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UN ALTRO MILITARE ITALIANO MUORE IN AFGHANISTAN

Pubblicato il 17 settembre, 2010 in Cronaca, Politica estera | No Comments »

La vittima è il tenente Alessandro Romani del nono Reggimento d’assalto Col Moschin

Afghanistan: morto uno degli italiani feriti

HERAT (AFGHANISTAN) – Uno o più colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro ‘insorti’ che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada. E’ morto così, nella provincia di Farah, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, romano, ufficiale del 9/o reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin della Folgore. Un nuovo lutto che cade alla vigilia di una giornata considerata “cruciale”, il voto per le elezioni legislative, e caratterizzata da una quantità di incidenti in tutto l’Afghanistan, compreso l’Ovest affidato al comando del generale degli alpini Claudio Berto, dove un razzo è stato tirato contro una base italiana, sono stati sequestrati candidati e loro sostenitori, sono stati compiuti attentati ai mezzi che trasportavano le schede elettorali e un ordigno rudimentale piazzato su una bicicletta è stato fatto esplodere nel cuore di Herat, dove si trovano le due basi principali degli oltre 3.500 soldati italiani. Il tenente Romani – celibe, con molte missioni in prima linea alle spalle – è stato ucciso nel distretto di Bakwa, nella parte orientale della provincia ad altissimo rischio di Farah, ad un anno esatto dalla strage di Kabul, in cui vennero uccisi altri sei parà della Folgore.

Tutto era cominciato di prima mattina, quando un aereo senza pilota Predator dell’Aeronautica militare italiana aveva avvistato quattro persone intente a posizionare una bomba sotto l’asfalto, lungo la strada che collega Farah a Delaram. Sempre il Predator ha ’seguito’ gli attentatori e segnalato il luogo dove questi si erano rifugiati. A questo punto è scattata l’operazione affidata alla ‘Task force 45′, composta dagli uomini delle Forze speciali italiane. Il team di incursori del 9/o Col Moschin della Folgore è partito da Farah a bordo di un elicottero Ch 47, scortato da due elicotteri d’attacco Mangusta. Dopo poco è giunto sul posto ed é atterrato nei pressi della casa dove si erano nascosti gli insorti. Durante l’incursione, però, due dei commandos italiani sono stati centrati da un numero imprecisato di colpi di arma da fuoco. Li hanno soccorsi e portati via, all’ospedale militare da campo di Farah. Le loro condizioni, in un primo momento, non erano state definite gravi (“feriti a una spalla”), anche se uno dei due era un “codice A”. E’ stato sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale ci sarebbero state “complicazioni”. La notizia della sua morte è arrivata inattesa a Camp Arena, il quartier generale italiano di Herat. L’altro ferito, un militare di truppa sempre del Col Moschin, non correrebbe invece pericolo. Sull’operazione non si conoscono altri particolari, così come ammantata dal riserbo è l’attività della Task force 45, di cui si conosce pochissimo. Ignota pure la sorte dei talebani: quello che è certo è che i due elicotteri Mangusta hanno scaricato contro il loro rifugio l’enorme potenziale di fuoco di cui sono dotati. “Sono tornati scarichi”, ha detto una fonte, e questo rende l’idea di che inferno possa essere stato. Ma nel settore dell’Afghanistan affidato al comando italiano questa vigilia di elezioni è stata caldissima ovunque. Nel cuore di Herat, al bazar della Cittadella, l’antica fortezza che si dice sia stata costruita per volere di Alessandro Magno, alle 18.12 è saltata in aria una bicicletta esplosiva: l’ordigno rudimentale è stato azionato con un radiocomando. Tre feriti, tutti civili. Poco prima, più o meno nello stesso luogo, alcuni giornalisti italiani stavano facendo interviste in mezzo alle bancarelle e il clima non era del tutto cordiale. “Andrà a votare domani?”.

