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Barack Obama corre il rischio di passare alla storia come uno dei più tentennanti presidenti degli Stati Uniti. Nella sua ultima dichiarazione, sul prato della Casa Bianca, ha chiesto un voto del Congresso sull’opportunità di un intervento militare contro il regime siriano di Bashar Al Assad. Ma ancor prima di appellarsi ai rappresentanti del Paese aveva annunciato, in una recente intervista alla televisione Pbs, che la sua intenzione era quella di inviare uno shot across the bow , uno di quei colpi di cannone che vengono tirati di fronte alla prua di una nave per intimarle di fermarsi e tornare indietro.
Non sappiamo se con l’appello al Congresso il presidente americano chieda una formale autorizzazione o voglia più semplicemente metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Ma sappiamo che una tale decisione, se adottata, avrebbe in ultima analisi l’inconveniente di non piacere a nessuno. Non ai pacifisti americani per cui sarebbe pur sempre un atto di guerra. Non ai paladini dell’ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili, a cui sembrerebbe irrilevante. Non a quella fazione della destra repubblicana, erede dei «neocon», che accusa il presidente di essere debole, inetto, incapace di pestare il pugno sul tavolo nell’interesse dell’America. Non ai ribelli siriani, convinti che l’uso delle armi chimiche avrebbe fatto traboccare il vaso dell’indignazione occidentale e segnato la fine di Assad. Non agli alleati internazionali della Siria: Russia, Iran, Cina. Non, infine, alla maggioranza della sua opinione pubblica (una percentuale vicina, sembra, all’80%) per non parlare di quella delle altre maggiori democrazie occidentali. Sono contrari all’intervento persino coloro che in altri tempi avevano approvato le guerre di Bush e salutato con soddisfazione l’offensiva anglo-franco-americana contro la Libia di Gheddafi.
Non è sorprendente. Oggi, dopo l’esperienza degli ultimi tredici anni, nessuno può ignorare quali siano stati il costo e gli effetti di quelle guerre. L’operazione afghana parve giustificata dal patto che legava Al Qaeda e i suoi fedeli al regime talebano di Kabul. Sostenuti dalla Nato e persino dall’Iran, gli americani credettero di avere eliminato la maggiore base di Al Qaeda nel Medio Oriente. Ma nella caccia allo sceicco yemenita si perdettero, come altri eserciti occidentali, nel labirinto delle montagne che separano l’Afghanistan dal Pakistan; e di lì a poco lasciarono il Paese agli europei per concentrare ogni loro sforzo sull’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra, un’altra vittoria apparente.
Qualche mese dopo la conquista di Bagdad, Washington dovette constatare che quella dei talebani in Afghanistan era stata soltanto una ritirata strategica, che in Iraq non vi erano armi di distruzione di massa, che i sunniti iracheni non erano disposti ad accettare la sconfitta e che gli sciiti liberati dal giogo di Saddam amavano i confratelli iraniani più degli americani.
Il risultato di quel piano, all’inizio del suo secondo mandato, è deprimente. I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L’uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all’epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto. Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron. È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta?
Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria. Per non permettere che l’uso dei gas vada impunito? Per evitare che l’America, agli occhi del mondo, appaia inaffidabile? Credo che il criterio dell’affidabilità, in questo caso, concerna soprattutto il presidente degli Stati Uniti. Quando ha dichiarato, un anno fa, che l’uso dei gas sarebbe stato una «linea rossa» e che l’attraversamento di quella linea lo avrebbe costretto a rivedere la propria posizione, Obama è diventato prigioniero di se stesso. Ha usato la «linea rossa» per mascherare le proprie incertezze e allontanare per quanto possibile il momento delle decisioni. Ora quella «linea rossa» gli si è ritorta addosso come un boomerang e il presidente, privo di argomenti, è nudo di fronte al mondo come il re della favola di Andersen.
DA CALDEROLI AL KAZAKISTAN: MA QUALI DIRITTI CIVILI, SI TENTA SOLO DI FAR CADERE IL GOVERNO
Pubblicato il 16 luglio, 2013 in Politica, Politica estera | No Comments »
Diritti civili? Balle. Della sorte della moglie e dellafiglia del dissidente kazako Ablyazov non importa a nessuno di coloro che in queste ore si stracciano le vesti per la loro espulsione, con rimpatrio, decisa in modo veloce e un po’ ambiguo dalle autorità italiane con il pretesto di documenti falsi. Non facciamo i finti tonti. L’obiettivo della rivolta presunta civile capitanata, guarda caso, da Repubblica , non è la sicurezza di mamma e figlia, alle quali peraltro in Kazakistan nessuno ha intenzione di torcere un capello e che vivono libere a casa loro. Lo scopo è fare più casino possibile per fare saltare in aria il nostro governo,quell’asse Letta-Alfano che dopo il caos uscito dalle urne ha sbarrato la strada prima a Bersani e poi a Renzi. Fuori dal tempio il Pdl, e poi vada come vada, o per via elettorale o con ribaltoni parlamentari. Si spiega così l’assalto ad Angelino Alfano, ministro dell’Interno e quindi possibile colpevole di un presunto pasticcio: dimettiti, ha ordinato ieri il direttore della Repubblica in lacrime per la sorte delle due donne, ma soprattutto ben consapevole che «no Alfano, no governo». Allo scopo si sta piazzando la ben nota artiglieria mediatica e già si chiama in causa Silvio Berlusconi (senza non c’è gusto,allo scandalo manca il quid).
