Archivio per la categoria ‘Politica estera’

I SAMURARI E L’INUTILE EUROPA, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 16 marzo, 2011 in Politica, Politica estera | No Comments »

Giappone, ripresi i tentativi di raffreddare il reattore nella centrale di Fukushima Che cosa sta succedendo? Se dovessimo dare retta alle dichiarazioni del commissario europeo per l’energia, Gunther Oettinger, il Giappone sarebbe pronto a fare la fine di Atlantide e l’Europa dovrebbe prepararsi a una pioggia radioattiva secolare. Quando un politico, al cospetto di un incidente nucleare, pronuncia la parola «apocalisse», dovrebbe sapere di cosa sta parlando e conoscere l’effetto che alimenta nella pubblica opinione in larga parte impreparata e per questo in ansia.
L’Europa è in una profonda crisi di identità. Ne abbiamo avuto prova con Libia e Giappone. L’era degli shock globali ha messo a nudo i limiti di costruzione della sua architettura economica e soprattutto politica. Siamo di fronte a un decadimento delle leadership e a una quanto mai improvvisata e dilettantesca gestione dell’agenda internazionale. Che l’Europa contasse sempre meno era chiaro a tutti e i report delle sedi diplomatiche americane svelati da Wikileaks ne avevano certificato la marginalità crescente. Ma lo spettacolo a cui stiamo assistendo tra Bruxelles, Tripoli e Tokyo è al di là del bene e del male.

Caso esemplare: la Francia. Un Paese con un passato da potenza globale dovrebbe avere un minimo di esperienza diplomatica. Vediamo le ultime imprese di Parigi. Azione: sulla Libia ha lanciato l’idea di bombardare Gheddafi e sul nucleare nipponico ha avviato una campagna di allarmi a catena. Reazione: il Colonnello sta massacrando in beata pace i ribelli libici, mentre il ministro degli Esteri giapponese, Takeaki Matsumoto, ieri è dovuto intervenire così: «Esorto i Paesi stranieri ad avere sangue freddo». Il Paese dei Samurai sta dando lezioni di dignità e di coraggio, l’Europa sta mettendo il sigillo sulla sua inutilità. Mario Sechi, Il Tempo, 16 marzo 2011

TERREMOTO E TSUNAMI IN GIAPPONE: MILLE MORTI, DIECIMIAL DISPERSI, INCUBO NUCLEARE

Pubblicato il 12 marzo, 2011 in Cronaca, Politica estera | No Comments »

Fukushima

Il violento terremoto di magnitudo 8.9 e lo tsunami che ieri hanno devastato il nord-est del Giappone hanno provocato almeno un migliaio di vittime. Continuano a susseguirsi le scosse di forte intensità: una di 6.8 e un’altra di magnitudo 6.0 hanno colpito il nord est del Paese. Sale l’incubo nucleare. Violenta esplosione a Fukushima: feriti alcuni impiegati, entrano in azione super-pompieri. Area evacuata per 20 km. L’Agenzia giapponese sulla sicurezza nucleare ha definito però “improbabili” gravi danni al reattore. Aiea chiede informazioni a Tokyo. Intanto il premier Naoto Kan parla in tv: sisma, un disastro senza precedenti.

Intanto, da ogni parte del mondo, compreso l’Italia, partoco soccorsi e aiuti per il Giappone piegato su stesso a causa di questo  enorme disastro.

GHEDDAFI RESISTE E NOI PAGHIAMO, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 8 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

Il leader libico Gheddafi La situazione in Libia si sta maledettamente incartando e gli effetti cominciano ad essere tangibili anche per noi. I belli spiriti che non vogliono far niente, sperano che tutto torni a posto senza muovere un dito o con il minimo sforzo (degli altri) si stanno svegliando. Gheddafi ha scelto la via più atroce: la guerra civile. Gli analisti che assicuravano un impatto zero della crisi sul prezzo del petrolio e della benzina prendano l’auto e facciano sosta alla pompa. Il carburante è al prezzo record. E salirà ancora se l’Arabia Saudita si sveglia col piede sbagliato. L’Occidente sta a guardare, Gheddafi resta e il conto lo paghiamo noi. Gli americani hanno capito che l’attesa non può durare in eterno, ogni giorno che passa è il Gerovital per Gheddafi e la morte certa per centinaia di libici. Il presidente Obama ha ribadito che l’intervento militare è possibile. Può darsi che la sortita della Casa Bianca faccia parte per ora solo di una strategia di show of force, mostrare i muscoli per indurre il dittatore a cedere. Ma proprio per questo, non bisogna indebolire l’azione di Obama invitando gli Usa «a darsi una calmata». L’Italia esca dal reality della politica interna, il governo parli con una voce sola e la sinistra (come ieri D’Alema) la smetta di fare paragoni indecenti tra il dramma libico e quello che accade nel nostro Parlamento. Capisco che i partitanti non riescano a volare alto, ma almeno si diano da fare per non far volare più i caccia di Gheddafi. Mario Sechi, Il Tempo, 8 marzo 2011

CRISI IN NORDAFRICA: A LAMPEDUSA SBARCANO 1000 PROFUGHI IN 12 ORE

Pubblicato il 7 marzo, 2011 in Cronaca, Politica estera | No Comments »

Profughi a bordo di un barcone provenienti dalla Tunisia

Profughi a bordo di un barcone provenienti dalla Tunisia

Un altro barcone, il dodicesimo nel giro di poche ore, è stato avvistato poco fa da un Atr 42 della Guardia di Finanza a poche miglia da Lampedusa. A bordo, secondo una prima stima, vi sarebbero una cinquantina di migranti.