Il giovane ha risposto ringhiando: “Qui ci sono troppi infedeli”. Un quarto d’ora dopo lo scoppio. Sempre nella provincia di Herat, ad Adraskan, un candidato alle elezioni di domani è stato rapito, stessa sorte subita da 10 sostenitori di un altro candidato e da otto componenti della Commissione elettorale indipendente a Moqur, nella provincia di Badghis, sempre nell’ovest. Nel distretto di Shindand, un convoglio di camion che trasportava schede elettorali è stato coinvolto in un attentato: è esploso un ordigno, provocando il ferimento del conducente di un mezzo e di due passanti. E’ stato fatto intervenire uno dei team di “reazione rapida” italiani predisposti per garantire la sicurezza delle elezioni: i blindati Freccia sono giunti sul posto e, dopo aver messo in sicurezza l’area, hanno portato il materiale elettorale a destinazione. Ancora a Shindand, un razzo è caduto nell’area perimetrale che ospita la base militare italiana, senza provocare né feriti né danni. In mattinata un’operazione molto delicata di trasporto schede era stata compiuta da un elicottero Ch47 dell’Esercito, scortato da due Mangusta. L’equipaggio, sfidando una tempesta di sabbia, era riuscito ad arrivare nel remoto distretto di Por Chaman, dopo che per giorni l’impresa era fallita. Al comando italiano di Herat erano molto soddisfatti nell’annunciare la riuscita dell’operazione, perché solo in quel distretto non erano riusciti ancora a arrivare. Era cominciata bene e nessuno immaginava che non sarebbe stata una buona giornata.

IL CORDOGLIO DI NAPOLITANO – Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia dello scontro a fuoco in cui ha perso la vita il Tenente Alessandro Romani, mentre assolveva ai propri compiti operativi nell’ambito della missione ISAF in Afghanistan, ha espresso alla famiglia – rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese – i sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della più sincera partecipazione al loro grande dolore. Nella tragica circostanza, il Capo dello Stato ha altresì chiesto al Capo di Stato Maggiore della Difesa, gen. Vincenzo Camporini, di rendersi interprete presso l’Esercito dei suoi sentimenti di cordoglio, di commossa solidarietà e di partecipazione al dolore provocato dal luttuoso evento. Il Presidente Napolitano ha inoltre fatto pervenire il suo incoraggiamento e un affettuoso augurio al primo Caporal maggiore Elio Domenico Rapisarda, ferito nello scontro a fuoco.

IL CORDOGLIO DI BERLUSCONI - “Ho appreso con dolore la notizia della morte del Tenente Alessandro Romani, colpito in uno scontro a fuoco in Afghanistan. A lui va il mio profondo ringraziamento e alla sua famiglia il mio più sentito cordoglio”. E’ quanto si legge in una dichiarazione del presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

IL CORDOGLIO DI SCHIFANI – “Appresa la notizia della morte del Tenente del 9 Reggimento d’assalto Col Moschin Alessandro Romani, caduto nel corso di una operazione militare in Afghanistan, esprimo a nome mio personale e dell’intera Assemblea di Palazzo Madama, i sentimenti del più profondo e commosso cordoglio, pregandola di farli giungere ai familiari dell’ufficiale che ha sacrificato la vita per difendere la pace, la democrazia e la sicurezza nel mondo”. E’ quanto scrive il Presidente del Senato Renato Schifani nel messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Gen. C.A. Vincenzo Camporini.

FINI ESPRIME CORDOGLIO, PRESENZA INDISPENSABILE – “Nell’apprendere la tragica notizia dell’attentato odierno nel quale ha perso la vita il Tenente Alessandro Romani del nono reggimento d’assalto “Col Moschin”, e che ha causato il ferimento di un altro soldato, desidero manifestarLe i sensi della più intensa vicinanza mia personale e della Camera dei deputati alle forze militari italiane impegnate in Afghanistan”. Lo afferma il presidente della Camera Gianfranco Fini in un messaggio inviato al Capo di Stato maggiore della difesa Vincenzo Camporini.

LA RUSSA, PROFONDAMENTE COLPITO DA MORTE ITALIANO – Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è “profondamente colpito” dalla notizia della morte del militare italiano in Afghanistan. Il ministro ha inviato al capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giuseppe Valotto, un telegramma per esprimere “i sentimenti di sincero cordoglio delle forze armate e la mia sentita personale partecipazione al gravissimo lutto che ha colpito l’Esercito” e gli auguri di pronta guarigione al ferito. La Russa ha inoltre inviato un telegramma ai genitori del militare morto. “Partecipo – scrive – con profonda commozione, unitamente a tutto il personale delle forze armate, alla perdita di Alessandro, generosamente impegnato in una missione di grande valore umanitario. Il suo ricordo rimarrà per sempre nella memoria di chi crede nella pace e nella solidarietà fra i popoli”.

