Archivio per la categoria ‘Politica estera’

SCOPPIA IN UN SITO NUCLEARE FRANCESE A 250 KM DA TORINO: UN MORTO E QUATTRO FERITI

Pubblicato il 12 settembre, 2011 in Politica estera | No Comments »

In Francia l’esplosione di un forno presso il sito nucleare di Marcoule, nel sud del paese (a 30 km da Avignone), ha provocato la morte di una persona e il ferimento di altre quattro. Per il momento “non c’è stata fuga radioattiva all’esterno”, fa sapere il Commissariato dell’energia atomica (CEA). I pompieri hanno comunque eretto un perimetro di sicurezza intorno alla centrale, a causa del rischio di fughe.

L’incidente “non riguarda sicuramente la centrale nucleare”, ha detto l’esperto Emilio Santoro, dell’Enea. “L’esplosione – ha aggiunto – è avvenuta in un impianto per il ritrattamento del combustibile”. Non è chiaro, al momento, se si tratti di un forno per estrarre l’umidità dal combustibile oppure di un impianto nel quale vengono fusi o vetrificati i metalli a bassa attività. “La causa dell’incidente al momento non è nota”, ha osservato Santoro. “Probabilmente si è trattato di un effetto prodotto da una cattiva gestione o dall’anomalia all’interno di un forno”.

Marcoule si trova a 242 km in linea d’aria da Ventimiglia, 257 da Torino, 342 da Genova. La centrale di Marcoule possiede 3 reattori UNGG (una versione francese del Magnox inglese) da 79 MW totali. E’ stata la prima centrale nucleare francese, nello stesso sito esiste anche un altro reattore (il N°1) costruito dal 1955 al 1956 da soli 2 MW e non utilizzato per la produzione elettrica. La centrale fa parte del più ampio sito nucleare Marcoule, un’istallazione industriale gestita da AREVA e dal CEA. A Marcoule furono costruiti i reattori nucleari a uso militare per le ricerche destinate alla costruzione della bomba atomica francese. ANSA, 12 settembre 2011

…………Ed ora elle due l’una: o costruiamo anche noi una centrale atomica a 250 km da una città francese, oppure intimiamo a Sarkozy di dismettere le sue centrali nucleari. E se non lo fa lo andiamo a bombardare.

11 SETTEMBRE DIECI ANNI DOPO: LE TORRI DISTORTE (e noi siamo sempre piu’ occidentali)

Pubblicato il 11 settembre, 2011 in Costume, Politica estera, Storia | No Comments »

Dieci anni dopo, l’11 Settembre per molti è un pezzo polveroso di storia. Punto di svolta della contemporaneità, è stato rubricato alla sola voce “guerra” da alcuni, “shock” da altri, ma pochi finora hanno cercato di inquadrarlo come uno dei picchi sismografici di un ciclo che viene da lontano. L’abbattimento delle Torri Gemelle è un’icona dell’immaginario del Ventunesimo Secolo. Il prodotto della diffusione e dispersione dei fatti in immagini. Meno testo scritto e più pixel. Meno parole e più bit. È la dissoluzione del racconto e del senso delle cose. Torri che crollano. Migliaia di volte in tv. Show e assuefazione. Torri distorte. George Steiner nelle prime pagine del suo libro «Nel castello di Barbablù», racconta come l’uso massiccio della posta a cavallo e la dimensione di massa delle guerre napoleoniche abbiano modificato la percezione della realtà. Bonaparte non era solo un formidabile artigliere, ma un uomo della Storia. Mentre Kant e Hegel scrivevano pilastri della filosofia, cannoni e baionette dell’Armèe riordinavano l’Europa. E le notizie galoppavano.
L’informazione/deformazione ha accelerato non solo i processi di incontro e creazione, ma anche di conflitto e distruzione. L’11 Settembre 2001 è stata la prova generale di una società occidentale iperconnessa che conosceva il male di un mondo sconnesso, quello dei talebani e di Osama Bin Laden. L’era degli shock globali si è trasformata in un videogame dove l’Occidente ha cominciato a ripiegare su se stesso.
Quella che alcuni polemisti hanno chiamato la “cultura del piagnisteo” si è diffusa e un micidiale senso di colpa ha pervaso l’animo di chi aveva portato la bandiera del self made man ovunque nel mondo. Questa ritirata delle forze della libertà continua e appare inarrestabile.

La Storia ha virato a Est lasciando l’Ovest scoperto e debole. Il Sud del mondo preme a Nord e la Terra di Mezzo d’Oriente è una polveriera. L’Egitto è un monito per tutti, ci insegna che le minacce covano anche tra i gelsomini, mentre Teheran presto avrà la Bomba e noi, dieci anni dopo, non sappiamo che fare.  Mario Sechi, Il Tempo, 11 settembre 2011 (nella foto: la mattina del 12 settembre 2001 tre pompieri di New York issano la bandiera americana  sulle macerie delle Due Torri a sottolineare l’immediata volontà del mondo libero stretto intorno agli Stati Uniti di non arrendersi al terrorismo)

