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L’ITALIA SORPASSATA IN RETE, di Gianantonio Stella
Pubblicato il 2 settembre, 2014 in Economia, Politica | No Comments »
Ci ha spezzato le reni, per dirla ironicamente col Duce, anche la Grecia. Da ieri, sentenzia il sito netindex.com che misura la velocità di download domestica sulla base di cinque milioni di test al giorno, siamo novantottesimi al mondo. Dopo l’amata e malmessa Ellade e davanti al Kenya. Nel dicembre 2010 eravamo al 70º posto. Nel dicembre 2012 all’84º. Sempre più giù, giù, giù…
Coi nostri mediocri 8,51 megabyte mediamente scaricabili al secondo siamo ultimi tra i Paesi del G8 (penultimo è il Canada che svetta dal 23,09: il triplo), penultimi tra quelli europei davanti alla Croazia e ultimissimi tra i 34 dell’Ocse. Abissalmente lontani dalla velocità con cui scaricano dal Web i cinesi di Hong Kong, quasi undici volte la nostra, ma anche i sudcoreani, gli svedesi, gli svizzeri. C’è chi dirà: si tratta di realtà disomogenee e in qualche modo eccentriche rispetto alle realtà economiche, tanto da vedere ai primi posti per eccellenza della Rete la Romania, dove però i cittadini dialogano ancor peggio di noi con gli sportelli informatici pubblici.
Vero. Resta il fatto che in classifica siamo staccati di 58 gradini dalla Cina, 65 dalla Spagna, 69 dalla Germania, 71 dalla Gran Bretagna, 76 dalla Francia con la quale fino a una dozzina di anni fa eravamo sostanzialmente alla pari. Per non dire della velocità di upload, cioè del tempo che si impiega per caricare un documento in Rete: quattro anni fa eravamo ottantaseiesimi. Oggi siamo al 157º posto. Molto ma molto più distanti dalla Francia che dal Congo o dal Burkina Faso.
Ora, se il Web servisse solo ai ragazzini per dibattere dei tatuaggi preferiti o alle amanti della tisana per consigliare la menta piperita, poco male. Il nodo, come dimostra un’analisi di MM-One Group su dati Eurostat, è che la Rete è sempre più un volano per l’economia. Il fatturato delle imprese europee ricavato dal Web nel 2013 è stato in media del 14%. Ma la Gran Bretagna e la Slovacchia sono già al 18, la Repubblica ceca al 26, l’Irlanda al 31%: quasi un euro su tre, a Dublino e dintorni, arriva via Internet. Noi siamo al 7%: la metà o meno delle altre europotenze. Per non dire del turismo, che vive un boom spropositato a livello planetario ma che solo parzialmente ci sfiora nonostante il nostro immenso patrimonio culturale, paesaggistico ed enogastronomico.
Il business vacanziero europeo dipende per un quarto dal Web ma la quota si impenna fino al 39% nel Regno Unito. Noi siamo al 17%: nettamente sotto la Francia e la Spagna, le concorrenti dirette. Quanto al rapporto fra cittadini e pubblici sportelli, un’altra ricerca MM-One sui Paesi che sfruttano meglio le potenzialità della Rete dice che, se la Danimarca sta a 100, noi siamo a 9. Umiliante. Come se mancasse la consapevolezza, al centro e in periferia, di quanto il settore sia centrale. Come se nessuno si fosse accorto che perfino qui da noi, negli ultimi anni, come spiega l’Agenda digitale italiana, il Web ha creato 700 mila posti di lavoro: sei volte più degli addetti di un settore storico quale la chimica.
Eppure, davanti a un quadro così, lo stesso governo del primo premier incessantemente affaccendato tra Facebook e Twitter, WhatsApp ed Instagram pare aver deciso, stando alle bozze dello Sblocca Italia, di limitare gli aiuti per l’estensione della banda larga, sulla quale siamo in angoscioso ritardo sulla tabella di marcia europea, agli sgravi fiscali (sostanziosi o meno non si sa) per chi investirà sulle «aree a fallimento di mercato», quelle dove gli operatori non mettono soldi per paura di perderci. Che dire?
…….Lo chiede ai lettori Stella? Lo chieda al raccontatore di chiachciere, alias il premier Renzi.
LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UN FIUME DI PAROLE VANE E POCHE COSE VALIDA, di Luigi Ferrarella
Pubblicato il 30 agosto, 2014 in Giustizia, Politica | No Comments »
A pensare di disboscare così l’arretrato della giustizia civile son buoni tutti, verrebbe da dire sesi cedesse alla tentazione di imitare il premier Renzi in talune sue sprezzature: con un decreto leggesi va dai cittadini impantanati in 5,2 milioni di cause pendenti e li si invita caldamente a portarle fuori dal circuito giudiziario Tribunale / Appello, ad affidarle (salvo che per i diritti indisponibili) ad arbitri privati presi da un elenco dell’Ordine degli Avvocati, e a pagarli per ottenere quella decisione che lo Stato tardava a dare. Un’idea di dubbia attrattiva e neppure tanto originale, marcata com’è dagli stessi virus che scorazzano già da tempo nell’organismo malato della giustizia: il subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza; la progressiva svalutazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità connesse alla giurisdizione; il messaggio che, fuori dalle corsie preferenziali aperte per sorridere ai mercati internazionali (tipo il «Tribunale delle imprese»), giustizia ordinaria resti solo per chi se la può pagare; e l’equivoco di forme di risoluzione alternativa delle controversie non come opzione culturale per ridurre la propensione alla litigiosità, ma come espediente imposto per legge per dirottare su laghetti privati i fiumi di contenzioso civile che tracimino dagli acquedotti tribunalizi.
Eppure il resto della riforma contiene anche misure promettenti, altre che meritano di essere sperimentate, e altre ancora il cui successo o insuccesso dipenderà dalla capacità di abbandonare l’illusorio pensiero unico delle riforme «a costo zero» (e qui già depone male l’impegno di appena 150 assunzioni a fronte della carenza in organico di quasi 8.000 cancellieri).
Certo, per coglierle bisogna andare oltre i tweet con i quali Renzi si è già portato parecchio avanti: «Garantire un processo civile di primo grado in un anno invece di tre come oggi» è infatti un cinguettìo curioso, se a scriverlo è il capo di un governo sul cui sito online i dati Ue mostrano che in materia commerciale una causa civile di primo grado dura in media oggi poco meno di 600 giorni, dunque circa un anno e otto mesi, non tre.
Ma al netto del marketing politico, e della rivendita di misure già avviate da altri (il «Tribunale delle imprese» è stato introdotto nel 2012 per la nicchia di cause di proprietà intellettuale-conflitti societari-antitrust, e il Processo Civile Telematico sta entrando ora a regime ma è frutto di 15 anni di travagliata marcia), fa benissimo la riforma ad alzare il tasso di mora dall’attuale 1% all’8,15%, in modo da disincentivare la beffa di chi oggi, avendo torto marcio in una causa, usa i tempi lunghi del tribunale come scudo per resistere contro chi ha ragione, contando sul fatto che nel peggiore dei casi a distanza di anni gli tocchi pagare solo il dovuto più un interesse infinitamente meno caro di quello per prendere soldi in prestito.
Opportuno – a condizione che non si creda che il rito da solo sia tutto – asciugare i tempi morti dell’attuale procedura civile, spingendo le parti ad anticipare e concentrare il «botta e risposta» che oggi arriva a consumare anche 8/12 mesi prima di approdare alla trattazione vera e propria della causa, Anche la «negoziazione assistita» dagli avvocati dei litiganti, prima che le nuove cause arrivino in tribunale e anzi nel tentativo di non farcele proprio arrivare grazie alla condivisione di una «convenzione» con valore di sentenza, è un esperimento francese da provare. Di buonsenso é l’idea che marito e moglie per divorziare, se non hanno figli piccoli e sono d’accordo sulle condizioni economiche, possano non intasare i tribunali. E una gran cosa, se ben coordinata, sarebbe la fusione in un unico «Tribunale della famiglia e per i diritti della persona» delle oggi frammentate competenze di giudici ordinari, minorili e tutelari (più le richieste di asilo politico).
