Archivio per la categoria ‘Politica’

LE DANNOSE PIGRIZIE DEL CENTRODESTRA, di Giovanni Belardelli

Pubblicato il 6 ottobre, 2014 in Il territorio, Politica | No Comments »

Le polemiche costanti entro Forza Italia e tra questa e l’Ncd sono solo l’aspetto più appariscente e superficiale della grave crisi in cui si trova ormai il centrodestra di matrice berlusconiana: una crisi testimoniata sia dalla crescita dei consensi che i sondaggi attribuiscono alla Lega e a Fratelli d’Italia, sia – e soprattutto – dal fatto che l’intero centrodestra non pare in grado di andare oltre Berlusconi. Il leader di FI resta infatti una «risorsa» irrinunciabile dal punto di vista dei consensi elettorali (benché regolarmente calanti) e al contempo un ostacolo insormontabile per qualunque rinnovamento della leadership.

Ma dietro le polemiche contingenti – che si tratti dello scontro tra Fitto e Berlusconi o dell’attacco di Alfano a chi vorrebbe sottrargli senatori – sta soprattutto l’esaurirsi della ragione principale e sistemica che per vent’anni aveva reso possibile a Berlusconi e al centrodestra di collocarsi al centro della politica italiana. Dopo aver proposto nel ‘94, e poi nella pratica rapidamente archiviato, la «rivoluzione liberale» a base di meno tasse e minor presenza dello Stato nella vita dei cittadini, Berlusconi doveva approdare a un partito e a una coalizione di tipo moderato, in cui confluiva anche una parte del personale politico della Prima Repubblica. Si trattava di un moderatismo mai ben definito, che sul piano culturale e ideale non andava molto oltre il richiamo alle posizioni della Chiesa su temi cosiddetti «eticamente sensibili». Peraltro il carattere intrinsecamente individualistico-acquisitivo del messaggio berlusconiano (nonché lo stesso stile di vita del fondatore di Forza Italia) rendevano mai del tutto credibile quel richiamo.

Ma l’indeterminatezza e la contraddittorietà della fisionomia e dei contenuti politici di un centrodestra sempre oscillante tra appello ai moderati e riproposizione della «rivoluzione liberale» delle origini non hanno per nulla ostacolato i ripetuti successi elettorali che tutti ricordano. Il fatto è che quei successi si fondavano su due fattori che prescindevano dagli effettivi programmi politici delle coalizioni di centrodestra. Il primo aveva a che fare con la figura stessa di Berlusconi, che si era presentato nel ‘94 come «uomo nuovo» per antonomasia, imprenditore di successo estraneo ai limiti della vecchia classe politica, capace proprio per questo di una proposta, del tutto nuova per l’Italia, fondata sul rapporto diretto tra il leader e gli elettori.

Come è evidente, l’immagine del ‘94 del dinamico leader «antipolitico» è da tempo diventata improponibile: perché, al di là delle vicende giudiziarie che lo hanno colpito, Berlusconi ha ben vent’anni di attività politica alle spalle e perché, come leader «anticasta», Renzi e Grillo sono più credibili di lui (che oltretutto – anche questo inevitabilmente conta – è vicino agli ottant’anni). S oprattutto, però, è venuto meno l’altro decisivo fattore che stava dietro i successi del centrodestra: il fatto di rappresentare in primo luogo l’antisinistra. Nonostante le molte e ripetute delusioni, prima fra tutte la mancata riduzione del peso delle imposte, milioni di italiani hanno continuato per anni a votare FI o PdL soprattutto per evitare una vittoria della sinistra. Per vent’anni, insomma, il centrodestra ha pigramente goduto di una rendita di posizione e ha potuto limitarsi a sfruttare il carisma di Berlusconi, senza curarsi di definire una fisionomia e una proposta politica per quando il fondatore di FI fosse uscito di scena.