Le cose stanno così. In Kazakistan, Paese che trasuda di gas e petrolio, c’è un presidente, Nazarbaev, che in queste ore viene fatto passare per un pericoloso dittatore amico di Berlusconi ma che in realtà, anche se nessuno lo scrive, è stato ed è riverito e ricevuto da tutti i leader del mondo, da Cameron a Barroso, dalla Merkel a Obama, senza che questo abbia mai destato scandalo. Un suo ex ministro, Ablyazov, lo ha tradito ed è in fuga per il mondo inseguito da tre mandati di cattura internazionali per truffe e reati contro lo Stato (non solo il suo). In Italia, da qualche giorno, i soliti giornali lo dipingono per quello che non è, un povero oppositore perseguitato politico. Sua moglie e sua figlia cercano, legittimamente, di stargli vicino usando trucchetti vari. Di recente si trovavano Italia, probabilmente (lo accerteremo) con documenti non regolari. Da qui l’espulsione.
Per questo dovrebbe cadere il governo italiano? Non scherziamo. Sono kazaki loro, non nostri, che ne abbiamo già abbastanza. E non sarà neppure un orango a fare cadere Calderoli da vicepresidente del Senato. Un Parlamento che ha sopportato lo spergiuro Fini presidente della Camera e non ha preteso le dimissioni di tutto il governo Monti per il casino dei nostri marò può farsi intimorire dal direttore di Repubblica o dai lamenti moralisti per una battuta? Alessandro Sallusti, Il Giornale, 16 luglio 2013
L’ULTIMO TABU’ DELL’EUROPA
Pubblicato il 8 giugno, 2013 in Politica, Politica estera | No Comments »
Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell’Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti – la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell’Unione.
Il rischio – oltre a quello dell’astensione – è che a Strasburgo sbarchino le forze dell’euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.
Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d’Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità – uno dei grandi tabù francesi – a condizione che l’Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.
Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all’integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell’impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.
È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l’Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all’Elba, quando il sogno era già tramontato. Massimo Nava, 8 giugno 2013
ADDIO A MARGARETH THATCHER, LA LADY DI FERRO INGLESE
Pubblicato il 8 aprile, 2013 in Politica estera | No Comments »
Si è spenta la Lady di Ferro, the Iron Lady come veniva affettuosamente chiamata in madrepatria. Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979 al 1990, prima e ad oggi unica donna a ricoprire la carica di premier del Regno Unito e a soggiornare a Downing Street per ben tre mandati. Da tempo residente in un noto albergo londinese, luogo che aveva scelto come dimora, la Thatcher si è spenta stamattina all’età di 87 anni dopo esser stata colpita da un ictus. La notizia è stata data dal suo portavoce, Lord Bell.
Nata Margaret Hilda Benson, figlia di un onesto ma umile droghiere di campagna, la baronessa Thatcher, dimostrò un’incrollabile determinazione scalando prima il bastione maschilista del partito Conservatore e poi guidando con il pugno di ferro il Regno Unito.
Da subito con il suo piglio decisionista tentò di far dimenticare il suo essere donna: con un lungo e durissimo braccio di ferro interno scontrandosi con il sindacato dei minatori di Arthur Scargill (1984-1985) e sul fronte esterno recuperando l’orgoglio nazionale della gloriosa ‘Britannia’, appannato, prima del suo arrivo a Downing Street, dalla tragica spedizione di Suez nel 1956, reagendo all’invasione delle Falkland ordinata dalla giunta militare argentina nel 1982. Il trionfo, a caro prezzo, della Falkland ful la spinta propulsiva su cui costrui’ il suo trionfo fino al tradimento interno e alla sua caduta nel 1990 per la fronda guidata da Michael Heseltine.
“Triste”. Così è lo stato d’animo della Regina Elisabetta, espresso in una nota di Buckinghan Palace sulla morte di Margaret Thatcher, peraltro rispettatta, ma mai amata dalla sovrana. La Gran Bretagna ha perso “un grande leader”, è stato invece il commento del primo ministro David Cameron. Impegnato in un viaggio in Europa, il primo ministro britannico ha deciso di rientrare subito da Madrid e nelle prossime ore sarà di nuovo a Londra, saltando la prevista tappa a Parigi dove avrebbe dovuto avere una cena di lavoro con il presidente francese, Francois Hollande. “Con grande tristezza”, ha aggiunto Cameron, “ho appreso della sua scomparsa. E’ stato un grande leader, un grande primo ministro e una grande britannica”. Fonte ANSA, 8 aprile 2013
.…………..La storia personale e politica della signora Thatcher dvrebbe insegnare qualcosa ai tanti sponsor delle liste di genere, finalizzata ad assicurare posti di potere – in ogni luogo – alle donne al di la dei loro meriti e delle loro capacità. La carriera della signora Thatcher non fu supportata da alcun privilegio in quanto donna, ma perchè brava e sopratutto di polso, molto più di tanti uomini che le contendevano il potere, prima nel partito conservatore, e poi al governo. E al governo seppe essere molto più uomo di qualsiasi altro uomo prima di lei, salvo Churchill che non a caso era il suo modello, governando con piglio e sicurezza uniti a notevole sagacia e acume politici che la iscrivono di diritto fra i più rispettati e anche amati goverrnanti inglesi degli ultimi due secoli. Non fu europeista, come nessun inglese lo è e lo è mai stato, ma ciò non le impedì di parecipare attivamente alle tante tappe della integrazione economica europea, meno, molto meno, e forse non fu per l’Inghilterra una scelta sbagliata, quella politica. g.
