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ORRORE: IMPICCATO A GAZA IL VOLONTARIO ITALIANO VITTORIO ARRIGONI. IL CAPO DELLO STATO SI FA INTERPRETE DELLO SDEGNO DELL’ITALIA

Pubblicato il 15 aprile, 2011 in Politica, Politica estera | No Comments »

Vittorio Arrigoni, volontario italiano rapito a Gaza Vittorio Arrigoni è stato “impiccato” dai suoi rapitori, i salafiti della Brigata dei Valorosi Compagni del Profeta Mohammed bin Moslima: lo ha riferito l’ufficio stampa di Hamas, il gruppo radicale palestinese che controlla la Striscia di Gaza, sul cui territorio è stato rinvenuto il cadavere del 36enne pacifista e free-lance italiano. In un comunicato il movimento di resistenza islamico ha denunciato “il criminale sequestro e omicidio di un attivista italiano per la solidarietà” e ha reso noto che il suo corpo è stato “ritrovato dalle forze di sicurezza appeso in una casa abbandonata” nel settore settentrionale dell’enclave palestinese.

In un video su YouTube, i sequestratori minacciavano di ucciderlo nel giro di “trenta ore”, quindi entro le 17 locali, le 16 italiane, se non fossero stati scarcerati il loro leader, lo sceicco Hisham al-Souedani, e un imprecisato numero di altri compagni. In realtà, Arrigoni sarebbe stato assassinato poco dopo la cattura, forse dopo appena tre ore. Nella drammatica ripresa si mostrava in primo piano il volto dell’ostaggio, trattenuto e tirato per i capelli da una mano fuori campo: il viso di Arrigoni, bendato con un’ampia fascia nera, appariva tumefatto e sanguinante, con una vistosa ecchimosi attorno l’occhio destro

IL MESSAGGIO DI NAPOLITANO ALLA FAMIGLIA «Ho appreso con sgomento la terribile notizia della vile uccisione di suo figlio Vittorio a Gaza. Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili. La comunità internazionale tutta è chiamata a rifiutare ogni forma di violenza e a ricercare con rinnovata determinazione una soluzione negoziale al conflitto che insanguina la Regione». È il messaggio inviato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla madre di Vittorio Arrigoni, Egidia Beretta.
«Esprimo a lei e alla sua famiglia, in quest’ora di grande dolore, i sensi della mia più sincera e affettuosa vicinanza e del più grande rispetto per il generoso impegno di suo figlio», ha aggiunto Napolitano. Il Corriere della Sera, 15 aprile 2011

L’ESERCITO EGIZIANO PER SALVARSI GETTA MUBARAK IN PASTO ALLA FOLLA

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Davanti alla marea montante in piazza che accusa con forza l’esercito egiziano di fare parte del vecchio regime e di essere altrettanto repressivo, il maresciallo di campo Mohammed Hussein Tantawi ha compiuto la sola mossa che restava a sua disposizione: ha fatto arrestare l’ex presidente Hosni Mubarak e i suoi due figli per interrogarli con l’accusa di corruzione e di abuso di potere.

Ieri l’ex rais ha avuto un malore – le sue condizioni di salute sono pessime da almeno due anni – ma ugualmente sarà trasferito dalla sua villa di Sharm el Sheikh verso un ospedale del Cairo. Il ministro della Giustizia, Mohammed el Guindi, dice che gli interrogatori riprenderanno accanto al suo letto, segno che l’ex presidente in questo momento potrebbe non stare così male, ma non ci sono notizie precise. L’incertezza sullo stato di Mubarak è un riflesso degli anni del suo potere, quando anche soltanto nominare l’argomento era proibito: nel 2007 un famoso direttore di giornale, Ibrahim Eissa, fu condannato a sei mesi di carcere pr avere violato questo ennesimo codice del silenzio.

Alaa e Gamal, i due figli, lo hanno preceduto in manette a bordo di un piccolo convoglio militare che si è fermato nella prigione di Tora. Un gruppo di fedeli del regime ha bombardato con sassi e bottiglie i poliziotti incaricati dei tre trasferimenti. L’ordine di detenzione per 15 giorni è stato pubblicato sulla pagina Facebook della procura generale, aperta per facilitare le comunicazioni e la trasparenza dal tribunale e con gli egiziani – e soprattutto con i familiari delle vittime morte negli scontri di piazza durante i giorni della ribellione, ma anche per blandire lo spirito libertario e tecnologico della ribellione dei giovani.

Fino a quattro mesi fa il regime sembrava così saldo che il passaggio di poteri era quasi dato per certo a favore di Gamal. Le ambizioni politiche dell’ex banchiere formato a Londra erano state però subito sacrificate durante i primi giorni della rivolta, quando ancora la situazione sembrava controllabile: non tira aria, aveva detto Mubarak al figlio, sarà meglio non parlare più della tua ex certa candidatura per placare la gente nelle piazze. Ora Tantawi si è comportato con il padre secondo lo stesso schema: meglio farti saltare come se tu fossi un fusibile di sicurezza messo tra noi e la rabbia popolare. Il generale non poteva più ignorare i segni d’allarme. Venerdì scorso  una gigantesca manifestazione in piazza Tahrir al Cairo aveva investito direttamente il ruolo di Tantawi, per molti anni ministro della Difesa di Mubarak: “Con chi stai, con noi o ancora con lui?”. I manifestanti hanno inscenato un finto processo a carico del rais. Mustapha Kamel al Sayyid, professore di Scienze politiche all’Università americana del Cairo, spiega che la piazza piena è stata “un ultimatum. Se l’ex presidente non fosse stato interrogato, ci sarebbe stata una escalation”. Ma nonostante la presenza numerosa dei Fratelli musulmani, l’arresto di ieri “è una vittoria dei gruppi laici. Sono stati loro, la settimana prima, a cominciare a imporre la questione e a richiamare gente”.