DA MARONI TELEGRAMMA CORDOGLIO - Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha inviato al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, un telegramma nel quale ha espresso il proprio cordoglio alla famiglia del Tenente Alessandro Romani, deceduto oggi durante l’espletamento del dovere in Afghanistan e gli auguri di una pronta guarigione ai familiari del militare rimasto ferito. Lo riferisce una nota del ministero.

11 SETTEMBRE: SIAMO ANCORA TUTTI AMERICANI?

Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Politica estera | No Comments »

9 anni fa, l’11 settembre! A nove anni di distanza dall’evento che ha cambiato il mondo, ha cambiato le abitudini e le certezze del mondo occidentale, siamo ancora tutti americani? “Siamo tutti americani”   fu 9 anni fa lo slogan facile e ripetuto per esprimere solidarietà all’America colpita con inaudita violenza e altrettanza freddezza dal terrorismo islamico internazionale. Fu un modo per stringerci, tutti, intorno ad un Popolo che della libertà di tutti ha fatto la sua ragione politica e per la libertà di tutti ha sacrificato la vita di tanti suoi figli: dalla prima alla seconda guerra mondiale, dalla guerra di Corea a quella in Vietnam, sino ad arrivare all’Iraq e all’Afghanistan, è stata l’America, sono stati gli Stati Uniti a pagare il conto più di tutti per la difesa della libertà di tutti. Ma dopo 9 anni cosa rimane di quella solidarietà che allora attraversò il cuore e la mente del mondo occidentale, e di quello europeo in particolare? A prima vista nulla, ma al di là della retorica sembra che quella solidarietà si sia annacquata, se mai vi sia davvero mai stata. Eppure sotto sotto siamo sempre e tutti americani. Lo siamo quando guardiamo all’America come esempio di virtù civili, di rispetto delle regole, di fede nella democrazia. Ma appena si affonda il coltello nel ventre molle della nuda verità ci si accorge che quella solidarietà è solo puro esercizio verbale perchè in verità ciascuno pensa a se stesso e mai che l’America si veda sostenuta nelle sue ragioni e nelle sue battaglie per la civiltà e per la democrazia. L’Europa o meglio ciò che si afferma essere la sua espressione politica, cioè l’Unione Europea, mentre si affanna a condannare la Francia per le sue decisioni in materia di immigrazione, dimentica di difendere le radici cristiane della nostra civiltà; mentre è sempre pronta a condannare chiunque si opponga alla sempre crescente islamizzazione della nostra terra, mai che prenda le difese delle vittime del terrorismo islamico, badate non dell’Islam, ma delle sua espresisone più feroce. E’ di queste ore l’avviso di Obama che vuole Bin Laden, “vivo o morto” che sa tanto di propaganda a buom mercato rispetto alle decisioni dello stesso Obama di ritirarsi dall’Iraq e entro breve tempo anche dall’Afghanista, i luoghi dove il terrorismo più radicale, quello, per intenderci di Bin Laden, attecchisce, si sviluppa, si trasforma in forza bruta da scagliare contro l’Ocicdente, le sue radici, le sue tradizioni. Non non ci sitiamo e per questo oggi, oggi come 9 anni fa, non esitiamo a dirci “americani”. g.

LA STABILITA’ DEL GOVERNO BERLUSCONI E’ GARANZIA PER L’ITALIA

Pubblicato il 10 settembre, 2010 in Economia, Politica, Politica estera | No Comments »

Il presidente russo Dmitry Medvedev e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi Silvio Berlusconi sbarca oggi in Russia, a Yaroslav, per partecipare ad un Forum sulla democrazia che il Cremlino ha l’ambizione di trasformare in una Davos d’Oriente. Ma il clou della visita è il pranzo sul Volga con Dmitri Medvedev: i capi della superpotenza vogliono capire gli sviluppi della politica italiana, e soprattutto se il Cavaliere resterà al governo. Già all’inizio della settimana Vladimir Putin aveva dichiarato – fatto inusuale per gli standard diplomatici russi – di «seguire con attenzione la situazione dell’Italia», augurandosi continuità nell’azione di Berlusconi. Il motivo è evidente: in questi due anni l’Italia è diventata per Mosca un partner economico e strategico di primo livello pur non rinnegando l’appartenenza al campo moderato ed occidentale. E dunque ciò che avviene a palazzo Chigi, e la sua stabilità, è per la prima volta rilevante sulla scena internazionale. Tutto questo vale assai più dei comizi di Gianfranco Fini ed anche delle pernacchie di Umberto Bossi.