.……Il decennale della tragedia dell’11 settembre ha vari modi per essere raccontato. Sechi ha scelto quello che a noi sembra il più realistico. Ha tralasciato la facile retorica con cui molti, sia mass-media che politici di ogni genere, da giorni e stamattina ancor più, hanno scelto di ricordare la tragedia che dieci anni fa sconvolse il mondo e lo cambiò. Sechi ha scelto di raccontare come il cambiamento del mondo continui nella direzione che gli attentatori avevano in mente. Non erano profeti ma di certo il loro intento, quello di sconvolgere la vita degli uomini e dell’Occidente, oltre che dell’America, appare perseguito da ciò che nel mondo sta accadendo, con il passaggio di ruolo guida, prima ancora che militare, economico (posto che è  l’economia a indirizzare e determinare le opzioni anche militari, come la recente vicenda della Libia ha dimostrato…)  dall’Ovest all’Est, con la Cina che possiede buona parte del debito pubblico americano e con i paesi emergenti dell’est asiatico  che si muovono da protagonisti sugli scenari del mondo. I principali attori  occidentali del momento, ad  iniziare da Obama con tutte le delusioni che ha provocato, preferiscono la retorica alla realtà, preferiscono nascondersi dietro le commemorazioni piuttosto che affrontare la realtà e tentare di invertirne la tendenza, per restituire all’Occidente il ruolo di centralità che può garantire gli equilibri mondiali con l’Occidente capace di fermare le invasioni dal’est. Ma ora non basta la retorica, non sono sufficienti le commemorazioni, occorrono decisioni coraggiose e determinate, sono necessarie scelte che impediscano al mondo di andare alla deriva. Per questo bisogna lavorare e per questo, così come dieci anni fa, insieme a tutto il mondo,  ci dichiarammo orgogliosamente americani, oggi altrettanto orgogliosamente ci dichiariamo  occidentali. g.

L’IPOCRISIA DEI PACIFISTI:URLA SU SADDAM E SILENZIO SU GHEDDAFI, di Giuliano Ferrara

Pubblicato il 28 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Una delle guerre più stupide e sporche della storia europea cominciò con una sequela di menzogne, parte delle quali timbrate dalle Nazioni Unite, parte subite nell’ignavia della comunità internazionale: bisogna difendere i civili da Gheddafi, bisogna riscattare un paese in cui il de­stino dell’opposizione pri­maverile sono le fosse comu­ni (inesistenti, si trattava di un cimitero marino), biso­g­na cacciare un tiranno stra­tegicamente pericoloso per la pace nel Mediterraneo, ma non daremo la caccia a Gheddafi, vogliamo solo pro­teggere i diritti di coloro che lo combattono, gente solida e affidabile che garantisce un futuro di pace e di democrazia per la Libia. Saddam Hussein era effettivamente un tiranno fuorilegge da anni nella comunità internazionale, un signore della tortura che non piantava le sue ten­d­e e le sue amazzoni nei centri storici di Roma e Pa­rigi, che non faceva affari, se non loschi e clandesti­ni, con l’occidente, che era stato dichiarato fuori­legge per avere tentato di accaparrarsi il Kuwait, per avere stermina­to curdi e sciiti con armi di distru­zione di massa, per aver progetta­to il n­ucleare militare finché Israe­le con un blitz non distrusse il suo sogno e il nostro incubo del reatto­re di Ozirak, detto anche O-Chi­rac. E dietro la guerra a Baghdad, costata molto agli iracheni e agli americani e combattuta anche con il sacrificio di migliaia di vite di soldati eroici dell’Occidente in reazione politica dopo l’11 settem­bre, non c’erano le menzogne del­l’Onu e le farneticazioni della rive gauche parigina, non c’erano le bestialità umanitarie che cercano penosamente di coprire il bagno di sangue clanistico e tribale in corso in Libia con la nostra fattiva complicità,c’era un manifesto po­litico delle libertà civili nel mondo islamico, c’era il riscatto costitu­zionale di un popolo vissuto per trentaquattro anni all’ombra di un socialismo arabo del terrore e della repressione più spietata. Co­me in Siria, dove l’umanitarismo non penetra chissà perché. Avete per caso visto un manife­stante pacifista di quelli indignati contro la «guerra per il petrolio», che non ha portato una goccia di petrolio nelle casse imperialiste e ha lasciato l’oro nero finalmente nelle casse di uno stato ricostruito secondo giustizia, ribellarsi alla vera guerra del petrolio, per di più cinica e levantina perché non era in discussione la giugulare petroli­fera libica ma solo le condizioni di forza tra diversi paesi europei per il suo accaparramento? Avete let­to qualcuno dei commentatori malmostosi e insinceri del dolore iracheno scrivere con toni indi­gnati del carattere neocoloniale, assurdo, surreale e sanguinario, della guerra dei cieli che la Nato è stata portata a combattere senza una strategia chiara, senza un sen­so politico accettabile, con un di­spendio vano e crudele di risorse dall’alto che ha imposto la feroce, lunga carneficina in corso? La guerra in Iraq aveva piegato quel vecchio capo tribale, quel mascalzone di Tripoli, e lo aveva convinto a trasformarsi in uomo d’affari, a eliminare i programmi di riarmo non convenzionale, a mettersi sotto la tutela delle diplo­mazie e delle cancellerie occiden­tali. La guerra giusta aveva inflitto una sconfitta strategica definitiva al clan Gheddafi, bisognava solo lavorare per un cambio di regime politico con mezzi politici. Ma l’iperattivista Sarkozy e l’inesper­to pupo del numero 10 di Dow­ning Street non potevano aspetta­re, avevano bisogno di muovere lo scacchiere e farsi belli di qual­che decina di migliaia di morti a scopo umanitario. Così il paese, la Francia, che aveva diviso l’Occi­dente davanti a un pericolo reale, Saddam, e a una missione leale, ha trascinato l’Europa e purtrop­po una riluttante Italia minore, con la solida eccezione della Ger­mania, in una insidiosa avventura che al meglio è destinata a sostitui­re Gheddafi con i gheddafiani, al peggio è candidata a procurarci un’altra bella Somalia nella quar­ta sponda. Può succedere che la politica di potenza abbia risvegli da incubo, e produca menzogne belluine, ma che l’opinione pubblica «de­mocratica e pacifista e antimpe­rialista » abbia subito tutto questo, con rare eccezioni,e che abbia ac­comp­agnato l’avventurismo euro­peo con una palese esibizione del doppio standard, due pesi e due misure, è un’ombra che peserà sulla nostra storia, e sui nostri ef­fettivi interessi strategici, per mol­ti anni a venire. Il Giornale, 29 agosto 2011