L’intimidazione brutale da parte dei soldati contro una protesta di femministe – sottoposte a un test per provarne la verginità – il mese scorso e l’arresto recente di un blogger per avere criticato le Forze armate su Internet non rassicurano nessuno sull’atteggiamento dell’esercito, che nei giorni della deposizione di Mubarak era circondato da un alone eroico ma adesso – almeno fino all’arresto di Mubarak – sta deludendo le attese. Ora la mossa potrebbe aver funzionato, ma all’esterno suonerà come un avvertimento per i regimi in bilico nel resto del mondo arabo, dallo Yemen alla Siria al Bahrein. Lasciare il potere non basta, dopo vengono il processo e la possibile incriminazione.

.…………Non sappiamo, nessuno sa, se Mubarak nel corso dei 30 anni di potere gestito essenzialmente con l’appogggio e il sostegno delle Forze Armate da cui proveniva, abbia commesso crimini o si sia arricchito. O se ciò hanno fatto i suoi figli, uno dei quali era destinato alla successione come avviene nelle monarchie o nei regimi totalitari. Lo si saprà.  Però un merito Mubarak ce l’ha e nessuno potrà mai disconoscerglielo: è’ stato lui e il suo geverno che hanno  contribuito a creare le condizioni di parziale stabilità in un’area del Mediterraneo sconvolta dallo scontro tra Israele e Paesi arabi e dalle azioni terroristiche degli estremisti islamici. E’ stato Mubarak che a capo di una Nazione araba e religiosamente antiebraica  per quasi 30 anni si è trasformato nell’alleato più fedele dell’Occidente e nella trincea avanzata contro il terrorismo antioccidente. Non lo si può e non lo di deve dimenticare. Come non va dimenticato che sebbene ne abbia avuto la possibilità, come Ben Alì in Tunisia, Mubarak non ha abbandonato l’Egitto, non è fuggito con il “tesoro” in accoglienti rifugi  che di certo l’avrebbero ospitato…Mubarak  si è dimesso, evitando bagni di sangue e guerre civili come sta accadendo in Libia, ed  è rimasto in Egitto, insieme ai suoi figli, forse  anche in virtù di una qualche promessa che i “suoi” generali e qualche Potenza grata per la trentennale alleanza gli avranno fatto. Promessa  che evidentemente non è stata mantenuta se all’ex presidente e ai suoi stessi figli è stata riservata l’onta delle manette  e la cosiddetta custodia cautelare. Una brutta pagina e, come scrive il Foglio quest’oggi, un brutto messaggio per i tanti dittatori sparsi nel mondo che visto il precedente, difficilmente rinunzieranno al potere senza  spargere sangue innocente. g.

L’EURORETORICA FA SOLO DANNI, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 12 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Uno degli immigrati naufragati soccorsi nel porto di Lampedusa L’Europa si sta suicidando, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Ho sostenuto la necessità di concedere un permesso temporaneo ai profughi del Nord Africa, non per recitare la parte dell’umanitarista progressista, ma per stanare definitivamente le reali posizioni dell’Ue sul tema dell’immigrazione. Missione compiuta: da ieri sappiamo che l’Europa come forum di consultazione, condivisione e soluzione dei problemi sociali e demografici è una finzione. Esistono le politiche nazionali di Francia e Germania, a cui si sono accodati gli altri Paesi nella speranza di poter scaricare sull’Italia un problema titanico come la caduta dei regimi del Nord Africa e la migrazione biblica di uomini, donne e bambini in cerca di un mondo migliore. Siamo davanti al trionfo dell’egoismo e dell’arroganza di Parigi e Berlino. Sarkozy e Merkel perdono consensi, hanno il fiato delle destre nazionaliste sul collo. Sono leader all’ultimo giro di giostra. Al posto del governo italiano non cadrei nel tranello di varare una politica spietata di respingimenti: un minuto dopo la stessa Europa tartufesca e ignobile che erige muri di filo spinato, spiccherebbe una nota di condanna per violazione dei principi umanitari. In questi casi, noi italiani dobbiamo far tesoro della storia, ricordare di essere la patria di Machiavelli e applicarne la lezione: «E Francesi per natura sono più fieri che gagliardi o destri; e in uno primo impeto chi può resistere alla ferocità loro, diventono tanto umili, e pèrdono in modo l’animo che diventono vili come femmine».

È ora di abbandonare la dannosa euroretorica e cominciare a dire no ai parrucconi di Bruxelles. Rimpatriamo questa Europa ’che senza l’Italia non esiste neppure come espressione geografica.  Mario Sechi, Il Tempo, 12 aprile 2011


BERLUSCONI: SE L’UE NON ESISTE, DIDIDIAMOCI.