Il fondatore di Futuro e Libertà nella sua intemerata di Mirabello non è riuscito a tirar fuori una sola proposta economica con un minimo di concretezza. Anzi, ha dato la sensazione di una certa nostalgia per lo Stato spendaccione e assistenzialista: non basta parlare di ricambio generazionale, di diritti dei precari o di federalismo solidale; bisogna anche indicare con quali risorse finanziarie e quali strumenti di mercato si intendono affrontare i problemi.

Quanto a Bossi, la sua visione delle cose economiche appare tuttora ancorata al localismo: può portare consensi in campo sociale, però non sta dietro a processi che spesso sfuggono alle grandi potenze e ad intere macro-aree, figuriamoci se possono essere controllati da Bergamo o Treviso. La Lega continua saggiamente ad affidarsi all’acume di Giulio Tremonti, tuttavia non è andata esente da qualche scivolata, a partire dalle fondazioni bancarie nelle quali ha voce in capitolo, fino al caso attuale del governatore del Friuli-Venezia Giulia, pizzicato ad utilizzare l’auto blu per scopi personali. Il famoso slogan «Roma ladrona» andrebbe revisionato. Ma se questi sono, diciamo così, problemi di crescita, quelle di Fini appaiono come vere lacune politiche e culturali.

Il presidente della Camera può strappare applausi facili alzando la voce sulle «genuflessioni a Gheddafi»: dimentica di aver firmato (assieme a Bossi) una legge contro l’immigrazione clandestina che solo ora, grazie ai buoni rapporti con il regime di Tripoli, ha prodotto risultati. Ma soprattutto trascura gli interessi strategici dell’export delle imprese italiane: la sensazione è che Fini sia un po’ regredito alla dimensione di An, o del Msi, cioè ad una iper-valutazione della politica pura con una sostanziale indifferenza per la concorrenza ed il mercato. Di fatto tutti i dossier più importanti, e che richiedono saldezza e continuità nell’azione del governo (con o senza elezioni) continua ad averli in mano Berlusconi. Dal nucleare, sul quale la Lega ha pure assunto un atteggiamento ambiguo, alle infrastrutture, fino ai debiti-monstre ereditati nelle regioni e nei capoluoghi del centro-sud, Roma in testa. Senza ovviamente trascurare l’evoluzione della crisi: abbiamo dati sopra le attese sulla vendita di case, e stime deludenti dell’Ocse e del Fondo monetario sul Pil. Se fossimo negli Usa daremmo più importanza ai primi, perché certificano un dato di fatto rispetto a previsioni; ma soprattutto perché fotografano una certa ritrovata fiducia patrimoniale degli italiani; mentre il Pil, indicatore in movimento, può nascondere molte cose, dal sommerso alla propensione delle imprese ad investire all’estero. In ogni caso non c’è affatto da abbassare la guardia. Né tantomeno da cambiare governo dell’economia; caso mai da potenziarlo. I grandi accordi in campo energetico, dal nucleare agli approvvigionamenti di gas dalla Russia e alle concessioni petrolifere dell’Eni in Libia, sono stati negoziati personalmente dal Cavaliere. E qui il discorso dell’interim allo Sviluppo economico non regge, visto che dall’altra parte ci sono Sarkozy, Putin e Gheddafi.

Stessa cosa si può dire per il riposizionamento della Finmeccanica dopo i problemi incontrati con la Casa Bianca di Barack Obama: il gruppo di Guarguaglini deve per forza andare a contendere a Francia e Inghilterra i mercati emergenti, nonché tornare, appunto, sul nucleare. Dove però Gianranco Fini (anche Umberto Bossi, ma sorprende meno) appare davvero a corto di strategie è su come affrontare, da Roma in giù, il dilemma sintetizzabile in «debiti contro sviluppo».