SI VUOL NEGARE A GHEDDAFI ANCHE IL DIRITTO A DIFENDERSI? di Massimo Fini

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Una foto d’archivio che ritrae la stretta di mano tra Sarkozy e Gheddafi: forse che allora Sarkozy non sapeva che Gheddafi era un sanguinario dittatore? E se lo sapeva perchè mai gli stringe la mano, lo riceve all’Eliseo e gli sorride beato?
Non c’è da indignarsi se i soldati di Gheddafi hanno sequestrato quattro giornalisti italiani. A furia di chiamarla con altri nomi ci siamo dimenticati che cos’è la guerra. Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia hanno attaccato la Libia di cui Gheddafi era fino a pochi mesi fa il riconosciuto e legittimo leader. È ovvio che qualsiasi francese, inglese, americano o italiano, anche se civile, che si trovi oggi sul suolo libico sia considerato un nemico e trattato come tale. Che i quattro fossero giornalisti ha un’importanza relativa.

Nella seconda guerra mondiale, l’ultima in cui vigeva ancora uno “ius belli”, non sarebbe stato nemmeno pensabile che un giornalista inglese operasse al di là delle linee tedesche o viceversa.

Certamente in una guerra civile le cose sono più complesse. Perché non c’è un fronte o se c’è è labile, una zona che è sotto il controllo di una fazione può passare nel giro di due ore nelle mani di un’altra. È questa la trappola in cui sono caduti i coraggiosi inviati italiani. I giornalisti sono stati poi liberati da due giovani e generosi lealisti (gli uomini hanno occhi per vedere e cuore per sentire, i missili no). Ma se fossero stati tenuti prigionieri sarebbe stato legittimo.

GHEDDAFI E OBAMA

Altra foto d’archivio: doppia stretta di mano tra Gheddafi e Obama. Neppure Obama sapeva che stava stringendo le mani di un violento e sanguinario dittatore?

Di tutte le aggressioni perpetrate dalle Democrazie dopo il crollo del contraltare sovietico quella alla Libia è la più sconcertante. Per anni Gheddafi aveva trafficato col terrorismo, ma da quando la Libia aveva pagato un enorme risarcimento per le 700 vittime dell’attentato di Lockerbie, il Colonnello era tornato a pieno titolo nell’arengo della rispettabilità internazionale.

Paesi europei facevano lucrosi affari con la Libia (non olet) e il leader libico era ricevuto con tutti gli onori dai Premier . Poi qualcuno, improvvisamente, ha deciso che Gheddafi doveva essere eliminato. “Agenti provocateur” francesi e britannici furono inviati in Cirenaica per fomentar la rivolta.

Quando è scoppiata Gheddafi ha cercato di reprimerla. Si disse allora che sparava sui civili. Ma una rivolta, un’insurrezione, è fatta, per definizione, da civili, altrimenti porta un altro nome, si chiama golpe militare. Si varò una risoluzione Onu che, si disse, doveva imporre una “no fly zone” per impedire a Gheddafi di sfruttare la propria superiorità aerea.

ZAPATERO E GHEDDAFI

Anche  Zapatero – l’ex voto spagnolo della sinistra italiana – non disdegnava di intrattenersi con Gheddafi. Anche Zapatero non sapeva?

Anche se violava il principio di diritto internazionale della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, peraltro già buttato a mare con la Serbia, la cosa ci poteva anche stare per rendere meno sperequati i rapporti di forza fra le fazioni.

Ma subito si capì che le Democrazie non volevano affatto difendere i civili libici, ma semplicemente abbattere il regime di Gheddafi bombardando con gli aerei Nato anche le sue forze terrestri, i suoi comandi e la popolazione che gli era rimasta fedele. A causa dell’intervento Nato non sapremo mai quale era la reale consistenza della rivolta.

blair gheddafi

E non poteva mancare il laburista Blair che abbraccia Gheddafi.

Sappiamo però che il dittatore non era così isolato come oggi si vuol far credere. Come scrive Sergio Romano sul Corriere (24/8) il suo nazionalismo, l’antiamericanismo, il no al radicalismo religioso avevano l’approvazione di una parte consistente del popolo libico.

Inoltre le grandi risorse del sottosuolo gli avevano consentito di creare nuovi ceti sociali benestanti. Se fosse altrimenti non si capirebbe la strenua resistenza che i gheddafiani, pur in totale inferiorità militare, stanno opponendo alla Nato.

Il ministro Frattini ha dichiarato che “se Gheddafi continuerà a incitare alla guerra civile sarà tenuto come unico responsabile del bagno di sangue” (peraltro già avvenuto: 20mila morti). Si vuole negare a Gheddafi anche il diritto di difendersi? Massimo Fini, Il Fatto, 27 agosto 2011

.……Massimo Fini è un giornalista che non le manda a dire…le dice.  Questo articolo, infatti,  si discosta dalle veline con cui i mass media hanno trattato la guerra d’agressione perpetrata dalla Francia e dall’Inghilterra, d’intesa con gli USA, trascinandovi per il collo anche l’Italia, contro la Libia, Paese sovrano e membro dell’ONU. L’articolo di Fini evidenzia che mentre  sembrava che le guerre coloniali fossero un  brutto ricordo del secolo scorso,  pare invece  che siano tornare di attualità. Grazie al duo Cameron e Sarkozy. A chi toccherà la prossima volta? g.