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Il premier: “Se l’Ue non esiste dividiamoci”

«Un problema europeo». Silvio Berlusconi torna a Lampedusa e punta ancora una volta il dito contro l’Ue. La questione immigrazione, spiega infatti il Cavaliere, deve essere affrontata in sede comunitaria e con la partecipazione di tutti gli Stati membri. Un affondo, quello del premier, senza prese di posizione polemiche nonostante le frizioni delle ultime settimane non solo con Bruxelles ma anche con Parigi e Berlino. Ma comunque piuttosto netto, soprattutto perché arriva alla vigilia del Consiglio Gai – quello che riunisce i ministri dell’Interno dell’Ue – che si terrà domani a Bruxelles. Occasione in cui l’Italia proverà a ribadire – probabilmente senza successo vista la freddezza delle altre delegazioni – la necessità di risorse finanziarie aggiuntive per i Paesi più esposti. Secondo Berlusconi, infatti, il problema non è tanto «per gli immigrati clandestini che sono arrivati» ma «soprattutto per quelli che arriveranno» visto che la guerra in Libia va avanti. Insomma, «bisogna fare i conti con la realtà e con il fatto che l’Europa o è qualcosa di vero e di concreto oppure non è». «E allora – aggiunge il capo del governo – meglio ritornare a dividerci e ciascuno a inseguire le proprie paure e i propri egoismi».
Il premier parla anche dei rapporti con Francia e Germania. Quanto a Nicolas Sarkozy, dice, «buon senso vorrebbe che si raggiungesse presto un accordo» perché Parigi «deve rendersi conto che l’80 per cento di questi migranti dichiarano di voler raggiungere parenti e amici in Francia». Il Cavaliere, invece, è ottimista per quel che riguarda le perplessità tedesche sui permessi. E si dice sicuro che «la cancelliera Merkel non potrà che convenire sulla necessità di una politica di compartecipazione europea» nell’affrontare quello che è uno «tsunami umano». Secondo il premier, infatti, alcune prese di posizione sono motivate «da ragioni interne» legate al consenso dei propri elettori «ma poi alla fine si deve fare il confronto con la realtà».
Accolto tra gli applausi durante la sua visita a Lampedusa – prima è andato al molo che per giorni è stato occupato dai tunisini, poi al caffè storico dell’isola e infine alla spiaggia dei Conigli – Berlusconi rassicura i lampedusani («da lunedì cominceranno due voli regolari al giorno per il rientro in Tunisia») e non fa mistero del fatto che il piano del governo punta soprattutto sul «fattore psicologico» per fermare gli arrivi dal Nordafrica. «Immagino che quando in Tunisia si sarà venuti a conoscenza dei rimpatri da Lampedusa – spiega il premier – tutti coloro che hanno intenzione di venire qui si domanderanno se ne valga la pena. Credo non ne valga la pena». Il Cavaliere si dice poi convinto che il piano dell’esecutivo «ha trovato attuazione». «L’isola – spiega – si è svuotata da migranti cosiddetti residenti. Ad oggi ci sono quasi 600 persone, 250 somali ed eritrei, 350 tunisini. I tunisini accolti nel centro di prima accoglienza, da lunedì cominceranno i voli regolari, due al giorno, per il rientro in Tunisia». Anche gli ultimi arrivati – ieri sono infatti ripresi gli sbarchi a Lampedusa – saranno dunque rimpatriati.Berlusconi assicura poi che andrà avanti il «piano di promozione straordinaria» per l’isola con «un decreto per la moratoria fiscale». E «nel prossimo Consiglio dei ministri chiederemo la candidatura per Lampedusa per il Nobel della pace». C’è spazio anche per la querelle sulla villa acquistata sull’isola dal Cavaliere. «Ecco il contratto, la casa l’ho già acquistata», dice Berlusconi mostrando alle telecamere i documenti del l’acquisto – ancora non perfezionato – di Villa delle Palme. «Lo ha sottoscritto l’amministratore della mia società e la parte venditrice. Al momento del rogito – spiega – i proprietari non hanno potuto esibire l’atto di provenienza perché l’immobile sorge su terreno demaniale. La cosa, però, non è un problema perché potranno chiedere l’affrancamento pagando il dovuto». L’atto notarile, dunque, sarebbe rimandato solo di qualche settimana. «Mi ero impegnato ad essere lampedusano e tra poco lo sarò».

BERLUSCONI BATTE SARKOZY

Pubblicato il 2 aprile, 2011 in Politica, Politica estera | No Comments »

L’Europa boccia la Francia

Il Premier Berlusconi accoglie a Villa Madama il primo ministro Nicolas Sarkozy E alla fine toccò pure all’Unione europea. Uno schiaffo alla Francia e un aperto sostegno all’Italia. La commissaria Ue agli affari interni Cecilia Malmstrom ha infatti ammonito la Francia sui respingimenti alle sue frontiere, non può farlo perché i confini nello spazio di libera circolazione di Schenghen non esistono più. Dunque, è un aiuto non da poco nella guerra militare, diplomatica, e adesso anche sul fronte dell’immigrazione che si è aperta tra Italia e Francia visto che da settimane i francesi hanno bloccato la frontiera di Ventimiglia e rimandano sulla Penisola qualunque immigrato nord africano prova a varcare la soglia tra i due Paesi.