Intanto sono cominciati questa mattina i trasferimenti degli immigrati sbarcati nelle ultime ore a Lampedusa. I primi cento sono partiti con un aereo diretto verso Il Cpt di Crotone, altri 64 sono stati imbarcati sul traghetto di linea “Palladio” diretto a Porto Empedocle. Nel Centro di contrada Imbriacola si trovano ancora un migliaio di profughi, quasi tutti tunisini. Il ponte aereo predisposto dal Viminale dovrebbe proseguire per tutta la giornata, in modo da consentire lo svuotamento della struttura come ha assicurato ieri il ministro dell’Interno Roberto Maroni al sindaco di Lampedusa, Bernardino De Rubeis. Questa mattina, intanto, si è alzato nuovamente in volo l’Atr 42 della Guardia di Finanza, che ieri aveva avvistato gli undici barconi poi approdati a Lampedusa, per una ricognizione nel Canale di Sicilia.

Dopo una notte di fermento e via vai, sono stati tra i 300 e i 400 gli uomini che nelle prime ore del mattino di oggi sono riusciti ad imbarcarsi al porto tunisino di Zarzis e prendere il largo diretti in Italia. Auto e camion pieni di ragazzi pronti a partire sono giunti al porto dove molti di loro hanno acquistato per 2500 dinari (1400 euro, questo l’attuale ‘prezzo di mercato’) il loro ‘biglietto per una vita nuova’. Le ‘adesioni’ si raccolgono al bar dove da giorni si aggirano persone che prendono nomi e compilano liste. A decine i ragazzi arrivano sulla spiaggia al buio a fari spenti in attesa che i controlli dell’esercito si allentino e potersi così imbarcare sulle piccole barche necessarie per raggiungere le quattro più grandi imbarcazioni che aspettano al largo. La traversata fino a Lampedusa dirà tra le 10 e le 12 ore, in particolare adesso che il mare è tornato molto calmo. Con l’alzarsi del sole, al mattino al porto di Zarzis non si vede più quasi nessuno: chi ce l’ha fatta è partito, chi resta aspetta in macchina e conta i soldi.

LA FRANCIA SVOLTA A DESTRA (MA NON DITELO A FINI)