IN SIRIA IL REGIME SPEZZA LE MANI AL VIGNETTISTA ANTISADAT. E NESSUNO FIATA

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume, Politica estera | No Comments »

DAMASCO – Aveva disegnato Assad che faceva l’autostop con Gheddafi e altre vignette satiriche anti regime. Lo hanno pestato a sangue e gli hanno spezzato le mani.

Così gli agenti dei servizi di sicurezza di Damasco hanno dato una lezione al celebre vignettista siriano Ali Ferzat per ridurlo al silenzio. Gli hanno detto, ha riferito un familiare dell’artista, che si è trattato «solo di un avvertimento» e gli hanno ordinato di smettere di disegnare.

Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat

«Le nostre vite sono in pericolo», ha spiegato l’uomo. Fondatore di un giornale satirico chiuso dopo numerosi attacchi e censure, il disegnatore ha un sito dove pubblica i suoi disegni (www.ali-ferzat.com) che ieri è stato a tratti oscurato. Alla vigilia del 25esimo venerdì consecutivo di proteste, gli attivisti hanno denunciato l’uccisione di almeno quindici persone in 24 ore, tra cui una donna. Il Corriere della Sera, 27 agosto 2011

…. Fin qui il Corriere della Sera che in prima pagina, come hanno fatto ieri nunmerose testate televisive, hanno dato notizia del pestaggio cui è stato sottoposto il vignettista satirico siriano Alì Ferzat come punizione per le vignette  contro il dittatore siriano che a parole promette democrazia e nei fatti reprime il dissenso, anche quello della satira che, come si sa, uccide più delle baionette. Naturalmente il silenzio delle diplomazie internazionali è assordate. Non osiamo pensare cosa sarebbe accaduto se, per esempio, qualche cosa molto, molto meno simile fosse accaduto al Vauro di Santoro o al Crozza di Floris. Sorvoliamo. E ci domandiamo. Dove diavolo sono Cameron e Sarkozy che mossi da irrefrenabile preoccupazione per le vittime del sanguinario Gheddafi hanno scatenato una guerra contro un Paese sovrano, membro dell’ONU, sganciando tonnellate di esplosivo sulle città libiche che hanno mietuto, pare,  oltre 20000 mila morti, la maggior parte dei quali tra i civili inermi che si sono trovati nella traiettoria delle bombe? E contro la Siria di Sadat, che nelle ultime settimane, senza l’aiuto delle bombe democratiche  francesi e inglesi , ha falciato centinaia di inermi cittadini la cui unica colpa era ed è quella di aspirare alla libertà di cui la democrazia è una conseguenza, perchè mai nottetempo i due campioni sopradetti non hanno concordato l’invio dei superjet armati di missili  per sforacchiare il regime  e costringerlo a lasciare liberi i siriani? E perchè il Tribunale penale dell’Aia, sempre pronto a reclamare imputati quando questi non sono più in grado di reagire, non chiedono l’immediata estradizione di Sadat dinanzi a quel Tribunale per rispondere, come Gheddafi e i suoi figli,  e prima di lui, Milosevic, e gli altri brutti ceffi del genocidio serbo,  dei crimini contro l’umanità? Ci viene il dubbio che al duo Cameron-Sarkozy dei libici non gliene fregasse più di tanto e che ad indurli alla guerra  non sia stata la commossa preoccupazione per la le loro vite, bensì i loro affari e quelli dei loro amici e delle loro aziende petrolifere. Quanto al Tribunale penale dell’Aia, ci fa  venire alla mente che da sempre i vinti hanno torto e i vincitori scrivono la storia. Spesso genuflettendola ai propri interessi.  g.