Non è un dibattito accademico, ma una realtà che incide mese dopo mese sulle tasche dei contribuenti o sull’avvio di un’impresa. E forse non a caso tutti i principali amministratori locali – Gianni Alemanno, Renata Polverini, Giuseppe Scopelliti – benché provengano dall’area di An o dai suoi paraggi, si sono ben guardati dal seguire il loro antico leader. Si tratta, per fare l’esempio di Roma e del Lazio, di proseguire la gestione commissariale di un debito di venti miliardi e contemporaneamente amministrare la capitale ed una regione con il secondo Pil d’Italia. La continuità è un obbligo. Non c’è spazio per i comizi. Ps. Non abbiamo neppure sfiorato le ricette economiche della sinistra. Non è una dimenticanza: semplicemente non risultano pervenute. (Il Tempo- 10 settembre 2010)

ISRAELE: DIECI MORTI PER UNA VERITA’ CAPOVOLTA, di Fiamma Nirenstein

Pubblicato il 1 giugno, 2010 in Politica estera | No Comments »

L’episodio di ieri notte, con i suoi morti e feriti sulla nave turca, ha qualcosa di diabolico. Perché diabolico è il rovesciamento, la bugia che si sta disegnando nell’opinione pubblica internazionale, come per la battaglia di Jenin, come per la morte di Mohamed Al Dura: la verità, salvo quella tragica e che dispiace assai, dei morti e dei feriti, ne esce capovolta, capovolte le responsabilità. Le condanne volano, e hanno tutte un carattere nominalista: chi era sulle navi si chiama «pacifista» o «civile», i soldati israeliani coloro che ne hanno sanguinosamente interrotto la strada verso una «missione di soccorso». Nessuno parla di organizzazioni filo Hamas, nessuno di provocazione: ed è quello che davvero veniva trasportato da quelle navi. Oltre naturalmente, all’essenza umana di chi ci spiace comunque di veder sparire.

Ma non basta dichiararsi pacifista per esserlo. L’organizzazione turca Ihh, protagonista della vicenda, è sempre stata filo terrorista, attivamente amica degli jihadisti e di Hamas, essa stessa legata ai Fratelli Musulmani, i suoi membri ricercati e arrestati e la sua sede chiusa dai turchi stessi per possesso di armi automatiche, esplosivo, azioni violente. Ma ora poiché era sulla nave Marmara, è diventata «pacifista», come le altre varie Ong molto militanti in viaggio sulle onde del Mediterraneo. Non basta più nemmeno dichiararsi «civile»: nelle guerre odierne, anzi, l’uso dei civili come scudi umani, e anche come guerrieri di prima fila è la novità più difficile in una quantità di scenari. La divisa non separa i buoni dai cattivi: abbiamo visto l’uso delle case e delle moschee come trincee dei «civili» militarizzati; al mare non eravamo abituati, ma è un’invenzione interessante per la jihad. Prima di partire una donna ha dichiarato: «Otterremo uno di due magnifici scopi, o il martirio o Gaza». Ma chi ascolta una dichiarazione così rivelatrice e scomoda quando canta la sirena delle imprese umanitarie? Il capo flottiglia ha dichiarato che il suo scopo era portare aiuti umanitari e non è importato, anzi è garbato alle anime belle dei diritti umani che andasse verso Gaza, striscia dominata da Hamas, organizzazione terroristica che perseguita i cristiani e ha condannato a morte tutti gli ebrei, che usa bambini, oggetti, edifici, tutto, nello scopo di combattere Israele e l’Occidente intero. Ma le navi viaggiavano verso Gaza per aiutarla, incuranti dei missili e degli attentati che ne escono.