MONTI E I SUOI TRADITORI DELL’ITALIA
Pubblicato il 23 marzo, 2013 in Costume, Cronaca, Politica estera | No Comments »
Un Paese non può vivere di solo spread, di tagli agli stipendi della casta o di presunti conflitti di interesse.
Mario Monti con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Qualsiasi agenda deve avere al primo punto il rispetto della bandiera simbolo della nazione, dignità e orgoglio, difesa di chi serve lo Stato rischiando la vita. Tutto il resto ne discende. E invece siamo ripiombati nell’italietta di inizio secolo scorso: debole, confusa, pasticciona, ingrata, senza nerbo e parola. Lo dobbiamo a Monti e al suo governo. Nel giro di una settimana prima hanno tradito la parola data agli indiani, poi quella a noi italiani e al mondo intero. Il caso è quello dei due marò del San Marco arrestati in India. Ce li avevano rispediti in licenza per qualche settimana con l’assicurazione di un loro ritorno per il processo. Abbiamo annunciato con squilli di tromba che ce li saremmo tenuti, ma di fronte all’India che ha mostrato i muscoli (e non solo quelli) abbiamo calato le braghe: sono già in volo verso New Delhi, con tante scuse.
Questo è Monti, l’uomo che doveva ridarci la credibilità internazionale che ci avevano fatto credere persa. Questo è Terzi, il ministro già ambasciatore in America. Questa è l’Italia dei tecnici voluta e sostenuta dai salotti di banchieri e intellettuali, dai giornaloni della sinistra. Una manica di incapaci, egoisti ed egocentrici, senza alcuna legittimazione, traditori di parole date (ricordate il «mai mi candiderò» di Monti?). Volevano suonare l’Italia e gli elettori li hanno suonati, volevano cantarle all’India e il mondo l’ha cantata a loro. Hanno preso ordini non dagli italiani ma da capi di Stato e governo stranieri.
Altro che Grillo e democrazia pop a Cinque stelle. Quando qualcuno pensa di prescindere dalla politica, il risultato è quello oggi dei marò e domani delle banche chiuse su disposizione della Merkel o chissà cos’altro. Quello che serve è un governo politico e forte. Bersani sta ripetendo l’errore-orrore di Monti: pensare alla sua salvezza e non alla nostra e del Paese. Dice no a un patto col Pdl, l’unica soluzione indicata dalle urne. Anche noi siamo molto, ma molto scettici. Ma allora la soluzione è una sola: tornare a votare e subito. O cambia idea, oppure ogni giorno che Bersani perde nella speranza di rubare il consenso a un pugno di grillini è un giorno in più in cui l’Italia viene umiliata e messa sempre più a rischio. Anche se ci riuscisse, cosa improbabile, il suo sarebbe un governo talmente debole che saremmo in balia del mondo intero più di quanto lo siamo con Monti. Napolitano ci pensi bene prima di avventurarsi su strade ad alto rischio. Alessandro Sallusti, 23 marzo 2013
….,..Nemmeno l’Italietta giolittiana, quella dei giri di valzer e dei valzer senza giri, era riuscita a tanto. A farsi prendere per i fondelli, non una, ma due volte. E’ riuscito all’Italietta di Monti e ai suoi bravos alla mortadella, dal ministro degli esteri, l’uomo di Fini, Terzi di Santagata, al ministro della difesa De Paola il cui unico obiettivo è quello di accappararsi incarichi per “arrotondare” la già più che pingue pensione. Il caso dei due Marò restituiti all’india dopo aver solennemente dichiarato che rimanevano in Italia è da manuale e da oggi farà parte del kit dei boy-scouts americani. Non è il caso che ricapitoliamo la storia che si trascina da quasi un anno. Contano sopratutto le ultime 24 ore. I due ritornano in India perchè, dichiara il sottosegretario che ha il nome di un prodotto agricolo, De Mistura, l’India ha aassiocurato che non rischiano la pena capitale. Oh bella! Perchè se gli danno 30 anni da scontare in una putrida galera indiana c’è da stare allegri? Ma l’India fa sapere, dopo che i due sono ritornati in India, che non c’è nessun impegno in questo senso. Cioè, per dirla tutta, l’India fa intendere che i due rischiano proprio la pena capitale. Che figura di merda per Monti e i suoi compagni. Sopratutto per quella faccia di pietra di Monti che quando i due ritornarono in Italia per “licenza elettorale” li ricevette a Palazzo Chigi, proprio come si faceva nella putridissima prima Repubblica, quando tutto faceva brodo per far voti, dalle Madonne pellegrine ai trattori di Stalin. E tutto ciò mentre il mondo ci ride dietro: siamo stati offesi e gabbati e forse per una manciata di quattrini (eggi affari) ci prendiamo in faccia non soltano lo scherno del mondo universo ma anche la possibilità di avere sulla coscienza se non due morti morti due morti vivi. Bella roba per uno che doveva riscattarci da Berlusconi. Ma Berlusconi mai avrebbe consentito che questa farsa che può trasformarsi in dramma fosse rappresentata. g.
GLI SPRECHI DEL PARLAMENTO EUROPEO HANNO NULLA A CHE FARE CON LA PACE
Pubblicato il 12 dicembre, 2012 in Economia, Politica estera | No Comments »
Duecento milioni di euro all’anno buttati al vento. Da decenni. Un miliardo e quattrocento milioni di euro che la nostra generazione pagherà dal 2014 al 2020 e che verranno ancora una volta inseriti nel bilancio comunitario nonostante sobrietà, rigore e tagli.
Benvenuti a Bruxelles, ma anche a Strasburgo. Perché in tempi di crisi economica, l’anomalia della doppia sede del Parlamento Europeo è un tema che grida vendetta. E che continua a gravare inesorabilmente sulle tasche dei contribuenti europei. Carovane di politici che da Bruxelles partono per Strasburgo.