TRIPOLI E’ CADUTA, GHEDDAFI NO

Pubblicato il 23 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Muammar Gheddafi Sei mesi di campagna militare da dimenticare ci consegnano (forse) una Libia liberata da Gheddafi, ma non libera dagli errori del colonialismo, gli orrori del colonnello, le stupidaggini di Grandi Nazioni che continuano ad essere piccole.
Gheddafi ha rappresentato per quel Paese – che prima di lui Paese non era – la soluzione dei mille conflitti tribali. Non voglio qui ripercorrere la vita di Muammar, cosa che fa con la sapienza dello storico il nostro Francesco Perfetti, ma la storia della Libia e della caduta del suo uomo-simbolo mi offrono lo spunto per affrontare, ancora una volta, uno dei temi che dovrebbe far parte dell’arsenale di idee dell’Occidente: la democrazia e la sua diffusione nel mondo.
Quando nel febbraio di quest’anno decisi di titolare la prima pagina de Il Tempo «Liberiamo Tripoli» pensavo di aprire un dibattito sul modo in cui i governi democratici si confrontano con i tiranni. Una cosa è la realpolitik, alla quale non mi stanco mai di far riferimento, un’altra è continuare a chiudere gli occhi di fronte agli orrori che si perpetrano in nome del potere personale senza muovere un dito e continuando pure a far finta che l’organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu, sia un club dove tutti sono gentiluomini. Il colonnello libico in quel club non era neppure il peggiore. Pensate solo a quel macellaio di Assad che in Siria ha schierato i carri armati contro i civili. Ha ucciso migliaia di persone negli ultimi anni e sta ancora al potere. Come lui tanti altri. Continua a farmi impressione vedere il presidente iraniano Ahmadinejad prendere la parola nel Palazzo di Vetro e dire chiaramente che Israele deve morire. Non voglio fare l’elenco delle satrapie mediorientali, non voglio sollevare qui il mai risolto problema dell’indipendenza del Tibet e dei diritti umani in Cina. Sono un realista, ma fino a un certo punto. Perché se si smette di pensare che la libertà non possa essere diffusa, allora ha poco senso vivere.
Per questo non ho mai esitato un minuto: Gheddafi doveva cadere e non per consunzione naturale, ma con il suono delle armi. Le rivoluzioni non si fanno con i fiori, quelle sono invenzioni buoniste che vanno bene per spalmare la Nutella non per fare politica estera. E qui veniamo al nocciolo centrale della faccenda: l’Europa, un’opera incompiuta che si sta disfacendo anche perché non ha un sistema comune di difesa (e offesa). La campagna militare in Libia è quanto di più sgangherato si sia visto nei manuali militari. Quando la guida dell’operazione è passata dal triangolo Stati Uniti-Francia-Inghilterra alla Nato il risultato è stato un fiasco. Contro un esercito quasi inesistente, un’aviazione che non volava e un sistema missilistico le cui qualità balistiche sono ricordate dalla pizzeria «Il missile di Lampedusa», bastava un mese di operazioni aeronavali e uno sbarco a terra di un gruppo speciale. Per ipocrisia si è scelta un’altra strada: finanziare gli insorti di Bengasi fornendo loro anche le armi e il supporto aereo per creare una bugia colossale, la rivoluzione libica contro il rivoluzionario per eccellenza, Gheddafi.
Così i cirenaici potranno rivendicare il loro primato sulla Tripolitania, in quanto rivoluzionari, e le tribù, che da sempre decidono i destini della Libia, saranno ancora una volta il fattore chiave di una partita post bellica ancora tutta da scrivere. Dal punto di vista militare la guerretta libica ci insegna che l’Europa non sa fare la guerra e senza gli americani è meglio che si dedichi ad altro. Quanto all’Italia avevamo cominciato malissimo, sostenendo uno zombie, cioè Gheddafi, la cui fine era segnata. Abbiamo poi deciso di usare le basi e far decollare i Tornado con un comico avviso: non sparano. In realtà in questa campagna abbiamo quasi finito le bombe, che poi siano andate a segno è tutto da vedere. Dal punto di vista politico l’Italia resta il Paese che ha più chances di tutti, i francesi e gli inglesi sono odiati ben più degli italiani, la bandiera di Sarkozy può sventolare a Bengasi non a Tripoli. E la nostra collaborazione con Gheddafi è esattamente pari a quella di tutto l’Occidente che con il colonnello faceva affari.

Più passa il tempo e più le idee dei neoconservatori americani, quelle del gruppo dei Vulcans, che sostenevano la politica estera di George W. Bush mi sembrano corrette: i massacri dei tiranni a un certo punto devono finire e chi desidera la libertà deve essere aiutato a trovarla. Non so se questo sia esportare la democrazia, ma certamente è sostenere l’idea di una società più giusta dove la libertà non è solo per pochi eletti, e l’Occidente può tutte le mattine svegliarsi e guardarsi allo specchio senza vergogna.  Mario Sechi, Il Tempo, 23/08/2011

……L’editoriale di Sechi è a cavallo della notizia che i figli di Gheddafi, dati per arrestati, sono più liberi che mai e che gli annunci sul loro arresto rappresentano la metafora del titolo dell’editoriale di Sechi: Tripoli è caduta, ma Gheddafi no! La verità è che la sgangherata guerra contro Gheddafi,  lanciata da Francia e Germania per motivi distanti quanto la Luna da quelli umanitari,  è lungi dall’essere conclusa e comunque non è certo che al termine si innalzerà su Tripoli  la bandiera della democrazia, mentre, come ricorda Sechi, in tante altre parti del mondo, sotto gli occhi strabici di un occidente a fasi alternate,  altri regimi autoritari e sanguinari reprimono nel sangue l’anelito alla libertà e alla democrazia dei loro popoli. La Siria e l’Iran ne sono i più squallidi esempi e per i loro capi, responsabili di genocidi accertati e di minacce di genocidio pronunciate nei luoghi consacrati al rispetto dei diritti dei popoli, non c’è nessun Tribunale speciale (dell’Aia) che intervenga, nella consacrata quanto avvilente abitudine di attenderne la caduta per denunciarne gli orrori. E se non cadono mai? g.

L’INCREDIBILE FOLLIA DELLA SPAGNA LAICISTA

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Costume, Politica estera | No Comments »