Israele aveva più volte offerto agli organizzatori della flotta di ispezionare i beni nel porto di Ashdod, e quindi di recapitarlo ai destinatari. Essi avevano rifiutato, e questa sembra una prova abbastanza buona della loro scarsa vocazione umanitaria, come quando hanno detto che di occuparsi anche di Gilad Shalit, come chiedeva loro suo padre, non gli importava nulla. Un’altra volta.
La flottiglia si era dunque diretta verso Gaza e lo scopo degli israeliani era dunque quello di evitare che un carico sconosciuto si riversasse nella mani di Hamas, organizzazione terrorista, armata. La popolazione di Gaza aveva bisogno di aiuto urgente? Israele afferma che si tratta di scuse: nella settimana dal 2 all’8 maggio, per limitarsi a pochi beni di un lunghissimo elenco, dai valichi di Israele sono passati alla gente di Gaza 1.535.787 litri di gasolio, 91 camion di farina, 76 di frutta e verdura, 39 di latte e formaggio, 33 di carne, 48 di abbigliamento, 30 di zucchero, 7 di medicine, 112 di cibo animale, 26 di prodotti igienici. 370 ammalati sono passati agli ospedali israeliani etc etc… Non era la fame dunque che metteva vento nelle vele delle navi provenienti da Cipro con l’aiuto turco; sin dall’inizio è stata la pressione politica a legittimare Hamas, e la delegittimazione morale di Israele che non colpisce mai i cinesi per la persecuzione degli uiguri, o i turchi per la persecuzione dei curdi… E così l’aspirazione antisraeliana che caratterizzava la Marmara è saltata come un tappo di champagne quando i soldati, nel tentativo di controllare la nave per portarla ad Ashdod, sono scesi con l’elicottero. Alle quattro di mattina, secondo la testimonianza di prima mano di Carmela Menashe, cronista militare che ha scoperto senza pietà molti scandali nell’esercito, quando i soldati della marina hanno tentato di scendere sulla nave Marmara, sono stati accolti da spari, ovvero: «C’erano armi da fuoco sulla nave» dei pacifisti; i soldati che hanno toccato il ponte hanno affrontato un linciaggio «come quello di Ramallah» in cui membra umane furono gettate alla folla: sono state usate con foga enorme, dicono i testi, sbarre di ferro, coltelli, gas… i soldati sono stati buttati nella stiva nel tentativo di rapirli, o in mare. Questo per spiegare perché i loro compagni hanno sparato. Di certo i naviganti non erano militari, erano dunque civili: ma ormai nella guerra asimmetrica i civili sono scudo umano e combattenti. Israele doveva cercare di fermare la Marmara; se l’ha fatto con poca accortezza, non sappiamo. Ma di certo i soldati non hanno sparato per primi, è proibito dal codice militare israeliano, non è uso di quei soldati. Adesso se il mondo vuole semplicemente bearsi delle solite condanne a Israele faccia, ma proprio con il suo sostegno alle forze che hanno provocato il carnaio dell’alba di domenica prepara la prossima guerra.

GRAN BRETAGNA: NUOVA “BANDIERINA” DEL CENTRODESTRA

Pubblicato il 12 maggio, 2010 in Politica estera | No Comments »

E’ di poche ore fa l’annuncio che la Gran Bretagna, dopo il voto di sabato scorso, ha già un nuovo premier e un nuovo governo ed è un governo di centro destra guidato dal leader conservatore Cameron. Intanto è una notizia quella relativa alla velocità con cui s’è concluso l’accordo tra i conservatori e i liberal-democratici di  Nick Clegg per la formazione del nuovo governo. Chi s’attendeva una lunga attesa dovuta ai risultati elettorali che pur attribuendo ai conservatori la vittoria non avevano loro concesso la maggioranza assoluta  è stato deluso. L’attesa è stata breve e sebbene Clegg abbia tentato una politica all’italiana, quella dei due forni, trattando sia con i conservatori di Camerun che con i laburisti dello sconfitto Brown, in poche ore lo stesso Clegg ha concluso l’accordo con Cameron del quale sarà il vice, ottenendo anche altri 4 ministeri, lasciando però i più importanti agli uomini fidati del premier. Neppure sulle altre due questioni che per Clegg sembravano inderogabili, l’amnistia per i clandestini e la riforma della legge elettorale maggioritaria uninominale, i liberal-democratici hanno ottnenuto null’altro che l’impegno ad un referendum sulla ipotesi di modifica del sistema elettorale. Si è quindi concluso un lungo periodo di dominio laburista (socialista) iniziato 13 anni fa con Blair e si apre una nuova pagina per la Gran Bretagna ritornata conservatrice. Un’altra “bandierina” che il centro destra conficca nell’Europa.

UNGHERIA: STRAVINCONO I CONSERVATORI

Pubblicato il 26 aprile, 2010 in Politica estera | No Comments »

I conservatori dell’ex premier Viktor Orban vincono le elezioni in Ungheria e conquistano due terzi del Parlamento. Il partito Fidesz (giovani democratici) segna così un record senza precedenti nella storia del Paese dal 1989: «È una rivoluzione democratica, abbiamo rovesciato un regime», ha esultato Orban, che torna al potere dopo otto anni di governi socialisti fallimentari. Al primo turno dell’11 aprile il partito aveva ottenuto il 52,7%, un record assoluto, e col secondo turno ottiene 263 seggi su 386 .