Pubblicato il 7 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

Dunque la Francia ha voglia di destra. Ne ha voglia al punto di essere pronta a votare per lei alle presidenziali; insomma, a mandarla al ballottaggio. Le cifre del sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano Le Parisien sono chiare: Marine Le Pen, figlia d’arte e da pochi mesi leader del Fronte nazionale, arriverebbe in testa con il 23% delle preferenze, due punti sopra il presidente Sarkozy e la leader socialista Martine Aubry, fermi entrambi al 21%. Dunque, andrebbe dritta al ballottaggio, come suo padre, Jean-Marie, nel 2002; ma con una differenza sostanziale. Lui ci andò per caso, più per demeriti della sinistra (che arrivò al voto divisa), che per meriti propri. Questa volta, invece, la popolarità di Marine appare consapevole e voluta. Una scelta, non un azzardo, che molti in Francia hanno già iniziato a demonizzare e che, invece, ancor prima di essere criticato, andrebbe capito e analizzato.
Sia chiaro: la destra che apprezziamo è quella moderata e liberale che governa in molti Paesi europei. Formazioni estremiste come il Fronte nazionale non rappresentano, a nostro giudizio, una risposta accettabile ai problemi di oggi, ma se questi partiti emergono con tanta forza (e non solo in Francia), significa che quelli tradizionali sbagliano o perlomeno che non sanno più essere in sintonia con la società.
Oggi un numero crescente di francesi rifiuta l’immigrazione incontrollata e la conseguente imposizione, per inerzia, di una società multietnica. Persino la Francia – le cui radici culturali e nazionali sono da sempre molto profonde – soffre una profonda crisi identitaria. Aggiungete gli effetti della crisi economica, la larvata ma implacabile erosione della sovranità nazionale generata dall’Unione europea, la paura che i recenti sommovimenti nel Nord Africa provochino un’altra ondata migratoria e il quadro appare nitido.
Marine Le Pen è donna e grazie ai suoi 42 anni intercetta un pubblico metropolitano, giovane che suo padre non riusciva a sedurre. È preparata e carismatica. Appare meno estremista, meno «fascista» di Jean-Marie; dunque più accettabile. Nessuno può sapere se nella primavera del 2012, quando si svolgeranno le nuove presidenziali, riuscirà a giungere al ballottaggio; di certo, però, la sua popolarità non è immotivata.
E questo dovrebbe far riflettere Sarkozy, il suo declino nei sondaggi ha molte ragioni; una, però, è evidente: da circa un anno il presidente tende ad accreditarsi come leader centrista e ha notevolmente annacquato le sue posizioni sui temi sociali e identitari. Doveva essere la mossa vincente per spiazzare la sinistra. E invece lo sta danneggiando.
Nel 2007 Sarkoy vinse perché propose un programma innovativo e liberaldemocratico e al contempo molto profilato sull’immigrazione e sulla necessità di preservare i valori della tradizione. Senza mai dichiararlo, «rubò» spazio proprio a Le Pen, dando una rispettabilità a idee che, altrimenti, tendevano al razzismo e all’intolleranza. I francesi, premiando Marine, chiedono che quelle esigenze tornino al centro dell’agenda politica e Sarkozy dovrà prenderne atto. Se vuole restare all’Eliseo deve essere quello di quattro anni fa. Insomma, deve andare a destra e ancora a destra.
E in Italia? Certi umori sono palpabili anche nel nostro elettorato, che quando pensa alla destra francese la ricollega non a Bossi, né a Berlusconi, ma a Gianfranco Fini. Al Fini del Msi, che negli anno Ottanta abbracciava Jean-Marie Le Pen, ma anche al Fini di Alleanza nazionale, che, unico italiano, nel 2008 veniva invitato proprio da Sarkozy a celebrare i suoi allora freschi successi.
Gianfranco Fini, però, non è più quello di 25 anni fa e nemmeno quello di tre anni fa. A onor del vero, non è più nemmeno di destra. Ragiona e agisce come un leader progressista, canta le lodi della globalizzazione e si presenta come alfiere del Terzo Polo. Sogna un’Italia multietnica che fino a qualche tempo aborriva e non vibra più per quei valori patriottici che un tempo lo commuovevano. È convinto che il futuro sia al centro, per ragioni che la maggior parte dei suoi estimatori continua a non capire e lui a non spiegare. Per questo è destinato a perdere. Solo soletto. Fonte: Il Giornale, 7 marzo 2011

RIAPPARE GHEDDAFI. CHE SUCCEDE SE RIMANE AL POTERE?

Pubblicato il 2 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

“Dal 1977 ho dato il potere al popolo e da allora non ho più poteri nel paese né di tipo politico né amministrativo”. E’ quanto ha affermato Muammar Gheddafi parlando ai suoi sostenitori a Tripoli, in occasione del  trentaquattresimo anniversario della nascita dei Comitati popolari in Libia. “Saluto e faccio gli auguri al popolo libico per questa ricorrenza – ha affermato –  dal 3 marzo del 1977 abbiamo passato il potere al popolo e voglio ricordare al mondo che da allora ho dato il potere al popolo. Abbiamo vinto l’occuopazione italiana e americana e il popolo gestisce il petrolio e i suoi proventi”. Poi il rais ha letto il documento fondativo della Jamahiriya redatto nel 1977, spiegando che: “La repubblica libica è in mano al popolo, che comanda – ha affermato – senza delegare, senza governo, senza presidente. Questa è la nostra democrazia”.

La risata con cui Muammar Gheddafi ha risposto al giornalista della Bbc che gli chiedeva se fosse disposto ad accettare l’esilio conferma le peggiori previsioni. Il colonnello non ha intenzione di trattare per una via di fuga, controlla saldamente Tripoli e Sirte ed è anche in grado di tenere sotto assedio la strategica al Zawiya, terminal di un importante oleodotto, Zenten e Misurata. Proprio a Misurata, le truppe speciali di Khamis Gheddafi hanno ucciso ieri tre dimostranti, hanno catturato decine di giovani e li hanno mostrati alla televisione pubblica, indicandoli come “drogati” e “responsabili dei disordini”.

Così, in Libia, si apre uno scenario completamente diverso rispetto a quello prospettato dalla maggior parte della stampa italiana, che ha assicurato per giorni la fine certa e rapida del colonnello. Venerdì, il Corriere della Sera ha titolato in prima pagina “Tripoli alla battaglia finale”, mentre la Stampa ha scritto “I ribelli puntano su Tripoli”. L’annuncio del quotidiano torinese risulta sobrio rispetto a quello scelto da Repubblica, che ha lanciato: “I ribelli marciano su Tripoli”. Quella marcia deve ancora avvenire, e Gheddafi non ha intenzione di cedere in fretta. Gli oppositori sono forti, soprattutto nella parte orientale del paese, hanno le armi e l’appoggio della popolazione. In più, ora cercano di organizzarsi anche sotto il profilo militare.

Uno degli ufficiali che hanno lasciato l’esercito, Faris Zwei, ha detto ieri che i ribelli hanno costituito un consiglio unitario e che preparano attacchi coordinati contro i lealisti. “Pianificheremo gli assalti alle unità di sicurezza di Gheddafi, alle sue milizie e ai suoi mercenari – ha dichiarato – Vogliamo che ogni città abbia l’onore di liberarsi da sé. Se ci saranno ritardi, interverremo noi”.