Con la comparsa di Renzi, leader del principale partito della sinistra che però attacca frontalmente la Cgil e dichiara che gli imprenditori debbono poter licenziare, la rendita di cui il centrodestra berlusconiano ha vissuto per tanti anni è scomparsa e con essa qualunque prospettiva politica che non sia di sostanziale subalternità al Pd, stando dentro oppure fuori dell’esecutivo. E certo non sarà con trouvailles come la prossima presentazione, da parte di FI, di cento giovani sotto i 35 anni che le cose potranno cambiare. Giovanni Belardelli, Il Corriere della Sera, 6 ottobre 2014

…..Sul tema, per chi voglia approfondirlo, si consiglia di leggere il saggio di Stenio Solinas, Gli ultimi Mohicani, pubblicato  un anno fa ma assolutamente attuale.  Solinas, intellettuale di destra a tutto tondo, uno dei pochi e sempre fortunatamente fuori dai partiti, nel saggio che emblematicamente  ha come sottotitolo   “Quel che resta della politica” traccia una analisi sullo stato della politica in Italia, dei partiti e in particolare,   a proposito del centrodestra,  l’analisi della crisi che l’investe ormai da anni e che ne sta decretando un ruolo sempre più marginale in un Paese che di centrodestra è sempre stato, spazia a 360 gradi, non limitandosi però a prenderne  solo atto ma indicando anche i possibii correttivi. Ma alla luce degli ultimi avvenimenti che come spesso accade nella politica trasformano le tragedie in farse,  non sembra che l’analisi e sopratutto la terapia di Solinas abbiano trovato cittadinanza lì dove si pretende di rappresentare in maniera totalitaria le ragioni e sopratutto gli interessi del centro destra. Buona lettura. g.

STATO-MAFIA: UN RETROGUSTO AMARO, di Michele Ainis

Pubblicato il 26 settembre, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »

C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.

Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.

Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.

Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui . Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 settembre 2014

……..Retrogusto amaro condiviso, non tanto per la persona quanto per la figura del Capo dello Stato della cui parola scritta si dubita, quasi fosse un qualsiasi “azzeccagarbugli”.

ART.18: IL LUOGO DEL DELITTO, di Antonio Polito

Pubblicato il 25 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

Da molto tempo la sinistra italiana non contava così tanto. Dipende infatti dallo scontro che si sta consumando al suo interno, a metà tra uno psicodramma e un regolamento di conti, la credibilità del percorso di riforme promesso dall’Italia all’Europa. In una tragica coazione a ripetersi, è dunque tornata sul luogo del delitto: metaforicamente, perché l’articolo 18 la dilania da più di un decennio; ma anche letteralmente perché, è meglio non dimenticarlo, le ultime vittime delle Brigate Rosse sono stati due giuslavoristi di sinistra, ammazzati per aver osato discutere lo Statuto dei lavoratori.

Di questa lotta il Pd è l’arena. Forse anche perché ormai è l’unico partito, o il partito unico, rimasto sulla scena (gli altri fanno la figura delle correnti interne, con Berlusconi che si offre a Renzi e Grillo a Bersani). Come accadde nel New Labour di Blair, quando l’anacronistica «clausola 4» dello Statuto fu il pretesto per la resa dei conti tra il nuovo leader e la vecchia guardia; così ora un residuo del passato come l’«articolo 18» è diventato la prova del fuoco per Renzi.

In realtà il nostro mercato del lavoro è ingiusto, inefficiente, balcanizzato. È da quel dì che va riformato. Forse è perfino troppo tardi. Ha dunque ragione il premier a volerlo fare. Ed è davvero inimmaginabile che lo si possa fare lasciando in piedi l’articolo 18. Purtroppo però la discussione non è stata messa sui binari giusti, in ossequio alla moda del momento che preferisce l’annuncio all’esito. Intanto si litiga intorno a una delega di cui non si conosce ancora il contenuto. Non lo conosce neanche il ministro del Lavoro Poletti: interrogato in materia, ha risposto di chiedere a Renzi. Lo scambio diritti-ammortizzatori che dovrebbe risarcire i futuri occupati viene presentato con troppa superficialità: il ministro Madia assicurava ieri che «tutti avranno quello che avevano o di più». Siccome si tratta di molti soldi, è lecito sospettare che finisca come con il contratto degli statali, prima promesso e poi sparito. Né aiuta il fatto che lo stesso Renzi appena qualche mese fa, nella campagna per le primarie, abbia più volte affermato che dell’«articolo 18 non frega niente a nessuno», illudendo gli iscritti al Pd di poter evitare anche stavolta il problema, e privandosi così di un mandato chiaro.