Il Cavaliere fa di più, si spinge oltre. Chiama il presidente della commissione Europea, Josè Manuel Durao Barroso. Nella nota che viene diffusa da palazzo Chigi si fa sapere anche che «i due presidenti hanno concordato sul fatto che l’emergenza in corso è un problema che riguarda tutta l’Europa e che, come tale, deve essere affrontato e risolto a livello europeo. In questo contesto, il presidente Barroso ha ribadito l’impegno della Commissione a una più fattiva solidarietà verso l’Italia». E il ministro dell’Interno Roberto Maroni fa sapere che si sta pensando alla possiibilità di «concedere un permesso di soggiorno temporaneo per i migranti che vogliono fare ricongiungimenti familiari. È un modo per fare capire all’Europa che, di fronte al diniego totale di collaborazione, abbiamo uno strumento legislativo per attuare principio di solidarietà. Chi vuole andare in Francia e Germania non possiamo trattenerlo in Italia». Berlusconi assesta così due colpi a monsieur Nicolas Sarkozy proprio nel momento di massima tensione tra i due Paesi.

D’altro canto il premier italiano aveva detto chiaro e tondo già in mattinata come stanno le cose. E aveva avvertito: sulle coste del nostro Paese è in arrivo «uno tsunami umano». Non solo, ma aveva chiesto chiaramente alla Tunisia un impegno per i rimpatri. L’Italia, da parte sua, è ancora disposta ad aiutare Tunisi anche sul piano finanziario, «a fronte dell’impegno a fermare l’uscita illegale di loro cittadini dal loro Paese» e aveva spiegato che l’Italia si è impegnata «in linee di credito ed equipaggiamenti a forze di polizia impegnate nel controllo per un valore vicino ai 100 milioni dalla metà del mese di aprile». Quindi aveva ammonito: «Anche l’Europa deve intervenire e dare il suo apporto noi continuiamo a esercitare pressioni sulla Commissione europea. Nell’ultima riunione abbiamo fatto introdurre l’impegno di un intervento diretto nei confronti dei Paesi che sarebbero stati toccati da questa immigrazione».

Toni forti nella conferenza stampa dopo la prima riunione della cabina di regia convocata con gli enti locali. Riunione che aveva immediatamente subito il primo blocco: le Regioni infatti dicevano un secco «no» alle tendopoli e chiedevano al governo di «gestire l’emergenza con senso delle istituzioni». Se ne riparlerà martedì mattina, Berlusconi volerà il giorno prima a Tunisi. In soccorso del governo arriva anche la Chiesa. Il vescovo Mariano Crociata, che è anche il segretario della Cei, spiega che per far fronte all’emergenza di questi giorni, «la Caritas ha individuato 2500 posti in 93 diocesi. Duecento dei quali in una struttura dell’arcidiocesi di Agrigento, che con l’isola di Lampedusa è la diocesi più impegnata». Avverte «come l’individualismo non ci fa andare avanti, è sbagliato anche tra di noi e non solo verso questi uomini che arrivano fuggendo al rischio di morire, persone in pericolo di vita già nei Paesi da dove partono e poi nel viaggio».

Poi, più in generale, monsignor Crociata insiste: «Non possiamo chiudere gli occhi di fronte al volto del prossimo disperato, non possiamo renderci sordi all’appello di chi vive nel bisogno estremo. Purtroppo ho osservato reazioni varie, persino contraddittorie, che dicono che la cultura dell’accoglienza ancora deve crescere».

Intanto, il Consiglio Episcopale fa suo l’auspicio del cardinale presidente Angelo Bagnasco che in Libia «si fermino le armi», anche perché – spiega Crociata – «sono i civili, deboli e inermi, i più esposti di fronte a un intervento armato prolungato». Da parte francese, un rigoroso (e forse imbarazzato) silenzio. Soprattutto per la reprimenda della commissione europea. Vale dunque quello che aveva rimarcato Parigi due giorni fa, ovvero facendo notare come a parere del governo transalpino «gli immigrati in situazione irregolare devono essere rimpatriati nei loro Paesi di origine a partire dal Paese nel quale sono entrati nello spazio Schengen. Noi applichiamo semplicemente il diritto, come definito negli accordi Schengen, la convenzione di Dublino, e l’accordo bilaterale di riammissione bilaterale di Chambery», firmato nel 1997 dai governi di Italia e Francia. La posizione ufficiale era stata messa a punto dal portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero dopo le critiche di Frattini.

Ieri il nostro ministro degli Esteri, dopo la presa di posizione della Ue, si gloriava: «Abbiamo registrato con soddisfazione un passo dell’Ue, con il commissario Malmstrom che ha ricordato alla Francia quali siano gli obblighi di solidarietà europea. Ci auguriamo che la Francia cambierà atteggiamento». Fabrizio dell’Orefice, Il Tempo 2 aprile 2011

…………….Alla lunga ha avuto ragione Berlusconi nei confronti della Francia e a dirlo non è stata la stampa amica del Cavaliere ma L’Unione Europea che ha ammonito la Francia a stare nelle regole. Intanto, a proposito della difesa umanitaria, dalla Libia arriva una notizia che se non riguardasse la morte di 15 persone, farebbe ridere. I ribelli libici, per aiutare i quali (si fa per dire) Francia e Gran Bretagna hannmo armato i loro bombardieri per sganciare bombe e missili sulla Libia,  hanno denuciato ieri che gli aerei alleati hanno sparato bombe e missili sugli stessi ribelli provocando la morte di 15 personfra gli stessi ribelli. Insomma un caso di “fuoco amico” che però dimsotra che le bonbe quando vengono sganciate non si sa dove vanno a colpire. Alla faccia della difesa umanitaria dietro la quale Sarkozy e Cameron hanno nascosto le vere ragioni dell’inmtervento armato, cioè impossessarsi delle immense ricchezze della Libia, e poco importa che per farlo hanno arruolato gli ex sodali di Gheddafi, generali e ministri,  che, pare, siano stati purificati e resi compatibili con la democrazia. Intanto in Siria dopo le parole rassicurandi di Assad il giovane la polizia ha ripreso a sparare sui manfistanti inermi. Si attende trepidanti che Francia e Gran Bretagna impugnino le loro armi anche per assalire la Siria……g.