Ma il rais segue la strategia dell’arrocco e gli analisti più avvertiti cominciano a pensare che potrebbe anche avere ragione dei ribelli. Ha la calma che serve per incontrare i giornalisti, per mandare un nuovo ambasciatore negli Stati Uniti e per mettere uno dei suoi fedelissimi alla guida delle trattative con i ribelli. I suoi uomini stanno preparando in queste ore un attacco alla città di Nalut. FOGLIO QUOTIDIANO, 2 MARZO 2011

PANCIA PIENA E TESTA VUOTA, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 1 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

Barack Obama La crisi libica è giunta al suo momento più delicato: la calma prima della tempesta. Gli attori di questa tragedia si stanno parlando a distanza: da una parte abbiamo Muammar Gheddafi che fa sapere di non avere nessuna intenzione di mollare la presa, dall’altra sul palcoscenico è salito Barack Obama che ha vestito l’uniforme del Commander in Chief e dato il via alle grandi manovre navali. Gli Stati Uniti hanno capito che a Gheddafi deve essere lasciato ancora uno spazio per trattare la resa, ma non così ampio da consentirgli di riorganizzarsi. Nel Golfo della Sirte si disegnano gli equilibri futuri del Mediterraneo. Come avevo anticipato nei giorni scorsi, le due unità navali più importanti che pattugliano la zona del Corno d’Africa hanno cominciato la loro risalita verso il canale di Suez: la portaerei atlantica Enterprise e la portaelicotteri d’assalto Kearsarge si stanno schierando per quello che ora è solo uno show of force e dopo – se il Colonnello non lascia – un’operazione militare mare-aria-terra che al Pentagono stanno studiando in queste ore. Tutte le opzioni sono ancora sul tavolo, quella dell’esilio del dittatore per la prima volta è stata evocata dalla diplomazia USA e non ci sono dubbi che sarebbe l’epilogo più indolore per la Libia. Ma Gheddafi è un osso duro, è un beduino, un guerriero che spera di poter ribaltare la situazione. Il Colonnello in realtà ha il destino segnato. E in cuor suo lo sa. Ieri ha evocato – come immaginavo – il tradimento degli alleati, segno che ha compreso di esser giunto all’atto finale della sua storia quarantennale.

Muammar deve solo scegliere l’epilogo: una fine nel clangore della battaglia o una resa con le mani alzate e il tramonto senza spade e cavalieri. Le navi americane ci metteranno un paio di giorni a posizionarsi sul teatro di guerra, mentre gli insorti – che hanno ottenuto l’appoggio del Dipartimento di Stato – attendono a questo punto le mosse e le istruzioni di Washington. Se fossimo in una corsa, saremmo all’istante del surplace, prima del giro finale e del traguardo. Sarebbe tutto maledettamente più facile se davanti a Obama non ci fosse un Gheddafi al crepuscolo, che digrigna i denti come un animale ferito, ma un uomo pronto a lasciare che la Storia faccia il suo corso. È una ciclopica guerra di nervi che gli Stati Uniti non avevano messo nel conto. La presidenza di Obama in questo senso sta ripercorrendo quella di Bush. Il presidente repubblicano non aveva come primo punto della sua agenda la politica estera, ma l’11 settembre 2001 mise i «Vulcans», il gabinetto di consiglieri di Bush, di fronte a un nemico capace di colpire gli Stati Uniti al cuore. Il 12 settembre il mondo è cambiato. Obama ha ereditato due guerre – Afghanistan e Iraq – e un generale David H. Petraeus che a Baghdad ha trovato la soluzione mentre ancora a Kabul non c’è una victory strategy che funziona. Ma per Barack l’emergenza, il primo punto del programma, era un altro: l’economia, l’uscita degli Stati Uniti dal buco nero della crisi finanziaria e della recessione. La politica estera era un carnet di buoni propositi, in linea con il «yes we can» della campagna elettorale, con il discorso retorico pronunciato a Il Cairo dal Presidente, ma niente di più. Obama si era presentato come il più classico degli isolazionisti, senza mai dirlo, ma di fatto proponendo una ricetta in cui il grande guardiano del mondo erigeva un muro in patria e sperava nella nascita di un multilateralismo illuminato per la soluzione dei conflitti. Questo piano – difficile in realtà definirlo tale – si è scontrato con la dura realtà del Medio Oriente prima e dell’Africa del Nord subito dopo. Una potenza nucleare in fieri come l’Iran, l’impazienza e i timori di Israele, le difficoltà del Pakistan, il collasso dell’Egitto, l’implosione della Tunisia, le rivolte in Bahrein, hanno presentato a Obama lo scenario che all’inizio della sua avventura alla Casa Bianca voleva riporre nel cassetto: gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza in grado di usare la forza in tempi rapidi per spegnere incendi che possono propagarsi fino a noi.