Papa Benedetto XVI Mentre tutto il mondo cattolico, ma anche ateo, è concentrato su Madrid e la giornata mondiale della gioventù, gli spagnoli cosa fanno? Meglio: la stampa, la radio, la televisione spagnoli, come introducono e commentano l’evento dell’estate 2011, l’evento positivo, l’evento buono, non quello angosciante della distruzione di ricchezza finanziaria e di perdita di certezze professionali, economiche e sociali? Come preparano, dicevo, quel fatto mondiale che mostra la speranza di tanti giovani, giovani che seguono un Papa anziano nella convinzione di ascoltare, attraverso di lui, una parola di amore che viene direttamente da Dio? I media spagnoli hanno preparato la GMG centrati su una preoccupazione. Su una concreta e apparentemente giusta attenzione alle pubbliche finanze: quanto costerà ai contribuenti questa invasione di cavallette cattoliche provenienti da ogni parte del pianeta?
Gli organizzatori hanno garantito che non ci saranno costi perché l’evento è interamente coperto dalle tasse dei pellegrini, dall’intervento di privati e dagli sponsor. Nossignori, si risponde. Perché la Generalità (il comune) di Madrid ha deciso una riduzione dell’80% del prezzo dei trasporti e, di conseguenza, tutti gli spagnoli ci rimetteranno. Perché, piuttosto, invece di dare privilegi ai pellegrini, non si facilita la vita ai disoccupati?
Che dire? La Spagna ha più del 20% di disoccupazione, una crisi morale e sociale devastante, una gioventù allo sbando e, invece di ringraziare la Santa Sede perché, ancora una volta dopo Santiago e Barcellona, sceglie la Spagna a meta di un pellegrinaggio petrino e, quindi, mondiale, invece di benedire Dio perché tutto il mondo guarda alla Spagna con ovvie ricadute a livello di immagine e di promozione, invece di benedire, maledice. Fa parte, diciamolo pure, della follia degli apostati cattolici. Di quelli che, in questi giorni, acquistano credibilità gridando ad alta voce che si vogliono sbattezzare pubblicamente. Quanti sono? Abbastanza per fare notizia. Abbastanza per avere mezzi di comunicazione dalla loro parte. Abbastanza perché i sindacati, rigorosamente di sinistra, dichiarino proprio nei giorni in cui il papa è a Madrid uno sciopero dei trasporti.
Cambiamo pagina e veniamo a Benedetto XVI e alla schiera di pellegrini che riempie Madrid. Strade, piazze, bar, alberghi, parchi: tutto pieno di ragazzi che non si drogano, non si ubriacano, non fanno pubblica esibizione della loro vita sessuale. In una parola, una cosa inaudita. Un mondo di marziani. In tanti hanno risposto alla chiamata del Papa. Con sacrifici, con fatica, con allegria. E la Spagna cosa fa? La Spagna che fu cattolica, granitamente cattolica, assiste in diretta a quel modo di credere, di vivere e di pensare che l’ha resa grande per più di un millennio e che, da quando Napoleone ha riempito le sue città di logge massoniche anticattoliche, ha rigettato. La Spagna evangelizzatrice, come ha gridato ad una folla sterminata Giovanni Paolo II durante la sua ultima visita a Madrid, la Spagna che ha plasmato alla speranza cristiana un intero continente, è oggi costretta, volente o nolente, ad assistere a questa pubblica manifestazione di fede. Di una fede mite, inerme e gioiosa. Chissà che un’eco del passato non raggiunga il cuore di qualcuno e non riapra una finestrella, uno spiraglio, per tornare a guardare a Dio. Per svegliarsi dall’incubo della violenza anticristiana (antispagnola) degli ultimi due secoli, culminato nell’orrore della guerra civile del 1936-39 e rimesso in circolo dalla prassi anticattolica del laicista Zapatero.

Radicalità per radicalità, in Spagna è nato agli inizi degli anni sessanta nelle baracche di Madrid un Cammino di fede per riscoprire la bellezza e la forza del battesimo: il Cammino Neocatecumenale iniziato da Kiko Argüello e Carmen Hernandez. Questo Cammino ha portato in questi giorni centocinquantamila giovani da tutti i continenti a percorrere, prima di arrivare a Madrid, gli itinerari della nostra Europa pagana, sazia, impaurita e disperata. Abitata da soli, vecchi e bambini. Bambini soli con famiglie allargate e vecchi soli senza figli o abbandonati dai figli. Una carovana di evangelizzazione fatta da ragazzi accompagnati dai loro catechisti. Gente che sembra venire dal mondo delle favole o dalla luna. Gente che con la sua sola presenza, con la forza della propria esperienza e della propria fede, testimonia che è possibile vivere in pace un’esistenza piena di senso. Ma di questo parleremo la prossima volta. Angela Pellicciari, Il Tempo, 18 agosto 2011

…………..Sono le conseguenze del governo libertario di Zapatero che si fanno sentire e che sono destinate, purtroppo, a durare a lungo, molto più del breve regno di Zapatero.

LA PARABOLA DI MR. OBAMA CHE E’ RIUSCITO A SCONTENTARE TUTTI

Pubblicato il 16 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Barack Obama (Ansa)Barack Obama (Ansa)