Di doppiezze è piena la storia della sinistra italiana. Basti pensare a quegli esponenti della minoranza del Pd che nemmeno due anni fa hanno votato il pareggio di bilancio in Costituzione e ora si mobilitano per abrogarlo. Ma stavolta a Renzi non basta la prova di forza come ha fatto col Senato, magari con un voto di fiducia o addirittura con un soccorso azzurro. Stavolta deve vincere e convincere la sua parte, per non uscirne azzoppato. Come avrebbe detto Togliatti, uno che di doppiezza se ne intendeva, «hic Rhodus hic salta». Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 25 settembre 2014

IL NEMICO ALLO SPECCHIO, di Ferruccio De Bortoli

Pubblicato il 24 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.

Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.

L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra. Ferruccio De Bortoli, Direttore del Corriere della Sera, 24 settembre 2014

……Se il direttore del Corriere della Sera spara a zero alto contro Renzi, tra l’altro  dopo l’incontro “epocale” con la coppia Clinton e moglie, può voler dire solo una cosa: che per Renzi è già incominciato il conto alla rovescia.g.

I SOTTERRANEI DELLA DEMOCRAZIA, di Antonio Polito

Pubblicato il 22 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

Sta per chiudersi nel nostro Paese una lunga era cominciata negli Anni 70 e segnata dall’espansione della democrazia elettiva, intesa come forma di partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica. Su impulso specialmente del Pci, che vi vedeva un inveramento della Costituzione (il Centro per la riforma dello Stato di Ingrao ne fu il laboratorio teorico), dalle Regioni fino ai Consigli di Istituto, passando per i Consigli circoscrizionali nelle città, abbiamo da allora eletto una pletora di livelli di autogoverno, producendo forse più democrazia di quanta fossimo in grado di consumare. La sbornia è stata tale che prima o poi il pendolo della storia doveva cambiare verso. E infatti dal 28 settembre al 12 ottobre si terrà in tutt’Italia la prima tornata di elezioni indirette per 64 assemblee provinciali e 8 città metropolitane. Sarà dunque l’esordio di una democrazia di secondo grado (sperando che non sia tale anche per qualità) che dovrebbe culminare con l’elezione indiretta dello stesso Senato, e cioè di un’assemblea legislativa.
Quale sia l’obiettivo di questo cambiamento e perché sia popolare, è facile da capire: si tratta di spoliticizzare istituzioni finora dominate dai partiti e di sfrondarle (da 2.500 consiglieri si passerà a meno di mille, e senza indennità). Invece che dai cittadini, i membri delle nuove assemblee e i loro presidenti saranno scelti dai consiglieri comunali e dai sindaci, con un voto ponderato in base alla popolazione che rappresentano. Però, come tutte le volte che si cerca di cacciare la politica dalla democrazia, c’è il rischio che quella si vendichi rientrando dalla finestra.
È ciò che sta accadendo in queste ore. È tutto un fiorire di trattative, spesso segrete, alcune già chiuse, altre riaperte, per dar vita ad alleanze contro natura tra partiti che di solito si combattono, o fingono di farlo, pur di assicurare un posto a tutti. La più scabrosa è saltata proprio ieri, quando Pizzarotti ha dovuto rinunciare a guidare un listone unico tra Pd e M5S a Parma, a causa dell’opposizione di Grillo. Ma in altri territori il dialogo prosegue e non mancano, soprattutto al Sud, scambi di effusioni tra Pd e Forza Italia (anche se questi, dopo il patto del Nazareno, sono ormai meno innaturali). Spesso queste alleanze scatenano lotte interne ai partiti, come è accaduto in Puglia, dove Emiliano ha dovuto sconfessare l’intesa raggiunta dal Pd con i berlusconiani a Taranto e Brindisi, per non compromettere le sue primarie alla Regione.
Il rischio vero, insomma, è che una riforma che punta a cacciare i partiti dal tempio della cosa pubblica si trasformi in una fase più proterva della lottizzazione partitica (alle Province restano per ora rilevanti poteri e capacità di spesa), con spartizioni di nomi e di cariche decise in stanze chiuse al pubblico, e senza neanche avere più sul collo la spada di Damocle del giudizio popolare. Non sarebbe la prima beffa del genere, ma questa getterebbe una luce sinistra sulla ben più delicata elezione di secondo grado prospettata per il Senato, che giochetti locali di piccolo calibro potrebbero trasformare in un pied-à-terre romano per la nomenklatura regionale dei partiti. Anche se stavolta non votiamo, sarà dunque bene che vigiliamo: della democrazia di secondo grado siamo pur sempre il pubblico pagante.
Il Corriere della Sera, 22 settembre 2014