Una volta al mese, i 754 deputati, insieme agli assistenti, ai funzionari e ai faldoni, viaggiano alla volta della città dell’Alsazia e si trasferiscono lì per quattro giorni per svolgere la seduta plenaria. In un anno più di cinque mila persone percorrono i 450 chilometri che ci sono tra le due città, chi con un volo charter, chi con un pullman, chi con più di un treno, visto che non ci sono linee ferroviarie ad alta velocità e che solo sei capitali europee, tra cui Parigi, hanno un collegamento diretto con Strasburgo.
Gli unici a felicitarsi della transumanza sono i gestori dei ristoranti e degli hotel che in quel periodo fanno letteralmente lievitare i prezzi di beni e servizi perché tanto pagano i cittadini – ché la comunità servirà pur a qualcosa. Durante la sessione plenaria, i prezzi delle stanze di albergo a Strasburgo lievitano quasi del 100%, per non parlare di quelli di bar e ristorazione. L’argomento non è nuovo ed è stato più volte affrontato dai membri dell’istituzione. Lo scorso 23 ottobre, il 75% dei parlamentari europei ha votato per un ritorno a un’unica sede, fissando la deadline al giugno 2013.
Insomma, quasi tutti sono concordi: quello che il Parlamento stesso ha definito travelling circus (circo itinerante) deve finire. Peccato siano anni che viene emessa questa sentenza, senza però che il Consiglio Europeo faccia nulla. Cosa c’entra il Consiglio? C’entra eccome. Perché per eliminare una delle sedi del Parlamento Ue, bisogna modificare il Trattato di Lisbona, e per fare ciò è necessaria la decisione unanime del Consiglio, appunto.
Solo che tra i membri c’è la Francia, che ha più volte annunciato che porrebbe il veto. Alla nazione di Hollande non andrebbe giù di perdere il flusso turistico-commerciale di Strasburgo. Basti citare un esempio a prova dell’ostracismo d’Oltralpe. Quando il 9 marzo 2012 il Parlamento Ue voto a favore dell’accorpamento e svolgimento di due delle dodici sessioni plenarie nella stessa settimana del mese di ottobre, la Francia si appellò alla Corte di Giustizia Europea. Non stupisce dunque che si areni sempre tutto. Nonostante le reiterate richieste trasversali dei membri del Parlamento e nonostante il volere dei cittadini.
Una petizione lanciata dall’allora commissario per gli Affari Interni, Cecilia Malmström, e poi rilanciata da due parlamentari europei (Edward McMillan-Scott e Alexander Alvaro) dal nome SingleSeat e favorevole alla sede unica di Bruxelles è stata firmata da circa un milione e duecentomila cittadini europei.
Le sessioni plenarie, tra costi per viaggi, staff e altre voci, gravano circa 200 milioni euro all’anno. Se il Parlamento avesse una sola sede operativa, il risparmio sarebbe enorme. Senza parlare poi dell’inquinamento atmosferico e delle emissioni di anidride carbonica prodotte, contro le quali l’Ue è in prima linea nel porre limiti agli stati membri salvo poi razzolare male. Infatti, secondo il rapporto del Parlamento Ue, se ci fosse solo una sede si risparmierebbero 19mila tonnellate di CO2 all’anno emesse nell’atmosfera.
Nel 1989, il Parlamento adottò una risoluzione nella quale veniva dichiarato che l’assenza di una singola sede porta a far sì che l’elettorato europeo trovi difficoltà a identificarsi con il Parlamento Europeo. Insomma, la preoccupazione che l’Ue fosse un oggetto politico non identificato era ben presente già 30 anni fa. Da allora a oggi non è cambiato nulla, se non che sono aumentate e affiorate decine e decine di agenzie e di uffici dispersi tra tre diverse città, perché una parte degli uffici amministrative hanno sede in Lussemburgo. Non c’è due senza tre, insomma.
L’ultimo emendamento approvato dal Parlamento Ue con 432 voti a favore, 218 contrari e 29 astensioni, sostiene che l’UE, nel contesto delle politiche di austerità in corso, debba dimostrare responsabilità e prendere misure concrete immediate per stabilire una sede unica per il Parlamento. Al momento, sembra che l’austerità non collimi con questo progetto. Se a ciò si aggiunge che la sede del Parlamento Ue di Strasburgo è costata quasi 500 milioni di euro ed è praticamente vuota nove mesi l’anno e che tra i progetti dello stesso Parlamento c’è quello della Casa della storia europea, un museo in costruzione a Bruxelles nel quale verrà mostrata la storia del dopoguerra e che costerà 50 milioni di euro (sarà completato nel 2015), ecco che il rigore lascia spazio alla crescita. Della spesa, però. 12 dicembre 2012
.…………….Le caste, di ogni dove, vivono alla grande alle spalle dei popoli. L’Unione Europea che autorizzò i bombardamenti di Belgrado sotto i quali morirono bambini, donne e anziani, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace dopo aver fatto la guerra con i missili e le bombe prima e con le rappresaglie economiche dopo, cioè ora, contro i paesi più deboli, come la Grecia, o meno solidali come noi, l’Italia. Questa satessa Unione Eurpea, menre affama i popoli, spende e spande per meglio godere dei privilegi acocrfdati alla casta, non solo quella politica, sopratutto l’altra, la peggiore, cioè quella burocratica. C’è chi ha scrftto chese il comunismo è morto, alla sua morte è sopravissuta la burocrazia, riferendosi a qeula sovietica. Evidentemente non conosce quella asserragliata nei polverosi e spesso deserti saloni dei palazzi di Bruxelles e di Strasburgo da dove amministrrano ormai non più la crescita ma la morte per inedia dei popoli europei. Talvolta, purtroppo, con l’aiuto di qualche maldestro professorone italiano, tanto saccente quanto refgrettario alle critiche. Parliamo di Monti, di altri sennò? g.