LIBIA: PER LA RUSSIA L’INTERVENTO NON E’ AUTORIZZATO DALL’ONU

Pubblicato il 28 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

La Russia si mette di traverso sulle missioni della coalizione alleata in Libia: per Mosca l’intervento della coalizione nella guerra civile non è stato autorizzato dalla risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov: «Noi consideriamo che l’intervento della coalizione in quella che è essenzialmente una guerra civile interna non è stato autorizzato dalla risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu», ha dichiarato il capo della diplomazia russa, ribadendo comunque che la difesa della popolazione civile «resta la nostra priorità». La decisione della Nato di assumere il comando delle operazioni in Libia rispetta la risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza dell’Onu ma il suo unico mandato – ha aggiunto Lavrov – deve essere quello di proteggere la popolazione civile.

LA MEDIAZIONE TURCA – Intanto, dopo la formalizzazione del passaggio alla Nato del comando di tutte le operazioni militari legate al rispetto della risoluzione 1973 dell’Onu, ovvero l’embargo, l’istituzione della no fly zone e la protezione dei civili dagli attacchi delle truppe governative, la Turchia si offre come mediatore per raggiungere «prima possibile» un cessate il fuoco tra le parti per evitare che la Libia si trasformi in un nuovo Iraq o Afghanistan. Lo ha dichiarato in un’intervista al britannico Guardian il premier turco Recep Tayyip Erdogan, che ha rivelato come siano già in corso contatti con i delegati di Gheddafi ed esponenti del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi. Non solo. Erdogan riferisce che la Turchia, in accordo con la Nato, sta per assumere il controllo del porto di Bengasi per la gestione degli aiuti umanitari. Erdogan chiarisce che intende agire «nella cornice delle indicazioni della Nato, della Lega Araba e dell’Unione Africana». «Al momento è in corso una guerra civile in Libia e noi dobbiamo porvi fine», ha dichiarato il premier turco. I ribelli: «Presa Sirte».

ATTESA PER IL VERTICE DI LONDRA – Sempre sul fronte diplomatico c’è anche attesa per il summit di martedì a Londra. Il ministro degli esteri italiano Frattini, anticipando i temi dell’incontro, ha detto che «nostro dovere istituzionale è eliminare le distanze, trovare una soluzione condivisa non solo tra i quattro più grandi paesi europei, ma con tutti» gli alleati. Secondo il capo della diplomazia, chiamato a commentare le divergenze con la Francia, «qualunque strategia politica divisiva» sulla crisi libica è «destinata a fallire». «Qualunque strategia politica divisiva sarebbe destinata a fallire – ha proseguito – ma le idee italiane, francesi e tedesche dovranno tutte confluire in un piano che, domani a Londra, potremo elaborare per dare una risposta: questa missione è il mezzo e non il fine» Il Corriere deklla Sera, 28 marzo 2011

IL REGIME DI DAMASCO REPRIME LA RIVOLTA. ORA SARKOZY BOMBARDERA’ ANCHE ASSAD?

Pubblicato il 26 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

l regime di Damasco reprime la rivolta. Ora bombardiamo anche Assad?

Il grande successo delle manifestazioni antiregime in Siria, e la ferocia della repressione messa in atto dal fratello di Bashar el Assad, Maher al Assad, che comanda la Guardia presidenziale, rischiano di porre Nicolas Sarkozy e la sua “dottrina” di intervento in una posizione scabrosa. “Ogni dirigente, in particolare quelli arabi, deve capire che la reazione della comunità internazionale e dell’Europa d’ora in poi sarà ogni volta la stessa – ha detto il presidente francese – Saremo dalla parte delle popolazioni che manifestano senza violenza e che non devono essere represse con violenza. Non c’è alcuna ragione per fare una differenza sulla questione”. Concetti simili, ma in forma meno minacciosa, sono stati espressi dal segretario americano alla Difesa, Robert Gates: “I siriani devono imparare la lezione dell’Egitto. Damasco ha di fronte la stessa sfida degli altri governi della regione e lo stesso disagio dei loro cittadini”.

Se così deve essere, la Francia dovrebbe prepararsi subito a bombardare anche il bunker di Assad, lo stesso presidente che Nicolas Sarkozy – con immenso scandalo dei generali francesi – volle addirittura al suo fianco sugli Champs-Elysées per la parata del 14 luglio 2009. Ieri, dopo aver realizzato che la protesta cominciata una settimana fa nella città di Daraa si allarga senza sosta, il regime siriano ha preso esattamente la strada evocata dal presidente francese. Le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla e hanno ucciso non meno di trenta manifestanti, come dice il network al Arabiya. Il quadro delle manifestazioni nel paese arabo più poliziesco – al confronto, Egitto, Tunisia e Libia erano paradisi liberali – è indicativo. A Daraa, nonostante lo stato d’assedio (il cordone impenetrabile dell’esercito ha impedito a tutti i giornalisti di avvicinarsi), migliaia di manifestanti si sono diretti verso la casa dell’ex governatore che ha ordinato gli eccidi, hanno dato fuoco alla statua di Hafez el Assad, il padre di Bashar e Maher, e sono stati mitragliati dalle forze di sicurezza. Il bilancio è incerto: su Twitter gira la cifra di 25 morti, ma pare siano meno.