DUELLO GIANNINI-FLORIS, CHE NOIA…. di Aldo Grasso

Pubblicato il 17 settembre, 2014 in Cronaca, Politica | No Comments »

Martedì di coppe. Il clima era da derby – Giannini contro Floris -, cosa rara per uno scontro tra due programmi tv. Ancora più rara se si pensa che a duellare erano due talk, due programmi basso costo che vivono di chiacchiere. Un derby dei poveri, verrebbe da dire. «Tanta roba», dice Mentana. Uno zapping furioso per lo spettatore. Inizia per primo «Ballarò» (Floris perde lo sprint per una misteriosa replica della Gruber) e Massimo Giannini esordisce con toni un po’ tromboneschi: «il senso della nostra missione», «la Rai, troppo spesso screditata, è la più grande azienda culturale del Paese», «i nostri azionisti di riferimento saranno i cittadini», «vogliamo raccontare l’Italia migliore».

Sarà per un comprensibile nervosismo, ma non basta essere una firma per condurre un programma, ci vorrà tempo per conquistare la scena. Iniziare poi con un faccia a faccia con Romano Prodi non aiuta certo a dare ritmo alla serata: il vero «Ballarò» parte solo alle 22. Giovanni Floris presenta subito i suoi ospiti (la solita compagnia di giro più il fighetto dei gelati Grom) ma colpisce non poco la scenografia: il vecchio impianto delle poltrone contornato da una balconata tipo «Macao». Per fortuna c’è la copertina di Maurizio Crozza che fa il verso a Renzi, Marchionne, Landini, persino allo stesso Floris. Crozza fa un umorismo funzionale al programma, non così Roberto Benigni, un «regalo» secondo Giannini. Sarà, ma il comico toscano ormai non stupisce più, sembra ripetere sempre lo stesso copione, tromboneggia anche lui in nome di un’Italia migliore. Il nuovo «Ballarò» sceglie la strada «seriosa»: le operette morali di Benigni mascherate da battute, la lunga intervista a Prodi, tempi distesi e mancanza di ritmo. «DiMartedì» è più scandito, anche per la maggiore presenza di pubblicità, e prova a essere pop, ma la distinzione rispetto agli altri talk della rete sfuma.

Floris va con il pilota automatico e non rischia nulla. La prima impressione è quella di una dissonanza cognitiva. Come dopo una separazione, i brandelli di una famiglia comune sono divisi in due nuove case. Da una parte il marchio, la collocazione, lo studio. Dall’altra le poltrone, il conduttore, il comico. Tutto il resto è poco più di un rimpiazzo, per quanto blasonato. Tutto il resto è semplice accumulo, di nomi cariche e temi, per mostrarsi al vecchio partner indifferenti al divorzio, e persino più forti. Ma il doppione rimane. I programmi sono appena cominciati e già sono spompi, sentono entrambi il peso degli anni di «Ballarò». I reportage filmati, il dibattito tra politici di opposte (più o meno) fazioni, gli innesti «speculari» dalla carta stampata o dalla fantomatica società civile: nulla di inatteso, nessun scarto rispetto al già noto. Aldo Grasso, Il Corriere della Sera, 17 settembre 2014

……E’ vero, che noia ieri sera tra Giannini, ex  giornalista d’assalto  trasformato in titubante quanto improvvido conduttore, e Floris che stancamente ripeteva il copione di sempre. Ha ragione Grasso, che noia…g.

LA SOLITUDINE AL POTERE, di Michele Ainis

Pubblicato il 11 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

La democrazia è un cantiere sempre aperto. Ogni giorno si forma e si trasforma, anche se per lo più non ci facciamo caso. La folla dei muratori nasconde l’opificio, la polvere di calcinacci ci impedisce di vedere. Eppure sta cambiando, qui, adesso. E la cifra della sua metamorfosi si riassume in una parola: solitudine. Dei leader, dei cittadini, delle istituzioni. Ne è prova il confronto tra l’uomo che ha segnato gli ultimi vent’anni e quello che forse dominerà il prossimo ventennio. Berlusconi inventò il partito personale, schiacciato e soggiogato dal suo capo. Ma un partito c’era, con i suoi gonfaloni, con i suoi colonnelli. Invece Renzi è un leader apartitico, senza partito. Ha successo nonostante il Pd, talvolta contro il Pd. Il suo colore è il bianco, come la camicia sfoggiata a Bologna insieme agli altri leader della sinistra europea. E il bianco è un non colore, non esprime alcuna appartenenza.