USA: OBAMA, IL CORRETTISMO E IL MARCHINGEGNO DELLA SPWRANZELLA
Pubblicato il 5 novembre, 2012 in Politica estera | No Comments »
A 24 ore dal voto che eleggerà il nuovo presidente americano, ecco un’analisi sui due candidati che si fronteggiano alla pari e alla conquista dell’ultimo voto.
Se ce la facesse Obama, dovremmo prepararci a una nuova temperie mondiale, in un alone vittorioso di ideologicamente corretto. La coppia Romney è bianca che più bianca non si può, lui è un businessman pacchiano ma pragmatico e affidabile, lei la First Lady dei buoni biscottini, il tutto molto americano, e se dell’Europa si parla è perché è un rischio, comprese le cattive abitudini da non importare. La coppia Obama sa di Harvard, Law School, e di orto biologico, sa di cosmopolitismo, di Eurotrash, la gita a Firenze sognata una vita e le buone viziose attitudini del vecchio continente colto e benestante, la coppia ha fallito con le energie alternative ma non demorde, l’idea è quella di assoggettare gli spiriti animali della crescita economica alla dittatura dei luoghi comuni. Intendiamoci, Obama, come ogni altro presidente degli Stati Uniti, fa quel che deve fare, all’ingrosso: prende Bin Laden e lo accoppa, manda in giro una quantità di droni a decapitare il terrorismo mondiale, sorveglia Guantanamo Bay come il predecessore, si accorda con Wall Street per le regole, tiene a bada il Congresso che lo controlla, ci va piano con le tasse. E lo stesso a parti rovesciate farebbe Romney, che non darebbe il potere ai tea party e alla fine sgonfierebbe il debito con tutta la gradualità necessaria, facendo attenzione a non urtare con lo smantellamento del big government le suscettibilità solidariste che anche in America sono forti il giusto, e nessuno vuole più sentire parlare di guerre secondo un progetto di ordine mondiale fondato sull’espansione della libertà (sono congiunture uniche, come quella dell’undici settembre duemilauno, che consentono o esigono inneschi strategici di quel tipo come accadde con George W. Bush).
Ma lo scontro di segni è fortissimo. Per questo sono ancora convinto, nonostante i sondaggi in contrario, che Romney ce la possa fare. Mi spiego. Il candidato repubblicano non è un asso, anche se è spesso sottovalutato. Ma il candidato presidente Obama è l’opposto di quello che era quattro anni fa. Prometteva un abbraccio universale, la cosa più americana che ci sia, ha realizzato un mandato insulare, tutto chiuso in una dialettica tra i liberal di Chicago e quel che c’è di radicale alla loro sinistra. Non ha governato così male, siamo seri, ma ha governato. E questo solo fatto, dover scegliere anche se malvolentieri e tardi rispetto ai fatti, oltre a produrre risultati economici e sociali ambigui, ha trasformato il giovane nero che prometteva un mondo nuovo per tutti, quel tratto che la cattivissima Sarah Palin chiama the hopey thing, il marchingegno della speranziella, in un intellettuale complicato, che deve badare alle nozze gay e tenersi stretta la vecchia e malsicura maggioranza radicaleggiante, lontano dai destini della famosa America profonda. Di Obama resta l’obamismo all’europea, la parte più debole e ideologica, quella che ha portato all’endorsement snobbish dell’Economist. E Romney esprime, sebbene con una nervatura non proprio sanguigna ed energica, esattamente il contrario, il repubblicanesimo della business community, della country music e della voce rauca di Clint Eastwood. Staremo a vedere. Fonte IL FOGLIO QUOTIDIANO
ELEZIONI AMERICANE: ROMNEY ALLUNGA IN FLORIDA, IN BILICO OBAMA
Pubblicato il 21 ottobre, 2012 in Politica estera | No Comments »
Alla immediata vigilia del terzo ed ultimo dibattito tra i due sfidanti alla presidenza degli Stati Uniti Romney continua ad avanzare nei sondaggi, nonostante la buona prova data dal presidente nel secondo faccia a faccia. Un sondaggio Gallup dà lo sfidante addirittura avanti di 7 punti a livello nazionale, mentre due rilevazioni sulla Florida confermano che il presidente è indietro nel più importante Stato in bilico. La situazione a pochi giorni dall’ultimo dibattito, lunedì a Boca Raton, in Florida (in Italia saranno le tre del mattino di martedì) è difficile per Barack Obama. Ma a livello di Stati chiave la bilancia pende ancora. sia pur di poco, verso il presidente. in carica.
I sondaggi negli Stati chiave sono utili per simulare cosa succederebbe se si votasse oggi.
IL SISTEMA ELETTORALE USA
Il dato nazionale infatti non è tutto, quando si parla di elezioni Usa. Infatti l’inquilino della Casa Bianca viene eletto con un sistema su base statale. E a fare la differenza sono pochi Stati chiave.
Come è noto, essendo gli Stati Uniti una repubblica federale, il sistema elettorale è su base statale. Questo significa che i voti dei cittadini non finiscono virtualmente in una stessa urna, ma in 50 urne diverse, una per ogni Stato, sulla base del quale si assegnano dei delegati. Gli Stati più popolosi eleggono più “grandi elettori”, come vengono chiamati. Per essere eletti, un candidato deve ottenere almeno 270 grandi elettori su 538.