Contemporaneamente, un corteo di tremila cittadini che provenivano da tutti i paesi della regione ha cercato di raggiungere il capoluogo Daraa, ma è stato fermato a Sanamein dal fuoco delle forze di sicurezza, che hanno fatto una quindicina di vittime. Ci sono state manifestazioni anche a Ladhiqiyah e Homs, come mostra un filmato in cui si vedono migliaia di persone (qui il numero delle vittime del fuoco della polizia resta imprecisato); a Hama, la città in cui lo zio di Bashar e Maher, Rifat el Assad, uccise nel 1982 non meno di duemila manifestanti a suon di cannonate; a Qamishli, nel Kurdistan siriano, e ad Aleppo, dove la polizia ha caricato la folla che cercava di radunarsi all’ingresso di una moschea, subito dopo la preghiera del venerdì. Ma ci sono stati scontri persino nel cuore di Damasco: in centinaia hanno protestato nella moschea degli Omayyadi, e tremila persone si sono radunate in una piazza di Duma, sobborgo industriale della cintura urbana, chiedendo il rilascio dei prigionieri e rifiutando “ogni negoziato col governo fino alla caduta del regime”.

Al pugno durissimo si somma – ed è un tratto tipico del regime siriano – la sfacciata negazione di ogni volontà di violenza che segna la versione del regime. Per la portavoce del governo, Reem Haddad, “la polizia non spara cartucce vere contro i manifestanti pacifici; la forza è usata soltanto con chi spara alle forze di sicurezza”. Parlando con una giornalista di al Jazeera, Haddad ha detto che “nessuna manifestazione pacifica è stata vietata; la polizia usa la forza contro chi non è un manifestante, ma va in piazza armato”. Le parole di Sarkozy non sono passate inosservate in Europa. Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha duramente criticato la posizione del presidente francese, preda di evidente agitazione pre elettorale. “Non è una soluzione minacciare i leader arabi di un intervento militare dell’Europa – ha detto il ministro tedesco – Vedo una discussione molto pericolosa con gravi conseguenze per la regione e il mondo arabo nell’insieme”.

FOGLIO QUOTIDIANO, Carlo Panella, 26 marzo 2011


IN SIRIA ( E NON SOLO ) MASSACRANO PIU’ CHE IN LIBIA…MA NON GLIENE PUO’ FREGAR DI MENO A SARKOZY, CAMERON E COMPAGNIA

Pubblicato il 26 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

E’ un gran bel momento per fare il dittatore in Africa e in Medio oriente. A patto di non chiamarsi Muhammar Gheddafi, s’intende. Per i colleghi del rais questi sono giorni di pacchia: con le telecamere di tutto il mondo puntate sulla Libia, a un’ora di volo da Tripoli non si è mai stati così liberi di sparare sulla folla. La dottrina con cui le Nazioni Unite giustificano l’operazione Odyssey Dawn, riassunta nella simpatica sigla «R2P», che sta per «Responsabilità di proteggere» (al Palazzo di Vetro c’è chi è pagato per inventare simili cose), trova applicazione solo all’interno dei confini libici. Al di là di questi, è caccia aperta al contestatore. Così, nel caso qualcuno avesse dubbi sui motivi della guerra di Libia, ora se li può togliere: sono politici, l’afflato umanitario non c’entra nulla.

Nessuno, infatti, ha la minima intenzione di intervenire in Siria. Qui, mentre il presidente Bashar al Assad in televisione parla di riforme, da giorni la polizia spara ad altezza d’uomo sui manifestanti. Ieri, in un sobborgo vicino Damasco, le forze di sicurezza hanno ucciso almeno una ventina di persone. In poche ore i morti sono stati decine in tutto il Paese, tanto che la giornata è già stata ribattezzata «venerdì di sangue». Stessa idea di «dialogo con l’opposizione» che appartiene al presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, il quale una settimana fa, nella capitale Sanaa, ha fatto uccidere dai cecchini appostati sui tetti oltre cinquanta persone. Ieri Saleh si è detto anche disponibile a cedere il potere, ma «in mani sicure e non alle forze dannose che cospirano contro la patria». L’impressione è che a mollare non pensi proprio. Mentre in Bahrein il re Hamad ben Issa Al Khalifa, sostenendo che i manifestanti erano manovrati da un «complotto straniero», ha chiesto ad Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait di mandare le loro truppe per sparare su chi protesta. Richiesta subito accolta. E siccome il piccolo arcipelago del Golfo Persico ospita la Quinta Flotta americana, e gli Stati Uniti ricambiano come possono, chi poteva emettere una condanna internazionale della repressione in Bahrein ha preferito guardare altrove.

Gli insorti potranno consolarsi con il fatto che ieri l’Unione Europea, stando bene attenta a premettere che «la situazione è diversa in ogni Paese» (fosse mai che qualcuno la prende sul serio e si offende), ha espresso nientemeno che «la massima preoccupazione per la situazione in Siria, Yemen e Bahrein», chiedendo «a tutte le parti coinvolte di avviare un dialogo costruttivo e significativo senza rinvii e precondizioni». Le risate dei tre despoti possiamo immaginarle.