D’altronde tutti i soggetti associativi sono in crisi, perciò sarebbe folle legarsi mani e piedi alle loro sventure. La fiducia nei partiti vola rasoterra dagli anni Novanta; adesso è sottoterra, al 6,5%. Nelle associazioni degli imprenditori credono ancora 3 italiani su 10, e appena 2 nei sindacati. È in difficoltà pure la Chiesa, ma papa Francesco riscuote il 91% delle simpatie popolari. Come peraltro Renzi, che surclassa la popolarità del suo governo (64%). Perché contano i singoli, non gli organismi collettivi. Contano i sindaci, non i consigli comunali. Conta il governatore, non l’assemblea della Regione: se il primo inciampa, cadono tutti i consiglieri. Mentre il Parlamento nazionale è già caduto, è un fantasma senza linfa: per Eurispes, se ne fida il 16% degli italiani. Invece il presidente della Repubblica, sia pure in calo, rispetto al Parlamento triplica i consensi.

E allora viva le istituzioni monocratiche, abbasso la democrazia rappresentativa. Come sostituirla? Con un tweet , nuova fonte oracolare del diritto. O con una fonte orale: ne ha appena fatto uso il ministro Orlando, annunziando un emendamento al decreto sulla giustizia. Anche se quel testo nessuno lo conosce, anche se Napolitano non l’ha ancora timbrato, anche se la competenza ad emendarlo spetterebbe semmai all’intero Consiglio dei ministri. Ma quest’ultimo è l’ennesimo organismo collegiale caduto ormai in disgrazia, sicché ciascun ministro fa come gli pare. Sempre che sia d’accordo poi il primo ministro, dinanzi al quale tutti gli altri non sono che sottoministri.

E lui, l’uomo solo al comando, come comanda? Berlusconi seguiva l’onda dei sondaggi, a costo di cambiare idea tre volte al giorno, se gli piovevano sul tavolo tre rilevazioni differenti; Renzi non sonda, consulta. Il 15 settembre s’aprirà la grande consultazione sulla scuola, dopo quella sullo sblocca Italia, sulla giustizia, sulla burocrazia, sul Terzo settore. Anche la riforma costituzionale (art. 71) fa spazio a nuove «forme di consultazione».

Nel 1992 fu l’utopia di Ross Perot, outsider alle presidenziali americane: una società atomistica, in cui ciascuno potesse promuovere o bocciare qualunque decisione di governo, schiacciando un tasto sul computer mentre fa colazione. Non è l’utopia di Renzi, anche perché in Italia i consultati non decidono alcunché. Ma la consultazione è diventata lo strumento per stabilire un rapporto verticale con il leader, nel vuoto di rapporti che segue l’eclissi di ogni aggregazione collettiva. Il risultato? Parafrasando Gaber: l’incontro di due solitudini, in un Paese solo. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2014