Essendo quindi molti degli Stati “nettamente democratici” o “nettamente repubblicani”, tanto che quei delegati si considerano già assegnati a un candidato a meno di sorprese o rivoluzioni, il numero di Stati in bilico che possono decidere l’elezione è molto limitato. E spesso sono sempre gli stessi.
LA SITUAZIONE
In questa fase, nella sfida tra Barack Obama e Mitt Romney, sono solo sette gli Stati che esperti e sondaggisti considerano in bilico (tossup, come si dice in inglese) o quantomeno contendibili.
Si tratta di Florida (29 grandi elettori), Pennsylvania (20), Ohio (18), North Carolina (15), Virginia (13), Colorado (9), Nevada (6), Iowa (6) e New Hampshire (4). Ovvero 120 grandi elettori in ballo.
IL FRONTE DEMOCRATICO – 227 grandi elettori
Gli Stati considerati saldamente in mano ai democratici sono New York, California, Oregon, Washington, New Mexico, Illinois, Maine, Vermont, Massachussetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland, District of Columbia, Minnesota, Hawaii, Michigan, Wisconsin. Questi Stati valgono al momento 227 grandi elettori.
IL FRONTE REPUBBLICANO - 191 grandi elettori
Il Great Old Party può contare invece su una solida maggioranza in Texas, Alaska, Montana, Idaho, Utah, Arizona, Wyoming, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Kansas, Oklahoma, Arkansas, Louisiana, Alabama, Georgia, South Carolina, West Virginia, Kentucky, Tennessee, Mississippi, Indiana e Missouri. Questi Stati, numerosi ma in gran parte poco popolosi, valgono 191 grandi elettori.
LA SIMULAZIONE: ELETTO OBAMA
In questa situazione, Obama rimane a un passo dall’elezione: dei 120 grandi elettori in ballo, gliene bastano 43 per rimanere alla Casa Bianca ma Romney può batterlo.
I sondaggi in questi Stati infatti dicono che ovunque Romney è in netto recupero:
In Florida, Romney avanti di almeno un punto;
In Ohio: Obama +3%;
In North Carolina: Romney +3%;
In Virginia, è parità;
In Colorado, Obama avanti di poco;
In Nevada, Obama +3%;
In Iowa, Obama +4%.
In New Hampshire, Obama +1,5%
In Pennsylvania, Obama +5%
Alla luce di questi dati conterà molto l’ultimo dibattito e sopratutto cosa decideranno di votare i tanti indecisi che, collocati al centro, sceglieranno all’ultimo minuto e faranno la differenza, specie negli stati in bilico, nei quali, come appare dalla tabella sopra riportata, il vantaggioe/o lo svantaggio di entrambi i candidati si aggira intorno al 3%, percentuale considerata da tutti all’interno del margine di errore.
LA MERKEL: l’UE DEVE POTER INTERVENIRE SUI BILANCI NAZIONALI: DA IMPIAGATUCCIA DELLA GERMANIA COMUNISTA A NUOVO KAISER
Pubblicato il 18 ottobre, 2012 in Politica, Politica estera | No Comments »
“Abbiamo fatto buoni progressi nel rafforzamento della disciplina di bilancio con il fiscal pact, ma siamo dell’opinione, e parlo a nome del governo tedesco, che dobbiamo fare un passo in avanti nel dare all’Europa il diritto di intervento sui bilanci nazionali”.
Angela Merkel vuol mettere le mani sull’Europa. E lo dice chiaramente al Bundestag, in vista del vertice europeo dei capi di stato e di governo che si terrà questo pomeriggio a Bruxelles.
La cancelliera tedesca si è detta d’accordo con la proposta del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble di creare un commissario unico per l’euro e di rafforzare il Parlamento europeo. E ha lanciato l’idea di un nuovo fondo “ricavato per esempio dalla tobin tax”, per investire in specifici progetti nei Paesi membri.
Inoltre, la cancelliera teutonica ha espresso sostegno alla proposta sul supercommissario di Wolfgang Schaeuble: la Germania è favorevole a che si faccia un passo avanti nell’Europa e si accordi “un effettivo diritto di ingerenza sui bilanci nazionali” al commissario europeo della moneta. Infine, la Merkel ha difeso la possibilità di affidare al commissario europeo agli affari economici un diritto di veto sui budget nazionali degli stati membri.
Borse europee contrastate in attesa dell’inizio del vertice Ue di Bruxelles dove però “non saranno prese decisioni concrete”. Tensione in Grecia, dove si tiene il secondo sciopero generale in tre settimane contro le misure di austerità del governo.
Le 24 ore di sciopero, indette dalle due principali sigle sindacali, si tengono a ridosso del vertice dei capi di stato e di governo che si apre oggi pomeriggio Bruxelles. Atene ha varato altri 11,5 miliardi di euro di sacrifici per convincere Ue e Fmi a sbloccare la seconda serie di aiuti da 130 miliardi di euro. Probabilmente i leader europei non decideranno tra oggi e domani il via libera alla nuova tranche di aiuti, ma comunque discuteranno del caso greco.