Orban, leader carismatico , è stato già primo ministro fra il 1998 e il 2002 e ora, con un consenso di queste proporzioni, potrà realizzare quelle grandi riforme promesse in campagna elettorale: modifica delle leggi sulla radiotelevisione, sulla doppia cittadinanza (estensione del diritto di voto ai tre milioni di ungheresi oltrefrontiera), e riforma della pubblica amministrazione, con taglio del numero dei deputati e dei consiglieri regionali e comunali. Inoltre, il premier neo eletto potrà designare un nuovo capo dello Stato, quando a luglio scadrà il mandato dell’attuale presidente della Repubblica, Laszlo Solyom.

…….Nell’ottobre del 2006 ricorreva il cinquantenario della Rivoluzione di Budapest del 1956 , durante la quale migliaia e migliaia di giovani, sopratutto di giovani, sacrificarono la loro giovinezza per rivendicare libertà e democrazia. Al governo ungherese, nel 2006,  c’erano i socialisti, cioè gli eredi camuffati di coloro che avevano contribuito a soffocare nel sangue nel 1956  la rivolta contro i sovietici i cui carri armati invasero Budapest e la piegarono dopo giorni di strenua resistenza alla resa che tra l’altro costò la vita al primo ministro Imre Nagy, riabilitato dopo il 1989 e la rivoluzione di velluto che precedette di poco la caduta del muro di Berlino.  Proprio gli ex comunisti gestirono le manifestazioni di rievocazione di quella straordinaria pagina di libertà. Chi, come chi scrive, era in quei giorni a Budapest, avvertiva chiaramente la falsità delle manifestazioni oerganizzate dal regime, con il Parlamento, intorno al quale iniziò la rivolta, interdetto a chiunque avesse voluto andarvi a deporre fiori sulla lapide (nella foto)  che ricorda il sacrificio degli studenti ungheresi e sostare dinanzi alla fiaccola che arde  perennemente per testimonaire la riconoscenza del popolo magiaro verso gli Eroi del 1956. Nel giorno della rivolta , il 26 ottobre,   il regime costrinse  il partito conservatore ed il suo leader, Vihtor ORBAN,  a relegare la controcelebrazione della ricorrenza in una piazza angusta, letteralmente circondata dalla polizia in assetto di guerra. Chi scrive, dinanzi a quello spettacolo, si chiedeva, senza potersi dare risposta,  come aveva potuto il popolo magiaro riaffidarsi agli eredi, neppure pentiti, di chi li aveva costretti alla schiavitù sovietica. Quattro anni dopo ci ha pensato lo stesso popolo d’Ungheria a rispondere  con un voto plebiscitario che  haa riportato i conservatori, anzi, gli anticomunisti al governo nazionale. Non ne possiamo essere più felici. g.

LA MALEDIZIONE DI KATYN: MUORE IL PRESIDENTE POLACCO KACZYNSKI

Pubblicato il 10 aprile, 2010 in Politica estera | No Comments »

Il presidente della Polonia, il fervido anticomunista Lev Kaczynski, è morto ieri insieme alla moglie e ad un numero ancora imprecisato di altre personalità polacche, a  seguito di un incidente aereo in Russia dove il presidente polacco si stava recando per la commemmorazione ufficiale delle vittime di Katyn. La maledizione di Katyn sembra quindi mietere ancora vittime nella Polonia anticomunista. A Katyn, una foresta nei pressi della Bielorussia,  nel 1940, subito dopo l’nvasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa che se l’era  spartita con la Germania nazista, per ordine di Stalin  circa 10 mila ufficiali polacchi (altri documenti indicano il numero in 22 mila!) furono trucidati e sotterrati. L’intento era di decapitare per sempre l’esercito polacco e insieme ai vertici dello stato già distrutto dalla spartizione russo-germanica. Tra il 1943 e il 1944 fu ritrovata la fossa comune e si conobbero i dettagli dell’eccidio la cui responsabilità da parte della propaganda sovietica fu attribuita alla Germania hitleriana. Menzogna questa che  per decenni è stata diffusa, sino alla perestroika di Gorbaciov il quale, sia pure a mezza voce, iniziò a riconoscere la compartecipazione russa nella responsabilità, sino alla scoperta della verità e alla piena, unica e indiscussa responsabilità di Stalin nell’eccidio, un crimine che può essere paragonato all’eccidio di Cefalonia dove trovarano la morte i diecimila fanti della Divisione Acqui, questa volta ad opera della Germania. A raccontare la vicenda di Katyn, ultimamente, il film KATYN, diretto dal regista polacco Andrzey Wajde, figlio di una delle vttime dell’eccidio, che ha narrato con crudezza e straordinaria umanità la vicenda che ha profondamente segnato la storia recente della Polonia anticomunista. Nelle ultime settimane, poi, è stato l’attuale premier sovietico Putin, uomo forte della Russia postsovietica, a riconoscere la piena responsabilità dell’Armata Rossa e a promuovere la commemorazione  ufficiale a cui avrebbe dovuto partecipare oggi il presidente polacco. Invece, l’incidente aereo che provoca dolore e sgomento e decapita ancora una volta la nazione polacca della sua migliore dirigenza.