UN CENTOMETRO E MILLE GIORNI, di Antonio Polito

Pubblicato il 8 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

Pochi primi ministri italiani hanno goduto delle eccezionali circostanze di cui si avvale Matteo Renzi. Più si addensano nubi minacciose sul nostro Paese, sulla sua economia, sulla sua solvibilità, e più la mongolfiera del consenso personale del leader vola in alto. Più gli economisti fanno fosche previsioni, dividendosi tra pessimisti e catastrofisti, e più gli italiani si affidano all’uomo che li chiama gufi, e che ai loro convegni preferisce i rubinettifici. La nostra situazione, un debito così alto con un’inflazione quasi a zero, è pesante e alla lunga insostenibile, ma Renzi rivendica la sostenibile leggerezza dell’essere e del mangiare gelati. In patria non ha alternative né oppositori; in Europa è pieno di imitatori, come la scena dei blues brothers socialisti, tutti in camicia bianca ieri sul palco di Bologna, ha plasticamente dimostrato; e l’apoteosi della Festa dell’Unità (pur senza Unità), derubrica a broncio i mugugni tardivi di un D’Alema. Ma gli stessi italiani che nei sondaggi premiano Renzi perché gli riconoscono il piglio del vendicatore anti-establishment, del fustigatore dei privilegi e dei vecchi assetti di potere, si dichiarano scettici sulle misure che sta prendendo per l’economia, non ritenendole le mosse giuste. Matteo Renzi è insomma entrato a buon diritto nel cerchio magico dei leader al Teflon, quei politici fatti del materiale delle padelle cui non si attacca lo sporco: ciò non vuol dire che lo sporco non ci sia.
E in effetti finora, nei duecento giorni già passati, l’azione di governo non ha dato i frutti sperati, come lo stesso ministro Padoan ha di recente riconosciuto. Le due misure prescelte, il bonus di 80 euro e la riforma del Senato, comunque le si giudichi, di sicuro non hanno provocato lo choc di cui l’economia ha bisogno. Anzi, l’indice di fiducia delle famiglie, dopo una prima impennata, è da tre mesi in calo.
L’orizzonte è diventato quello dei mille giorni ma la sensazione è di incertezza sulla direzione di marcia. Per quanto il premier annunci che non cederà di un centimetro, non è chiaro da dove. C’è al Senato la madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, annunciata ormai da gennaio, che da sola potrebbe cambiare l’appetibilità del nostro Paese per gli investitori. Ma i segnali sono contraddittori, il linguaggio è prudente, non si vede la determinazione necessaria per liberarsi della giungla di rigidità del nostro Statuto dei lavoratori, e rendere finalmente più facile assumere, prima ancora che licenziare. Sulle privatizzazioni c’è stato un alt. Sulle municipalizzate c’è stato un vedremo. Sulla ristrutturazione della spesa c’è stato un faremo. Sulla pubblica amministrazione si alternano messaggi contrastanti, prima si promettono 150 mila precari assunti nella scuola, poi il blocco degli stipendi per tutti gli statali, poi lo sblocco per i soli statali in divisa. E anche quando si fa, come nel caso dello sblocca Italia, si fa così poco da rischiare un effetto boomerang sulle aspettative.
Questa sorta di limbo autorizza, soprattutto all’estero, il sospetto che in Italia ci sia ancora chi prende tempo, nella convinzione che prima o poi ci penserà la Banca centrale europea con un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, nella speranza di risparmiarsi così scelte troppo difficili e impopolari. Ma il guaio è che, come in un circolo vizioso, più questo sospetto si diffonde e meno Draghi avrà le mani libere, e più Renzi le mani legate. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2014

MAI PRIMA D’ORA UMILIATE LE DIVISE, di Gian Marco Chiocci

Pubblicato il 6 settembre, 2014 in Politica | No Comments »

Mai prima d’ora. In 200 anni di storia dei carabinieri mai un capo del governo era riuscito a farsi odiare così dal Corpo più amato dagli italiani che ha pagato prezzi altissimi per assicurare a tutti ordine e sicurezza. Mai un premier s’era fatto detestare così da poliziotti e finanzieri, da pompieri e guardie forestali, da agenti penitenziari e pure dai soldati, tutti compatti nel preannunciare il primo sciopero generale delle divise della storia della Repubblica italiana. Mai gente tranquilla e perbene, che per 1.500 euro rischia la vita facendosi scivolare addosso umiliazioni e insulti, aveva chiesto le dimissioni di ministri e generali. Mai i difensori dello Stato s’erano rivolti ai soggetti istituzionali chiamandoli «buffoni», «cialtroni», «bugiardi». Mai, ufficiali, sottufficiali, truppa inclusa, avevano pensato di annunciare l’ammutinamento nei servizi. Mai, prima d’ora, avevano avuto il coraggio di minacciare la pubblicazione dei dati segreti sulle scorte ai politici serviti e riveriti anche d’estate. Ecco. Se Renzi è riuscito in questo miracolo lo deve all’iniziale sciatteria del «taglia-tutto» Cottarelli (inflessibile sui tagli a caso ai corpi di polizia) e alla goffaggine del ministro Madia nel comunicare il blocco degli stipendi fino al 2015: entrambi hanno smentito, coi fatti, le promesse del premier di inizio mandato. Le famiglie dei servitori dello Stato sono allo stremo. Anziché il gelato Renzi si lecchi in fretta le ferite e ponga rimedio. Perché un carabiniere che incrocia le braccia è la peggiore sconfitta per una democrazia.  Gian Marco Chiocci, Il Tempo, 6 settembre 2014

LA SCUOLA ITALIANA BOCCIATA DALL’OCSE: E’ POCO EFFICIENTE.