Visto allora che nessuno pensa di torcere un capello a chi massacra più e meglio di Gheddafi, e visti anche costi e rischi dell’operazione Odyssey Dawn, sarebbe educato che qualcuno spiegasse cosa stiamo a fare in Libia. Non è un problema solo italiano. Le domande che Libero e qualche altro osservatore pongono da giorni sono le stesse che ieri Peggy Noonan, biografa e ghost-writer di Ronald Reagan, ha fatto a Barack Obama in un editoriale sul Wall Street Journal: «Cosa, esattamente, stiamo facendo? Perché lo stiamo facendo? Sappiamo contro chi siamo – Muhammar Gheddafi, un uomo cattivo che ha fatto cose molto malvagie. Ma sappiamo in favore di chi siamo? Cosa sa o cosa pensa di sapere il governo sulla composizione e le motivazioni delle forze ribelli che stiamo cercando di assistere? Per 42 anni Gheddafi ha controllato le tribù, le sette e i gruppi della sua nazione attraverso la forza bruta, la corruzione e la lusinga. Cosa avverrà quando non saranno più oppressi? Cosa diventeranno e quale ruolo svolgeranno nel dramma che sta per iniziare? La loro ribellione contro Gheddafi degenererà in una dozzina di battaglie separate per il petrolio, il potere e il dominio locale? Cosa accadrà se Gheddafi resiste? E, al contrario, cosa accadrà se Gheddafi cade, se viene deposto da un colpo di stato di palazzo, o viene ucciso, o fugge? Chi, esattamente, immaginiamo che prenderà il suo posto?».
Dalla Casa Bianca, come dagli altri governi coinvolti, a tutte queste domande non è ancora arrivata alcuna risposta. Mal comune, grosso guaio. di Fausto Carioti, LIBERO, 26 MARZO 2011

LIBIA:L’ASSE ROMA-MOSCA-ANKARA LAVORA ALLA MEDIAZIONE CON IL REGIME DI GHEDDAFI

Pubblicato il 25 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

Un caccia francese ha distrutto un jet della famiglia Gheddafi che tentava di violare la “no fly zone” in vigore sui cieli della Libia. Il raid è avvenuto ieri su Misurata ed è stato confermato da fonti americane. Non è l’unico attacco portato a termine dalla coalizione: gli aerei europei hanno sorvolato Tripoli e si sono spinti sino a Sabha, che si trova a 750 chilometri dalla costa. La maggior parte degli obiettivi militari risulta distrutta dopo una settimana di bombardamenti. La flotta aerea di Gheddafi non esiste più, le strade intorno a Bengasi sono pulite e le strutture difensive del regime hanno ormai ceduto.

Ma gli scontri tra l’esercito e i ribelli proseguono da Ajdabiya a Misurata, e i caccia alleati non possono fare molto per fermarli. Questo punto è ben chiaro agli ambasciatori che si muovono da giorni nei corridoi della Nato così come al governo francese, che rimane l’unico, vero sostenitore della guerra contro Gheddafi. Il ministro degli Esteri di Parigi, Alain Juppé, ha domandato pazienza ai partner europei e ha aggiunto che la campagna potrebbe durare “giorni o settimane”. Il numero dei paesi entusiasti cala giorno dopo giorno.

Cresce, al contrario, quello dei governi che si preparano a mediare con Gheddafi – o che hanno già cominciato a farlo. Gli impegni assunti con la Nato non impediscono a Roma di cercare una soluzione diplomatica alla crisi: il capo della Farnesina, Franco Frattini, ha avuto ieri un colloquio con il leader dei ribelli e ha rinnovato il sostegno al cessate il fuoco in Libia.
Sulla stessa linea è la Turchia, che fa parte della Nato e ha un ruolo di leadership nel medio oriente. Pochi giorni fa, il premier Recep Tayyip Erdogan diceva che non avrebbe mai appoggiato un intervento militare, ma l’attivismo di Nicolas Sarkozy lo ha convinto a cambiare opinione. Erdogan ha compreso che l’unico modo per ridurre il peso dei francesi è trasferire il comando delle operazioni al Patto atlantico.

Il governo di Ankara ha garantito quattro navi e un sommergibile alla causa, e il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ha annunciato che la guida delle operazioni passerà alla Nato “nel giro di due giorni” – si studia l’ipotesi di un comando formato dai paesi che contribuiscono alla missione, sul modello Isaf. La Turchia ha ancora diplomatici a Tripoli: i quattro giornalisti del New York Times liberati in settimana dall’esercito sono stati consegnati proprio all’ambasciatore turco, segno che i contatti fra i due governi sono costanti.