Devo fare due premesse. Non sono un economista e non ho, quando osservo la politica americana, un partito preso. Tradotte in chiaro queste due premesse significano anzitutto che non sono in grado di dire, con certezza e convinzione, se il piano approvato a Washington per evitare l’insolvenza corrisponda alle esigenze dell’economia americana e di quella mondiale. E significano, in secondo luogo, che le mie reazioni non sono condizionate da particolari simpatie per l’una o l’altra delle maggiori forze politiche degli Stati Uniti.
Vi sono tuttavia altre domande a cui posso cercare di dare una risposta: concernono Barack Obama, il suo profilo politico e il ruolo dell’America nel mondo. Obama è ancora un liberal, come sembrò essere durante la campagna per le elezioni presidenziali? O non è piuttosto un moderato centrista, desideroso di evitare rotture e pronto a ricercare soluzioni di compromesso? All’inizio della sua presidenza, quando la crisi del credito rischiava di azzerare  grandi banche e grandi industrie, agì con rapidità e con una certa efficacia. Ma negli ultimi mesi è sembrato tentennante e ambiguo. Non ha dato retta ai keynesiani che gli chiedevano di uscire dalla crisi aumentando spregiudicatamente la spesa pubblica. Ha rinunciato a revocare le esenzioni fiscali decise dal suo predecessore. Ha cercato di inserire nel pacchetto finanziario degli scorsi giorni l’aumento delle tasse per i redditi più elevati, ma ha fatto, almeno per ora, un passo indietro. In Libia ha combattuto una guerra a metà, un piede dentro e un piede fuori. Nella questione palestinese ha fissato scadenze che il governo di Benjamin Netanyahu ha ignorato.  In Afghanistan e in Iraq vuole al tempo stesso il ritiro delle truppe americane e la stabilità politica dei due paesi: obiettivi difficilmente conciliabili. Sappiamo che voleva cambiare gli aspetti più discutibili della politica del suo predecessore, diminuire le spese militari, abbassare la soglia dell’interventismo americano negli affari mondiali, ridurre i poteri di Wall Street, aggiungere con la riforma sanitaria un tassello importante all’architettura dello stato assistenziale americano. Ma il quadro resta piuttosto incerto e confuso. Oggi, a quasi tre anni dall’inizio del mandato, Obama non piace né alla sinistra liberal e progressista, né alla tradizionale destra repubblicana.
Ho scritto «tradizionale» perché il confine tra le due maggiori forze politiche del paese è stato spostato dall’esistenza di una nuova destra populista e libertaria (il movimento del Tea party) che si è servita dello scontro sul tetto del debito pubblico per  una battaglia ideologica contro la natura dello stato americano. Il Tea party non vuole soltanto la morte politica di Obama. Vuole soprattutto ridurre drasticamente la presenza dello stato nella società e spera di raggiungere lo scopo imponendogli una severa cura dimagrante. Mentre Obama e la destra tradizionale cercavano di trovare il giusto mezzo tra riduzione della spesa pubblica e livello dell’imposizione fiscale, il Tea party voleva chiudere contemporaneamente il rubinetto della spesa e quello del gettito.
Quali sarebbero gli effetti di una tale politica sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo? Non credo che questa domanda preoccupi i dottrinari del Tea party. La nuova destra è l’ultima incarnazione di un’America puritana nel campo dei costumi sessuali, libertaria in economia e soprattutto isolazionista, vale a dire convinta che questo grande paese debba voltare le spalle alle cose del mondo e occuparsi soltanto di se stesso. Se le cose sono in questi termini la crisi provocata dal tetto del debito non è soltanto materia  di lavoro per i ministri dell’Economia dell’Unione Europea. È anche e soprattutto materia per i suoi ministri degli Esteri e capi di governo. Sergio Romano per Panorama

RIVOGLIAMO L’AMERICA CHE NON SI VERGOGNA DI UN PRESIDENTE COWBOY

Pubblicato il 8 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

La crisi di leadership c’è, il suo indirizzo è la Casa Bianca di Obama. Dopo la decisione storicamente inaudita di Standard & Poor’s, una A in meno e previsioni negative per le finanze americane, i cinesi hanno letteralmente preso a schiaffi gli americani. Gli hanno detto che sono spendaccioni, e che a Pechino vogliono garanzie serie per i titoli in dollari nelle loro mani, ma glielo hanno detto con un sovrappiù di disprezzo senza precedenti, insomma una rampogna aspra e per loro, concorrenti strategici sempre in crescita, goduriosa. Potevano farlo, visto che avevano appena brindato per i tagli al Pentagono, un ridimensionamento netto della capacità di comando degli Stati Uniti nel mondo, il primo di due colpi micidiali a quel possibile ordine mondiale da sempre imperniato sulla forza imperiale americana.
Alla fine del secondo mandato di George W. Bush, il cui consenso domestico si era progressivamente incrinato, America e mondo occidentale subirono gli effetti di una crisi da crescita fatta di follie della finanza privata legata, anzi impiccata, ai debiti collegati ai farlocchi incrementi esponenziali di valore degli immobili: improvvisamente niente liquidità e recessione, logica dei salvataggi di Stato incentivata dal fallimento sinistro della Lehman Brothers, esplosione del debito privato delle famiglie convertito nel tempo in debito pubblico (causa prima del finale colpo d’artiglio di Standard & Poor’s). Era l’autunno del 2008, l’America era cresciuta per anni a ritmi vertiginosi sul fondamento di un ruolo sempre decrescente dello Stato fiscale, Wall Street aveva divorato con la nota voracità sia il ricordo della bolla tecnologica, la «new economy» che ha fatto più morti e feriti di una guerra persa, sia la memoria dolente dei tremila ammazzati delle Twin Towers. Alla base di quella fase di prosperità, che ovviamente incubava nuove possibilità di crisi, c’era una leadership univoca, forte, neoreaganiana, con le sue scelte di ordine mondiale (Afghanistan, Irak, guerra al terrorismo, unilateralismo strategico). Nel pieno della tempesta l’oracolo di Omaha, il grande finanziere Warren Buffet, investì cinque miliardi di dollari nella Goldman Sachs, e nel giro di tre anni Dio solo sa quanto abbia guadagnato. Perché quella dell’autunno del 2008 era una crisi da eccesso di ricchezza alla Schumpeter, distruzione creativa, mentre quella di questi mesi sembra proprio essere la crisi di un capitalismo impoverito, senza energia, senza una bussola, incapace di far funzionare il meccanismo del fallimento e dunque succubo di tutti i fallimenti da salvare.
Obama non ha fatto cose soltanto negative. È un solido liberal della scuola politica di Chicago. Sa come muoversi a Washington. Su Guantanamo e sulla caccia a Bin Laden è stato di molto superiore alla sua retorica della mano tesa verso l’islam. Ma la sua epica del consenso interno, la sua incapacità di decidere presto e bene, assumendosi rischi seri, sono le concause evidenti del nuovo tremore e terrore che attraversa i mercati, con gli speculatori (ma anche gli investitori e i risparmiatori) sul piede di guerra intorno ai fronti della crescita, insufficiente, e dell’indebitamento euro-americano, a livelli mai visti prima. I risultati sono quelli che sono, e non si dà un declassamento così sorprendente, nonostante la disputa sugli errori di calcolo dell’agenzia di rating e le scelte diverse delle altre agenzie, senza una precisa responsabilità del capo dell’esecutivo.
Il problema che ci angustia, che mette in pericolo risparmi e capitali e lavoro, che ha fatto risalire le quotazioni del partito della patrimoniale, la botta secca che ti fa restare come prima e ti evita le riforme serie, è che le forze di mercato trovano molle, sono fronteggiate anche in Europa da decisioni miopi, lente, da coalizioni di interessi che non hanno un raccordo comune e si scontrano tra loro (il fallimento greco sarebbe stato salvifico se non ci fossero andate di mezzo le banche tedesche e inglesi). D’altra parte il principale difetto di Obama è di essere un leader all’europea, uno che i veri applausi se li è guadagnati con il comizio al Tiergarten di Berlino, gli mancano gli stivaletti da cowboy, il passo ispirato dell’americano che ha fiducia in sé e in nessun altro. Non sottovaluto i pregi di un presidente elegante e cosmopolita, ma ho una nostalgia canaglia di Bush, dei tagli fiscali in profondità e della crescita americana al 4 per cento. C’è crisi e crisi, questa è particolarmente avvilente. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 8 agosto 2011