Pubblicato il 5 settembre, 2014 in Cultura, Politica | No Comments »

Al 23/mo posto della classifica di 30 Paesi. In vetta c’è la Finlandia (87,81% di efficienza)

Italia “tra gli ultimi della classe” per efficienza scolastica. Se si rapportano i risultati ottenuti dagli studenti nei test Pisa con la spesa per l’istruzione, il nostro paese si colloca appena al 23/mo posto della classifica di 30 paesi Ocse. In vetta c’è la Finlandia (87,81% di efficienza). In fondo, invece, dopo l’Italia (69,81%), si piazzano Portogallo, Spagna, Grecia, Indonesia, Brasile, ma anche Germania (25/mo) e Svizzera (28/mo), “le cui politiche di efficienza potrebbero non essere tra le priorità“. Per guadagnare qualche posto in classifica l’Italia potrebbe dunque avere due alternative: o aumentare gli stipendi degli insegnanti o ridurre il rapporto prof-studenti. E’ quanto emerge dal primo rapporto internazionale sull’Efficienza della spesa per l’educazione, condotto da Peter Dolton, esperto mondiale di economia dell’educazione della London School of Economics, insieme a Oscar Marcenaro Gutiérrez dell’Università di Malaga e ad Adam Still di Gems Education Solutions.

Il rapporto – commissionato da Gems e presentato a Londra – analizza “l’efficienza con cui vengono allocati i budget per l’istruzione in ciascun paese” per misurare “qual è il sistema che produce un ritorno più elevato dal punto di vista educativo per ogni dollaro investito”. Secondo il modello econometrico applicato, dunque, “che calcola il legame statistico provato tra stipendi degli insegnanti o dimensione delle classi (le due varianti che più incidono sul bilancio) e i punteggi Pisa, l’Italia potrebbe ottenere risultati Pisa ai livelli della Finlandia, se riducesse il rapporto insegnante-allievo da 10,8 a 8,2 alunni per ogni insegnante (-24,4%). O, in alternativa, se aumentasse lo stipendio degli insegnanti dalla media attuale di 31.460 dollari a 34.760 dollari, cioè un aumento del 10,5%.
Stando a questi calcoli – secondo il rapporto – l’Italia, per avere un migliore rapporto qualità-prezzo dovrebbe spendere di più e ridurre il numero di allievi per insegnante o aumentarne lo stipendio”. Obiettivo della ricerca è però solo l’analisi dei dati, sottolineano gli autori, “non si intende fornire raccomandazioni sulle scelte politiche degli Stati”.

“Questo rapporto – osserva Andreas Schleicher dell’Ocse – getta uno sguardo rinfrescante sui dati comparativi a livello internazionale per esaminare le scelte di spesa fatte da quei paesi che stanno ottenendo i migliori risultati con meno risorse. Rompe il silenzio sull’efficienza dei servizi educativi. Mentre la spesa per ogni studente del mondo industrializzato è aumentata di oltre il 30% nell’ultimo decennio, il livello di apprendimento nella maggior parte dei paesi è rimasto piatto. Chi considera i servizi del settore educativo troppo importanti per essere misurati per la loro efficienza priverà molti giovani di un’istruzione migliore e una vita migliore”.

Complessivamente i 30 paesi Ocse dello studio hanno speso ogni anno 2.200 miliardi di dollari per la scuola e la quota del Pil riservata all’istruzione è in aumento da decenni. In generale, secondo il rapporto, i Paesi che mostrano un’elevata efficienza riescono anche a raggiungere risultati educativi elevati. L’Italia rientra nel gruppo dei paesi “più efficaci che efficienti: raggiunge risultati migliori in termini di qualità piuttosto che di efficienza. Ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che i suoi sistemi generano altri risultati che non vengono acquisiti dalle statistiche Pisa”. Fonte: ANSA, 5 settembre 2014

….Ma adesso ci penseranno Renzi e la Giannini (quest’ultima poppe al vento) a rimettere in sesto la scuola italiana e portarla al primo posto della  scala europea. Lo ha detto Renzi e se non lo ha detto di certo lo dirà,  quindi è come se lo avesse detto.