Nessun altro si è fatto avanti per assumersi questa responsabilità: non l’Europa imbelle e senza spina dorsale, non la Cina che sta costruendo un suo esercito, ha in Africa enormi interessi economici ma non vuole gettarsi nella mischia, non la Russia che in Consiglio di Sicurezza si è opposta a un intervento militare americano ma sa di dover prima o poi capitolare. L’America è chiamata ancora una volta a svolgere la sua missione. La Libia non è un paesello desertico qualsiasi, non è un rebus tribale che si risolve piantando una tenda nel deserto, stringendo quattro mani, offrendo un pugno di perline colorate e saluti a tutti. La Libia è petrolio, gas, le sue coste s’affacciano sull’Europa, i suoi confini ora sono aperti a chi traffica in Niger, Egitto, Tunisia e Chad. Giusto per fare un esempio: il Niger produce uranio, il Chad esporta mercenari. Non è un mondo per il circolo dell’uncinetto quello che abbiamo davanti. Per queste ragioni il paradigma della crisi economica applicato alle banche – too big to fail, troppo grande per fallire – è stato applicato direttamente alla situazione libica: è un Paese troppo grande e aperto alle scorribande di soggetti nocivi alla salute per poter implodere nel caos. Di tutto questo in Italia non si discute per niente. Il deserto è qui. È un quadro desolante che presenta un Paese chiuso in se stesso, timoroso di prendere l’iniziativa, bloccato dalla partigianeria dei protagonisti politici. La maggioranza si è resa conto tardi dell’accelerazione dello scenario post-Gheddafi e ha balbettato parecchio prima di dire due parole chiare sul flipper insanguinato e il game over mentale del Colonnello, mentre l’opposizione è semplicemente disarmante nelle sue contraddizioni e meschinità politiche. I libici muoiono, la sinistra rotea come un avvoltoio sperando che tutto questo si traduca in una caduta del governo per mano della piazza egitto-girotondista. È un quadro deludente, riflesso anche dall’informazione. Il mondo davanti a noi brucia ma – tranne qualche bella eccezione – i titoloni sono per la cronaca nera, il gossip politico più rancido, fattacci che non cambiano la nostra vita ma servono da capro espiatorio per metabolizzare la nostra assenza di visione e coraggio, pagine di putrefazione che servono a trovare altri colpevoli per la nostra indifferenza. Se qualcuno avesse fatto un giro per le strade de Il Cairo, dato un’occhiata ai nugoli di bambini che giocano nelle metropoli del Nord Africa e del Medio Oriente, si accorgerebbe che abbiamo di fronte una minaccia e un’occasione. Quel mondo che guarda le nostre coste cresce, fa figli, si moltiplica, mentre da noi la crescita è a tasso zero. Quel mondo giovane e vigoroso aspira ad essere libero, mentre noi siamo prigionieri di un benessere che non è per sempre. Abbiamo la pancia piena, ma la testa appare vuota. Mario Sechi,Il Tempo, 1° marzo 2011


LIBIA: LO DICE LA STORIA. AVEVA RAGIONE BUSH

Pubblicato il 25 febbraio, 2011 in Politica estera | No Comments »

George W. Bush Il Colonnello Gheddafi consuma le sue ultime ore tra proclami deliranti e squadroni della morte assoldati per ricacciare in gola ai libici l’urlo di disperazione e speranza che sta sconvolgendo la mappa politica mediorientale. L’Europa condanna ma tentenna, l’America obamiana aspetta.
Sono solo dieci anni ma a Washington sembra passato un secolo da quando i neoconservatori americani furono catapultati dalle scrivanie alle stanze dei bottoni dagli attentati dell’11 settembre, in qualità di ideologi delle campagne mediorientali di George W. Bush e della sua freedom agenda. Dieci anni in cui un messaggio dalle caratteristiche apparentemente universali come la diffusione di democrazia e libertà nei territori piagati dall’oscurantismo e dalla repressione è stato interpretato e stravolto fino a essere descritto come l’incarnazione di una volontà di potenza propria dell’imperialismo più becero. Lungi dall’essere studiate, comprese e all’occorrenza confutate, le loro idee hanno rappresentato il male assoluto agli occhi di gran parte delle opinioni pubbliche mondiali, dei media allineati, delle sinistre ideologiche e del realismo classico. Additati all’occorrenza come criminali di guerra al servizio della lobby ebraica o fascisti assetati del sangue delle masse arabe, i neoconservatori – salvo poche e lodevoli eccezioni – sono probabilmente il fenomeno peggio spiegato e meno compreso della politologia contemporanea. Date per morte con la fine dell’esperienza bushiana, le loro teorie tornano oggi alla ribalta in coincidenza con il risveglio rivoluzionario del mondo arabo, nelle sue accezioni nordafricana e mediorientale.
E la parola rivincita comincia ad aleggiare nelle redazioni dei giornali e nelle sale di studio dei think tank americani. Così, mentre tutti sembrano improvvisamente riscoprire e sposare il concetto di promozione della democrazia senza peraltro riconoscerne la provenienza ideale, qualcuno comincia timidamente a chiedersi, sull’onda lunga delle guerre di liberazione in Afghanistan e Iraq, se i Vulcans in fondo non avessero ragione. Tentiamo una prima risposta. Se il vento di rivolta che sta scuotendo le autocrazie arabe non dimostra ancora la correttezza della dottrina Bush nelle sue conseguenze (ovvero il nesso causa-effetto), ne conferma però le premesse e le intuizioni originarie: la democrazia non è cosa (solo) occidentale e le legittime aspirazioni dei popoli alla libertà e allo sviluppo devono essere riconosciute, favorite e veicolate. I fautori dell’appeasement e della non ingerenza, nelle varie declinazioni ideologiche, basavano le loro conclusioni su due postulati fondamentali: che il risentimento delle popolazioni arabe fosse naturalmente rivolto contro l’occidente (da qui la necessità di ingraziarci l’autocrate di turno per mantenere la situazione sotto controllo); che i popoli del medioriente non fossero pronti per assumere le redini del proprio destino.