L’AMERICA “PREMIA” L’EROISMO DEI SUOI SOLDATI IN IRAQ: L’OSCAR AL FILM THE HURT LACKER.

Pubblicato il 17 marzo, 2010 in Cinema, Politica estera | No Comments »

L’Oscar 2010 per la miglior regia è andato ad una donna, Katryn Bigelow, la prima volta nella storia degli Oscar che è lunga 82 anni. Il film per il quale la Bigelow ha vinto l’Oscar per la regia e che ha anche vinto l’Oscar per la migliore scenggiatura, il miglior  montaggio, il miglior sonoro,  è un film che narra ed esalta il coraggio e l’eroismo dei soldati americani in Iraq durante e dopo la caduta di Saddam. Il film si intitola The Hurt Locker e narra i  40 giorni al fronte, in Iraq, di una squadra di artificieri e sminatori dell’esercito statunitense, unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità. Quando tutto quel che resta del suo predecessore finisce in una “cassetta del dolore”, pronta al rimpatrio, a capo della EOD (unità per la dismissione di esplosivi) arriva il biondo William James, un uomo che ha disinnescato un numero incredibile di bombe e sembra non conoscere la paura della morte. Uno che non conta i giorni, un volontario che ha scelto quel lavoro e da esso si è lasciato assorbire fino al punto di non ritorno.

Il film, altamente drammatico e  come dimostrano le altre  statuette che ha vinto straordinariamente  avvincente, offre uno spaccato diverso rispetto a quello che i mass media antiguerra avevano sinora santificato.Il film ha il pregio di restituire onore e dignità ai soldati americani che si sono battuti contro gli eserciti ombra di Al Qaeda e del  Baath saddamita, costringendo alcuni dei giornmalisti liberal americani ad ammettere che la distinzione tra il bene e il male a Baghdad era più chiara che non a Saignon o ad Hanoi. Il film, poi, spopola sugli schermi americani e un pò ovunque proprio in concomitanza con le recenti elezioni iraquene il cui indubbio successo è stata la migliore risposta  a chi nel recente e meno recente passato aveva sostenuto che la democrazia non è bene  che possa esportarsi. Anzi, proprio queste ultime elezioni iraquene che  hanno segnato un indubbio successo della strategia della democrazia,  consentono ad uno dei maggiori giornali liberal amerciani, Newsweek, di scrivere della “rinascita dell’Iraq” e di citare a questo proposito le parole dell’ex presidente americano George Bush il quale in anni lontani fu sfacciatamente coraggioso da sostenere che “in Iraq la democrazia avrà successo, e quel successo porterà da Damasco a Theran la notizia che la libertà può essere il futuro di tutte le nazioni. L’istituzione di un Irq libero al centro del Mediooriene sarà uno spaertiacque nella rivoluzione democratica globale”. Sinora le parole di Bush si sono avverate a metà ma c’è tempo e speranza che anche negli altri luoghi oggi governati da regimi che non praticano la libertà e la democrazia, prima o poi  si compia la profezia dell’ex presidente americano il cui coraggio nel sostenere le sue scelte sono pari al coraggio e all’eroismo dei soldati amerciani che il film premiato ad Hollywood ha “premiato” rendendo loro l’onore che sinora era stato loro  negato.