Con Italia e Turchia si muove la Russia, uno dei paesi del Consiglio di sicurezza che si sono astenuti al momento di votare la “no fly zone”. Il presidente, Dmitri Medvedev, ha accolto tutte le decisioni della comunità internazionale, ma ha un canale aperto per la mediazione. Mosca ha appena nominato un nuovo inviato nell’Africa del nord, Mikhail Margelov, lo stesso uomo che ha gestito il dossier Sudan. “Non sappiamo se le trattative porteranno risultati – dice oggi Margelov – Quello di cui siamo certi è che la Russia ci può provare”. IL FOGLIO, 25 MARZO 2011

SARKOZY HA PAGATO LE ARMI DEI RIBELLI LIBICI

Pubblicato il 24 marzo, 2011 in Politica estera | No Comments »

Libero-news.it

Era già partita all’inizio di marzo la “guerra umanitaria” di Nicolas Sarkozy contro Muammar Gheddafi. L’inizio delle ostilità si può datare con l’arrivo a Bengasi di un carico di cannoni da 105 millimetri e di batterie antiaeree, camuffato da aiuti umanitari alla popolazione civile. Mittente, il governo francese, che fa accompagnare la spedizione da propri istruttori militari, i quali, non appena toccano terra, iniziano l’addestramento degli insorti.
Non ne fanno mistero, a Parigi. Anche se il settimanale Le Canard enchaîné, che ne dà conto nell’edizione del 16 marzo, nasconde la notizia in una pagina interna. Sotto un titolo che punta tutto sul dissidio fra il presidente della Repubblica, i vertici militari e il ministero degli Esteri, però, il giornalista Claude Angeli informa della consegna del materiale bellico, avvenuta già «da una decina di giorni», da parte del «servizio azione della Dgse», cioè l’intelligence francese.
Dunque, tutto il dispiegamento di arsenale e personale militare si svolge precedentemente alla risoluzione 1973, adottata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 17 marzo, in cui si chiede «un immediato cessate il fuoco» e si autorizza la comunità internazionale a istituire una no-fly zone in Libia e a utilizzare tutti i mezzi necessari per proteggere i civili.
Non stupisce più che il ministro dell’Interno Claude Guéant nei giorni scorsi abbia definito «una crociata» l’azione svolta da Sarkozy in seno all’Onu. Ora dice di essere stato frainteso, che non intendeva bandire la crociata dell’Occidente contro l’Oriente.
Eppure lo ha capito anche Jean-Marie Le Pen: «Accuso il governo francese di aver preparato questa guerra, di averla premeditata», ha dichiarato ieri l’ex presidente del Front National.
Ci stanno ben attenti a Parigi, a rispettare la risoluzione dell’Onu che esclude ogni «forza d’occupazione» e soprattutto a non eccitare gli animi dei musulmani con cui stanno giocando alla guerra santa. Lo sanno perfettamente che l’occupazione del suolo islamico da parte degli infedeli è considerata un sacrilegio, un’onta da lavare col sangue. Le insorgenze in Iraq e in Afghanistan qualcosa hanno insegnato. Perciò ora, insieme alle aviazioni e alle marine militari statunitensi e britanniche bombardano dal cielo e dal mare, ma ufficialmente non mettono piede sul terreno, anche se non si possono escludere incursioni clandestine da parte di commandos, sabotaggi, qualche provocazione. Sarebbe uno spreco rinchiudere la Legione Straniera in caserma, del resto.
Tanto più che, come ha rivelato ieri Libero, l’ex braccio destro del colonnello libico, Nouri Mesmari, in cambio dell’asilo politico, ha messo a disposizione della Francia, già da ottobre, tutte le informazioni necessarie per entrare in azione.
Non è una coincidenza che gli Stati maggiori di Parigi e Londra avessero predisposto da settimane gli scenari d’intervento in Libia. Avevano già scelto anche il nome in codice dell’operazione, South Mistral. Ora la chiamano Harmattan in francese ed Ellamy in inglese, con una variante americana, Odissey Dawn, ma la sostanza è la stessa.
Ed è anche la stessa ipocrisia con la quale i francesi sostengono di agire per portare soccorso alle popolazioni civili. Dimenticano che, quando sono armati, i civili diventano militari. Sono arruolati nella resistenza, che notoriamente non è formata da donne, bambini, vecchi e malati indifesi.
Che i rifornimenti di mortai, mitragliatrici, batterie antiaeree, carri armati e anche qualche velivolo, siano dono della Repubblica francese o provengano dai magazzini dell’esercito libico, in fondo non fa molta differenza. E pare che non ci sia soltanto lo zampino di Parigi, ma anche quello di Londra e del Cairo post-Mubarak.
All’inizio di marzo, un drappello formato da due agenti dell’MI6 e sei incursori delle Sas britanniche avevano già tentato di entrare in contatto con i capi della rivolta di Bengasi. Appena scesi dall’elicottero che li aveva trasportati nella zona di missione, però, gli otto guerrieri erano stati bloccati dai guardiani di una fattoria e consegnati alla resistenza. Interrogati, non avevano svelato nulla ed erano stati poi recuperati e riportati a casa con la fregata HMS Cumberland. Il ministro della Difesa britannico aveva dovuto ammettere che erano sul posto già da tre settimane, ufficialmente per assistere piloti, nel caso in cui fossero stati abbattuti. Ecco perché quello di venerdì 18 marzo non è stato affatto un attacco a sorpresa. Intendevano colpire. E avevano già dispiegato sul campo i loro uomini, come avevano fatto, dopo la caduta di Ben Alì e di Hosni Mubarak, anche i governi di Tunisi e del Cairo, consentendo rispettivamente l’ingresso in Libia di combattenti volontari e di almeno un centinaio di appartenenti alle forze speciali dell’Unità 777 egiziana, inviati per fornire armamenti e appoggio tattico. Quando Gheddafi accusa le potenze straniere di volerlo rovesciare, sa di che cosa, e soprattutto di chi, sta parlando. di Andrea Morigi, Libero, 24 marzo 2011