I fatti di queste settimane smentiscono entrambi questi pregiudizi a sfondo velatamente razzista. Una volta libere dalla paura le masse si sono ribellate non contro l’America ma contro quei regimi che hanno negato loro, in misura differente, dignità e diritti. È vero che gli esiti delle insurrezioni in corso sono ancora tutti da definire e che il vuoto di potere può essere potenzialmente riempito da fanatismi più o meno nocivi, ma è altrettanto evidente che i compromessi perseguiti dalle cancellerie occidentali per decenni non sono serviti né a migliorare le condizioni di vita nei paesi coinvolti né a garantire oggi quelle condizioni di sicurezza e stabilità che rappresentavano il loro principale obiettivo. La formula degli anni di Bush, secondo cui la nostra sicurezza dipende dalla loro libertà, torna quindi d’attualità e ripropone l’idealismo dei neoconservatori come la più conveniente e praticabile forma di realismo politico. Lo ricorda anche Bill Kristol in un suo recente articolo sul Weekly Standard, invitando ad abbandonare i timori e a schierarsi senza mezzi termini con gli insorti egiziani. Sulla stessa linea Paul Wolfowitz che sul Wall Street Journal spiega che Stati Uniti ed Europa dovrebbero intervenire per aiutare i libici ad abbattere Gheddafi. La storia recente dimostra che sostenere e guidare le aspirazioni dei popoli nella loro lotta contro decenni di immobilismo non è solo la cosa giusta da fare dal punto di vista morale ma anche la più conveniente sotto il profilo strategico. Allineare strategia e principi, suggeriva già Robert Kagan nel lontano 1997: un consiglio che con il tempo è diventato quasi un imperativo.  Enzo Reale, Il Tempo, 25 febbraio 2011

GHEDDAFI SPROFONDA LA LIBIA NEL SANGUE

Pubblicato il 24 febbraio, 2011 in Politica estera | No Comments »

Tajura, uno dei sobborghi popolosi di Tripoli, è nelle mani dei ribelli. Gli oppositori avrebbero preso anche il grande porto della capitale. Non ci sono notizie ufficiali, ma servono poche conferme ai colpi di fucile che bucano la città. Le unità dell’esercito dispiegate a Jabal al-Akhdar, nella Cirenaica, si sono unite alle altre che hanno deciso di disertare. La parte orientale del paese, ormai, non è più sotto il controllo di Muammar Gheddafi. Il bilancio dei morti sale giorno dopo giorno: lunedì sembravano meno di cento, martedì al Arabiya ha parlato di mille vittime, ma ieri un esponente libico del Tribunale penale internazionale ha aggiornato la conta a diecimila. Anche i numeri dei rifugiati sono impressionanti: 5.600 persone sono già fuggite in Tunisia e diverse migliaia sono dirette in Algeria, ma le stime che riguardano l’esodo in Europa sono ben più drammatiche.

Ieri Gheddafi è rimasto in silenzio, mentre i suoi mercenari entravano nelle case di Tripoli per macellare oppositori e innocenti (così secondo le più drammatiche denunce filtrate da Internet). Il rabbioso discorso di martedì sera, quello nel quale il rais ha annunciato che resterà in patria sino a quando avrà sangue nelle vene, non ha scoraggiato la guerriglia dei clan. Le divisioni, semmai, sono nella famiglia reale. La figlia di Gheddafi, Aisha, si sarebbe imbarcata su un volo diretto alla Valletta. Secondo il quotidiano Times of Malta, le autorità dell’isola hanno respinto lei e altre tredici persone a bordo di un piccolo aereo comparso all’improvviso sui radar, costringendolo a virare verso Cipro. All’inizio della settimana, il governo del Libano ha smentito le voci di un altro atterraggio di emergenza, effettuato questa volta da un pilota che trasportava Aline Skaf, la moglie di Hannibal, un altro figlio di Gheddafi. Ieri, il suo ex ministro della Giustizia ha accusato il colonnello di aver ordinato personalmente la strage di Lockerbie del 1988. Il suo sistema di potere, basato su alleanze familiari, sul sostegno dei militari e sul controllo esercitato dai servizi segreti, si allenta rapidamente. Come ha detto ieri il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, “la Libia è caratterizzata dalle lotte tra i clan, la situazione potrebbe essere esplosiva proprio a causa di queste lotte”.