Violenti scontri sono scoppiati ad Atene durante la manifestazione per lo sciopero generale. La polizia anti-sommossa ha sparato lacrimogeni per disperdere centinaia di black bloc che avevano scagliato bottiglie incendiarie nei pressi di Piazza Syntagma.Entro novembre gli aiuti dovranno essere sbloccati per evitare il default del paese. Per lo sciopero generale è prevista la paralisi dei trasporti, la chiusura degli uffici pubblici, di molti negozi e delle banche e il funzionamento a scartamento ridotto degli ospedali. Per quanto riguarda la situazione della Spagna, la Merkel ha specificato che “dipende solamente da Madrid” decidere su una eventuale richiesta di aiuti all’Ue. Il Giornale 19 ottobre 2012
.…………Insomma la Merkel non riesce a nascondere più di tanto la sua vocazione alla prepotenza che le deriva, evidentemente, dalla sua formazione culturale nella Germania dell’Est, cioè la Germania che era più comunista dell’Unione Sovietica e dove lo Stato invadeva la vita dei cittadini non solo vietando loro una vita libera, ma interveniva nella loro stessa vita, trattandoli da sudditi e spesso da prigionieri, del che è ritratto sconvolgente un film premiato con l’Oscar come miglior film straniero nel 2006, appunto La vita degli altri, nel quale viene descritto il ruolo dello stato comunsita nella vita dei singoli individui. E’ quel che la Merkel vuol riproporre nella vita degli stati mebri dell’Unione Europea senza che quest’ultima sia mai stata trasformata in unione politica oltre che monetaria ed economica, cioè acefala del più importante e determinate riconoscimento, quello che proviene dal basso, cioè dai cittadini che sono gli unici che essendone depositari possono delegare funzioni politiche ad organismi che, sinora, nulla hanno di politico e democratico, e molto, anzi solo di oligarchico e autoreferenziale. Incurante di quel che accade in Europa, della crisi che ha investito tutti gli stati, demolendo le economie più deboli e quelle dei paesi più esposti, la Merkel, proprio come l’esercito hitleriano che dilagava in Europa all’inizio della guerra mondiale e tutto distruggeva lasciando dietro di se macerie e rovine, va avanti del tutto indifferente alle conseguenze di tale politica cieca e senza sbocchi. Anche a casa sua incominciano a pensarla così. Il futuro candidato cancelliere socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, ha questa mattina fortemente contestato alla Merkel la disattenta politica sin qui portata avanti che se per il momento può sembrare fare la fortuna della Germania, in prospettiva ne determinerà l’isolamento. Come in una ipotetica guerra nucleare, al termine della quale, ove scoppiasse, il vincitore si troverebbe dinanzi al deserto in cui il mondo sarebbe stato trasforamto dalle armi nucleari. Ma se la Merkel va avanti come un carro armato tigre, quello in dotazione ai tedeschi durante la guerra, considerandosi un nuovo Rommel in gonnella, la colpa è anche della fragile capacità degli altri leader europei di frenarla e di imporle un cambiamento di rotta. Anche presunti primi della classe, tra i quali, anche oggi, il discusso ministro dell’Economia italiano ha arruolato il premier Monti, non si avvedono che lasciandola fare, accettandone le teorie e non respingendone la tendenza egemonica, finiranno per essere complici, anzi già lo sono, di una politica che finirà col distruggere il sogno dell’Europa unita che però non era quello dell’ Europa dei banchieri e delle monete, ma l’Europa dei popoli e della gente. A quest Europa, in anni ormai lontani, dedicammo la nostra vita e intitolammo i nostri slogans – Italia, Europa, Rivoluzione ! – e a questa Europa rimaniamo fedeli. A quella della Merkel non siamo disposti a pagare alcun prezzo, tanto meno a sacrificare la nostra sovranità nazionale. g.
PREMIO NOBEL PER LA PACE ALL’EUROPA. GIUSTO, MA AL MIO BAR AVEVAMO VOTATO PER IL TEXAS
Pubblicato il 13 ottobre, 2012 in Politica, Politica estera | No Comments »
Il premio Nobel per la Pace è andato all’Unione europea, giustamente. Al mio bar avevamo votato per il Texas. Come secondo voto avevamo messo Beyoncé. La cantante un mese fa ha cantato (molto bene) all’Assemblea dell’Onu. Come tutti sanno, l’Accademia di Svezia per i Nobel manda 8 milioni di schede voto a tutti i bar del mondo. Il barista diventa pubblico ufficiale, se fa i brogli può essere arrestato e il bar assegnato a don Ciotti. Don Ciotti negli ultimi anni si è visto assegnare bar e ristoranti anche in Messico e Laos. Giustamente don Luigi fa: “Vi ringrazio per la fiducia ma non posso gestire tutto quello che viene confiscato ai clan di tutto il mondo, fatelo gestire un po’ anche a Giovanni Rana”. A proposito, perché il prossimo anno non vince il Nobel per la Pace don Ciotti?
Noi come grandi elettori abbiamo in mano 76.000 voti su 8 milioni. Un bar potentissimo che può condizionare tutti i premi Nobel (escluso quello della Chimica) si trova a Milano, corso di Porta Romana 2. Quest’anno volevano dare il premio Nobel per la Pace alla Renault. Motivo: è la casa automobilistica che più ha puntato sull’auto elettrica evitando futuri conflitti per il petrolio. C’era un piccolo conflitto d’interessi in quanto la sorella del barista ha una Renault 4 del 1980. Nel dubbio gli accademici della Reale Casa di Svezia hanno invalidato il voto. Comunque secondo me il meccanismo delle votazioni dei Nobel va cambiato. I bar del mondo per il 73 per cento sono in mano ai cinesi. Certo i clienti sono di tutte le nazioni, però non mi sembra giusto che il bar che c’è dentro il Palazzo di vetro dell’Onu vale 30 voti, e il bar davanti alla stazioni di Mestre vale 1.000 punti. Parliamoci chiaro, ormai le licenze dei bar valgono in funzione del peso che hanno a eleggere un Nobel. Più grandi elettori hai, più la licenza vale. Non a caso il bar dentro il tribunale di Durango vale 7 milioni di rubli; parlo della licenza. Infatti anche quest’anno hanno imposto il premio Nobel per la Fisica (Carlo Rubbia fu imposto dal titolare di questo bar che allora era un italiano e oggi è al bar della Nato a Bruxelles).