SIRIA: L’ESERCITO SPARA SULLA FOLLA CON I CARRI ARMATI

Pubblicato il 31 luglio, 2011 in Politica estera | No Comments »

I blindati dell’esercito siriano entrati all’alba ad Hama, una delle città simbolo della rivolta in Siria, e hanno compiuto un «massacro»: 100 morti, secondo testimoni diretti, 61 secondo la Cnn, 45 per l’osservatorio siriano per i diritti umani. Quel che è certo è che le granate dei carri armati hanno iniziato a colpire la città 210 chilometri a nord di Damasco con un ritmo di quattro al minuto e i militari hanno sparato a casaccio con le mitragliatrici pesanti contro la gente, travolgendo le barricate erette dagli abitanti. Il risultato sono i corpi di decine di persone, tra le quali donne e bambini, abbandonati per le strade e gli ospedali pieni di feriti, secondo quanto riferito da Abdel Rahmane, presisente dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. Ma non solo: i cecchini dell’esercito, riferisce sempre Rahmane, si stanno appostando sui tetti dell’edificio della compagnia elettrica e della prigione.
Un testimone diretto ha riferito di aver assistito ad un vero e proprio «massacro», i morti, ha assicurato, «sono oltre 100». Secondo una tattica tipica delle operazioni di repressione del regime, dall’alba sono state inoltre tagliate acqua ed elettricità nei principali quartieri di Hama. La città paga così un prezzo altissimo per essere diventata uno dei simboli della rivolta e il centro delle manifestazioni ormai quasi permanenti, dove fino a 55 mila persone sono scese in piazza nei mesi scorsi. Hama in realtà era assediata dall’esercito siriano da circa un mese, ma questa mattina sono entrati in azione i tank e le forze di sicurezza intenzionate a stroncare la protesta anti regime alla vigilia del Ramadan. Gli abitanti si erano organizzati con barricate e fortificazioni artigianali, ma è servito a poco di fronte ai carri armati del regime.
Hama è città simbolo della lotta contro il regime in Siria da quando, nel 1982, la durissima repressione di una rivolta ispirata dal movimento dei fratelli musulmani – bandito nel Paese – contro l’allora presidente Hafez al-Assad, provocò la morte di 20mila persone, a inizio mese la città era stata visitata in segno di solidarietà dall’ambasciatore americano Robert Ford. Ansa, 31 luglio 2011

.….E’ una cronaca che ci rimanda indietro di 30 o 40 anni, quando i sovietici reprimevano nel sangue l’anelito alla libertà dei popoli soggiogati dall’impero del male. Invece è la cronaca di poche ore fa, in Siria, l’ultimo avamposto del comunismo reale, dove l’erede di una famiglia di satrapi sanguinari sta tentando di reprimere la voglia di libertà e di democrazia di un popolo che vive in miseria e pur tuttavia è permeato di passione e  di coraggio. Ma non bastano. Occorrerebbe che in suo aiuto accorresse il mondo libero, in primo luogo il popolo europeo, il popolo dell’Europa occidentale,  magari lo stesso che pochi mesi fa in una sola notte ha scatenato una guerra di morte e di distruzione contro la Libia per “salvarla” da Gheddafi. Quell’Europa libera che però di fronte al massacro del popolo siriano,  gira la testa dall’altra parte, fa finta di non vedere e di non sapere del genocidio che è in atto a poche migliia di chilometri dal luoghi sacri della libertà, si chiamino Arco di Trionfo a Parigi, Trafalgar Square a Londra, Porta di Brandeburgo a Berlino, Quirinale a Roma. Già, ci domandiamo dov’è il capo del Qurinale, lo stesso che volle, fortissimamente volle, la guerra contro la Libia, dov’è l’on. Napolitano del quale sinora non si ha notizia di messaggi e di sollecitazioni al nostro ministro della guerra ad armare i bolidi dell’Aereonatica Militare per porre fine al massacro del popolo siriano. Forse che il popolo siriano non merita altrettanta solidarietà di quello libico, forse che il popolo siriano non ha il diritto di essere sottratto alla sanguinosa repressione di cui è oggetto nella sua Patria?  L’Italia che ha festeggiato i 150 anni di unità nazionale e i 150anni di libertà e di democrazia non  può, non deve, sottrarsi all’obbligo morale di aiutare il popolo siriano. g.