Impagliazzo ha parlato a Roma, a margine di un incontro sulla convivenza religiosa al quale ha partecipato anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini. “Con la Libia tutti i politici italiani hanno dovuto trattare, perché la Libia è sostanzialmente confinante con noi – ha detto Impagliazzo – Ma con Tripoli fanno affari anche molti altri paesi europei. Oggi il problema non è questo, ma salvare il paese da uno scoppio dovuto a una guerra tra clan: devono vincere le ragioni politiche, ma anche l’intelligenza e la particolare conoscenza da parte del nostro paese nell’aiutare a risolvere la situazione politicamente”, ha concluso. All’intreccio fra le famiglie che si dividono da secoli il controllo del territorio sono legati l’esito della guerra civile e il destino della Libia.

I Qhadafa sono la tribù del rais: pure con il favore di Gheddafi, non oltrepassano il due per cento degli alti ufficiali, che sono concentrati nell’aeronautica. Non sono particolarmente influenti nel deserto orientale, ma hanno fama di essere particolarmente pretenziosi. Negli anni, Gheddafi ha cercato di ridurre il peso dei rivali con ogni strumento a sua disposizione. Fra loro, i Warfalla sono la tribù più numerosa: rappresentano un quinto della popolazione e sono predominanti in Tripolitania. Erano con il rais, ma già dal 1993 hanno iniziato ad agitarsi. Domenica, il loro sceicco Akram al Warfalla ha detto ad al Jazeera che “Gheddafi non è più un fratello, deve lasciare il paese”. Le sue parole hanno coinciso con la prima ondata di diserzioni nell’esercito, in cui i Warfalla sono tradizionalmente numerosi.

Attorno ai Warfalla ruotano gli Zintan, che nell’omonima città a sud di Tripoli hanno contribuito all’inizio della rivolta. Il loro sceicco al Jalal è apparso in un video su Facebook, chiedendo a tutti i membri del clan e a tutti i libici di scendere in piazza contro il regime. Gli Zuwayya sono invece il clan principale della Cirenaica,  in un’area ricca di petrolio: qui lo sceicco Faraj al Zuway ha minacciato di interrompere il flusso “entro 24 ore”.
Sulla Cirenaica pesa anche una irrisolta questione regionale, che affonda le proprie radici al periodo in cui il governatore turco stava a Tripoli: allora, la confraternita rigorista della Senussia approfittò della situazione per stabilire un potere di fatto nell’est. Ma la minaccia di tagliare il flusso del petrolio è venuta anche dagli Zawhiya, che vivono nell’estremo ovest.

Oltre alle tribù ci sono le minoranze etniche vere e proprie. I berberi nomadi tuareg del sud si sono uniti alla rivolta. Quelli montanari del Gebel Nefusa avevano già scatenato una protesta violenta a dicembre. I tebu negroidi del sud est non sono da meno: uno dei loro leader si è dato fuoco il 17 febbraio. Fonte: Il Foglio quotidiano, 24 febbraio 2011

LIBIA: C’ERA UNA VOLTA IL MARE NOSTRUM, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 23 febbraio, 2011 in Politica estera | No Comments »