Quest’anno il premio Nobel per la Fisica l’hanno vinto i due scienziati che hanno inventato l’orologio atomico. Questa scelta è stata imposta. Bravi! Pensate che sbaglia un secondo ogni 4,5 miliardi di anni. La Terra infatti ha 4,5 miliardi di anni. Quindi dall’inizio a oggi hanno sbagliato a misurare il tempo solo di un secondo. Però l’uomo primitivo (che all’inizio non c’era) non aveva l’orologio atomico. Bisogna stare sulla fiducia. Anzi aspettare i prossimi 4,5 miliardi di anni. Infatti l’orologione al plutonio è stato scoperto 30 anni fa. Comunque i due fisici possono stare tranquilli; se tra 4,5 miliardi di anni il loro orologio sgarra anche di 5 ore (invece di un secondo), il premio l’hanno meritato uguale. Per me anche Armstrong (il ciclista) ha meritato tutti i Tour che ha vinto. Inutile revocare tutto per doping. Anche perché il fatto non sussiste… però non sono convinto.
A questo punto mi chiedo: quando si arriverà ad assegnare un premio Nobel per il bar-tavola calda peggiore al mondo? Risponde l’ufficio stampa del comitato dei Nobel: “Mai! Finché i bar non metteranno gelati, patatine e caffè di nostra indicazione; e poi nemmeno noi siamo un’istituzione autonoma e non ci facciamo condizionare dalle aziende commerciali”. Per quanto riguarda il maestro Dario Fo, noi volevamo dare il Nobel a Piero Mazzarella (sempre per l’Italia) ma ci telefonò Arrigo Sacchi, il noto allenatore. Voleva a tutti i costi trasformare il Pallone d’oro (miglior calciatore) a Nobel per lo Sport. Voleva darlo a Gullit. Noi per non offenderlo abbiamo deciso quello che poi è stato.
Il premio Latitante dell’anno quest’anno è stato dato al brigante Gasparone. Alla memoria. Mentre il premio vero e proprio verrà annunciato domani. Questo premio ufficialmente è un premio Nobel, di fatto l’ha istituito l’Interpol. Per vedere se il latitante dell’anno si presenta a ritirare il premio. Sarà difficile. In 15 anni che è stato istituito il Nobel “Il latitante dell’anno” non abbiamo arrestato nessuno. Certo, arriva un prestanome a ritirare il milione di corone in premio (1 corona = 11 euro). Poi l’Interpol seguendo il prestanome può catturare il latitante. Ma ripeto non è mai successo. Il Nobel per la Paleontologia quest’anno è andato a uno scienziato che ha scoperto questo: un fossile di dinosauro con le zampe ferrate. Chi gli ha ferrato gli zamponi resta un mistero… Non penso che gli ufo 20 milioni di anni fa siano venuti sulla Terra per ferrare le zampe ai dinosauri. Se la Nasa facesse una cosa del genere avrebbe tutto il Congresso contro.
Il Nobel 2012 per l’Economia sostenibile l’hanno dato a Carlin Petrini e Slow Food, grazie alla baleniera a km zero. In cosa consiste il progetto? E’ molto semplice: si prende una ciurma di 30-40 marinai ubriaconi che nessuno imbarca più, li si mette su una baleniera al largo del Canadà. La baleniera arpiona la balena, la inscatola sul posto e i marinai piano piano la mangiano. Ciclo di economia virtuoso a km zero. Questi marinai sono a posto, gli altri a casa si arrangiano. Il Nobel Petrini non va a ritirarlo a Stoccolma, ma viene al mio bar che è a 30 km da casa sua. Quando viene speriamo che non rompa le balle a farci vendere i gelati equo solidali, no ogm e km zero. E’ già così: il gelato lo faccio io, da fuori prendiamo solo le noci di cocco, che in Amazzonia raccolgono tramite scimmie urlatrici. Le fai incazzare ed esse ti tirano le noci, che vanno nel Rio, galleggiano e arrivano al porto dove le spediscono al mio bar.
Certo, il Nobel per la Pace quest’anno lo meritavano anche le primarie italiane. Ritira il premio Tabacci (che io voterò). Maurizio Milani, Il Foglio Quotidiano, 13 ottobre 2012
.…………..La notizia del premio Nobel per la Pace al’Europa, che segue quello assegnato ad Obama appena eletto e quindi come una sorta di premio al futuro, poteva commentarsi o prendendo sul serio un riconoscimento che serio non è, oppure scherzandoci su, con un pizzico di sana ironia e di altrettanto sano sarcasmo. E’ quello che fa Maurizio Milani, editorialista del Foglio, che ci scherza su, ma non troppo. A proposito, ma l’Unione Europea destinataria del premio Nobel per la pace è lo stesso organismo che nel recente passato ha autorizzato o comunque non impedito azioni di guerra su territori sovrani? E’ lo stesso organismo che senza usare le armi da fuoco tiene sotto tiro centinaia di milioni di europei con gli strumenti finanziari costringendoli alla fame o alla rivolta? Ma si, scherziamoci sopra, e un sberleffo li sotterri tutti. g.