una unità al ribasso, del tipo «scagli la prima pietra chi è senza peccato», oggi è di altro che si sente il bisogno. L’Italia è il Paese che, pagando il prezzo altissimo della vita di Aldo Moro e della sua scorta, ha sconfitto il terrorismo delle Br. L’Italia è il Paese che ha vinto il fenomeno dei sequestri di malavita negando ai familiari degli ostaggi di disporre dei propri beni. È da qui che deve ripartire una responsabile via italiana all’antiterrorismo. Oggi uno Stato che ripiegasse rispetto alla propria storia e che concedesse a se stesso ciò che nega al singolo cittadino sarebbe molto vulnerabile. E più esposto al fallimento. Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2015
……Quel che scrive De Marco è condivisibile. E molti lo hanno ricordato nei giorni che hanno preceduto la liberazione delle due suffragette lombarde e subito dopo, quando è circolata la notizia del pagamento di un riscatto milionario (11 o 12 milioni di euro) ai sequestratori che se pure non sono i terroristi dell’ISIS, ne sono comunque fiancheggiatori. Aldo Moro fu sacrificato con l’intesa di tutti i partiti, escluso il PSI di Bettino Craxi, perchè, si disse, non si poteva cedere al ricatto dei terroristi che avevano trucidato gli uomini della scorta, perchè, si aggiunse, non si sarebbe potuto guardare negli occhi i familiari, le mogli e i figli e i genitori dei poliziotti assassinati con estrema ferocia dai rapitori di Moro, se per Moro si fosse scesi a compromesso, perchè, si disse, cedere al ricatto sarebbe significato incentivare altre azionmi simili. E Moro fu ucciso in none della ragion di stato. Altrettabnto accadde durante la stagione dei rapimenti: quando la magistratura adottò la strategia del blocco dei beni per impedire il pagamento del riscatto, ci fu chi, specie i familiari del rapito di turno, che criticò il provvediemnto ma nei tempi anche abbastanza brevi il fenomeno, grazie proprio a quella scelta, andò velocemente riducendosi sino a scomparire. Perchè ora no, allora? Cosa c’è di diverso? La scelta di non pagare non è una scelta, è un obbligo, nè vale la scusa discutibile che altri Paesi lo fanno di nascosto. Specie per chi si avventura per puro spirito esibizonistico, come nel caso delle due lombarde, mettendo a repentaglio non solo la loro vita, ma anche quella di altri, come accadde nel caso della giornalista del manifesto per la cui liberazione non solo fu pagato il riscatto, ma perse la vita il capo degli 007 italiani Calipari. Tutti sono liberi di fare della loro vita ciò che vogliono, ma è bene che ciascuno sappia che se fa scelte pericolose, tra l’altro, come nel caso delle due “volontarie”, senza alcuna informazione nè al Ministero degli Esteri nè altri, solo per puro esibizionismo, sappia che lo fa a proprio rischio e pericolo, e sopratutto lo sappiano i genitori, nel caso specifico, peggiori delle figlie, perchè se avessero avuto nella zucca un pò di buon senso avrebbero imepdito alle figlie, senza esprienza e preparazione, di avventurarsi in uno scenario di guerra civile, che è peggiore di una guerra dove si sa chi sta con chi. E peggiori perchè dopo aver implorato l’intervento dello Stato non hanno neppure chiesto scusa per la dabbenaggine sia delle figlie che di se stessi. g.
PAPA FRANCESCO: NON DERIDERE LA FEDE DEGLI ALTRI (E I LORO SIMBOLI), di Luigi ACCATTOLI
Pubblicato il 16 gennaio, 2015 in Il territorio | No Comments »