Libia, l'ultima apparizione tv di Gheddafi Il grande timoniere Mao avrebbe detto: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è ottima». Ma qui non c’è nessuna lunga marcia e al posto di Mao c’è un tal Gheddafi. Il Colonnello ieri ha detto che non vuole levarsi di mezzo e farà di tutto per «schiacciare i ratti». Spesso i dittatori sono come il trombone nell’orchestra, ma nel caso del raìs c’è da scommettere che farà di tutto per restare al potere. La scia di sangue e morte che abbiamo visto finora in Libia potrebbe essere niente rispetto a quel che si va preparando: la guerra civile. Se la situazione piomba nel caos, la comunità internazionale dovrà affrontare lo scenario peggiore: l’intervento militare. Mentre scrivo il Consiglio di sicurezza dell’Onu è riunito, vedremo cosa tirerà fuori dal cilindro del Palazzo di Vetro. Da questo momento comunque un piano di intervento in Libia è quanto mai possibile. Proviamo a immaginare lo scenario futuro. Se Gheddafi non mette fine al massacro e non riesce quel che di solito si fa in questi casi – un colpo di Stato dell’esercito per deporlo – Stati Uniti e alleati dovranno cominciare a pensare alle grandi manovre: un primo show of force di mezzi navali – portaerei in prima battuta – nel Mediterraneo e istituzione di una no-fly zone in Libia per evitare raid aerei e rifornimenti di armi per i mercenari che il regime sta usando per sterminare i rivoltosi. Ma questo potrebbe non bastare a fermare il piano di sopravvivenza di Gheddafi.
A questo punto Barack Obama potrebbe correre il rischio di doversi imbarcare nella sua prima guerra: la campagna di Libia. Non è certo pensabile che un super produttore di gas e petrolio sia lasciato nel caos, con il rischio concreto non di «islamizzazione» ma di gruppi terroristici al potere che avrebbero uno sbocco diretto sul Mediterraneo, l’accesso a cinque grandi terminali petroliferi sulla costa (Tripoli, Ras Lanuf, Al Sidra, Zuetina e Tobruk) e ad altrettante raffinerie di greggio che sfornano 388 mila barili di oro nero al giorno. Il petrolio per la Libia è tutto. Un report della Cia, citato nel Military Balance del Nord Africa compilato da Antony Cordesman per il Csis di Washington, mette nero su bianco numeri che parlano: il 95 per cento delle esportazioni del Paese è rappresentato dal barile che costituisce il 25 per cento del prodotto interno lordo e assicura il 60 per cento degli stipendi del settore pubblico. La Libia, grazie al petrolio e a una popolazione contenuta (circa 6 milioni e mezzo di abitanti) è lo Stato del Nord Africa con il più alto reddito pro-capite, ma, come accade sempre nel caso di dittatura e governo di clan, questa ricchezza non è distribuita. Pochi ricchi, moltissimi poveri. Se a questo aggiungete che il 90 per cento del territorio è desertico e che il 75 per cento del cibo viene importato, la frittata gheddafiana è servita. Mentre in Egitto e in Tunisia l’esercito ha rappresentato lo strumento per organizzare la caduta dei dittatori (Mubarak e Ben Alì), in Libia la situazione delle forze armate è semplicemente caotica. Secondo gli analisti la qualità complessiva delle sue forze armate è bassa, equipaggiamento e addestramento idem. Il suo isolamento internazionale, ai tempi del Gheddafi terrorista, ha determinato un declino delle forze armate in tutte le sue componenti: manca perfino il requisito minimo – come abbiamo visto in questi giorni con gli episodi dei due aerei da caccia atterrati e Malta e della nave da guerra con 200 marinai a bordo approdata a la Valletta – che si chiede a ogni soldato durante un conflitto: la lealtà. Se l’esercito libico si sfascia, si fraziona in gheddafiani, ribelli e uomini in fuga tout court, organizzare una transizione sarà quasi impossibile mentre le probabilità di guerra civile aumenteranno vertiginosamente. A quel punto, la comunità internazionale si troverà davvero di fronte a una decisione grave: varare una missione militare sotto la bandiera Onu per ristabilire l’ordine in Libia. Gli Stati Uniti hanno adottato finora una tattica di stop and go dettata dalla necessità: Obama ha condannato la violenza del regime libico e chiesto un cessate il fuoco immediato. Il minimo sindacale.
La Casa Bianca sta alla finestra e per ora non può fare nient’altro. Il terremoto in corso in Medio Oriente e Nord Africa ha colto tutti di sorpresa e il Presidente non ha molte carte da giocare per uscire da un rompicapo pazzesco, mentre in Bahrein – sede del comando della Quinta Flotta navale degli Stati Uniti – ieri centomila persone hanno protestato contro il governo. Contemporaneamente, due navi da guerra iraniane, la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg, hanno varcato il canale di Suez e sono entrate nel Mediterraneo. Il regime di Ahmadinejad ora può scrutare con i suoi radar e guardare con i binocoli dei suoi marinai le coste di Israele. Non accadeva dal 1979 e questo indica un paio di cose non proprio rassicuranti: la caduta di Hosni Mubarak ha buttato giù il muro degli equilibri precedenti e da questo momento il Mare Nostrum è anche un po’ loro, degli iraniani e di chi di volta in volta l’Egitto deciderà di far passare per il Canale di Suez. Ecco perché Obama può fare la voce grossa, ma prima di imbarcarsi in un’operazione militare – anche leggera e con il solo uso della marina e dell’aviazione – deve fare prima i conti con quello che ha in casa: due campagne militari in corso (Afghanistan e Iraq), un bilancio del Pentagono appena revisionato e un avvicinamento rapido verso le elezioni presidenziali. Per quanto tempo ancora gli Stati Uniti potranno continuare con questa tattica attendista? Poco. E l’Europa non sembra avere carte migliori da giocare. Abbattuto il muro geostrategico di un Egitto pienamente filoamericano, senza doppi giochi e sante alleanze islamiche, non resta che attendere la frana di quello legato al controllo delle masse di migranti che spingono verso Nord. L’Europa potrebbe essere investita da un esodo biblico e l’Italia rischia grosso. È uno scenario terribile e sarebbe bene che in queste ore i partitanti nostrani abbandonassero ogni demagogia e ogni piccolo e misero calcolo di politica interna per fare i conti con la realtà: la Libia è un problema nostro. E brucia. Mario Sechi, Il Tempo, 23 febbraio 2011