È invece nel penale che il baldanzoso piglio del premier è evaporato nella stretta tra il quasi alleato di governo – Berlusconi – protagonista per anni di incostituzionali leggi ad personam , e l’alleato vero di governo – il ministro dell’Interno Alfano – che molte di quelle leggi incostituzionali fabbricò da Guardasigilli di Berlusconi. Il risultato del sandwich é un ripiegamento tattico su 5 titoli da «vorrei ma non posso», utili a far dire a tutti che tutti hanno vinto: chi sulla formulazione di falso in bilancio e autoriciclaggio, chi sull’ossessione di limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni demandati a una legge delega «dopo confronto con i direttori dei giornali». In definitiva si compra tempo in attesa di tempi migliori, per contenuti sui quali il governo somiglia a un capofamiglia che, frastornato da commensali reclamanti ciascuno una pietanza diversa, affastella nel carrello della spesa ingredienti contraddittori, presi al supermarket delle tante commissioni ministeriali autrici di progetti che però almeno erano organici e coerenti. Tipica la scelta di non cancellare la berlusconiana legge ex Cirielli, ma di bloccare i termini di prescrizione dopo la condanna di primo grado, facendoli rivivere e ripartire dopo 2 anni se per allora non si sia celebrato l’appello (non è chiaro se anche nei processi già iniziati come per Berlusconi a Napoli o Formigoni a Milano, o solo per i nuovi rinvii a giudizio come sarebbe più logico). Ma così da un lato si ignora che di questi 2 anni già 8/10 mesi nella realtà si consumano prima che il processo arrivi fisicamente in appello, tra impugnazioni da attendere e formazione del fascicolo in cancellerie sotto organico. E dall’altro lato si lascia l’imputato esposto all’eventuale inerzia giudiziaria: sia perché lo scoccare del supplemento di tempo non determina l’estinzione dell’accusa (come invece suggeriva la commissione Canzio), sia perché il blocco della prescrizione non viene bilanciato da un meccanismo di controllo da parte del giudice sul trattamento tempistico da parte del pm della notizia di reato nelle indagini preliminari, fase dove le statistiche mostrano che ad esempio nel 2011 si sono concentrate 86.000 delle 120.000 prescrizioni dell’anno. Luigi Ferrarella, Il Corriere della Sera, 30 agosto 2014
SOMMERSI DA UNA VALANGA DI REGOLE FISCALI, di Sergio Rizzo
Pubblicato il 29 agosto, 2014 in Economia, Politica | No Comments »
Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza.
Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96.
Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro Fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 418. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione.
Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo» pari a 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C’è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale. La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?».
Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla.
Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale». E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce, Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente fra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre lì. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo… Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 29 agosto 2014
DUE REGOLE NON SCRITTE, di Antonio Polito
Pubblicato il 26 agosto, 2014 in Economia, Politica | No Comments »
Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).
Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani.
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.
La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?
È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).
Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2014
IL PERIMETRO DELLA SOVRANITA’ (italiana), di Antonio Polito
Pubblicato il 13 agosto, 2014 in Economia, Politica | No Comments »
Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire.
Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?
Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.
Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno.
Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.
Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro.
Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 agosto 2014
LA DISCIPLINA DELLA VERITA’, di Michele Salvati
Pubblicato il 17 luglio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »
«B isogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi – il debito ne è la conseguenza – e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle – la verità, appunto – non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni – che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano – ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.
La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia – condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche – per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.
Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole – perché di questo si tratta – che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia – è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo – l’intuito per il consenso – è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.
Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge – nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati – dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire – la faccio breve – freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani – la «verità» – io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni – Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri – è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione . Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 17 luglio 2014
RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: BUONE DOMANDE, CATTIVI PENSIERI, di Michele Ainis
Pubblicato il 2 luglio, 2014 in Politica | No Comments »
Diceva Craxi: quando non è possibile risolvere un problema, si nomina una bella commissione. Oggi invece s’indice una consultazione. È più trendy , e almeno in apparenza trasforma ogni elettore in un legislatore. Sarà per questo che gli ultimi tre governi ne hanno profittato a mani basse. Con la consultazione di Monti, nel 2012, sul valore legale della laurea. Con quella battezzata nel 2013 da Letta su «Destinazione Italia», per attrarre investimenti dall’estero. O dal suo ministro Quagliariello sulle riforme costituzionali (131 mila risposte online). Infine con le consultazioni promosse da Renzi sul Terzo settore (che ha incassato meno di 800 email), nonché sulla riforma della pubblica amministrazione.
Adesso tocca alla giustizia: 12 punti sottoposti al verdetto telematico, che spaziano dal divorzio breve al processo lungo, dalla carriera dei giudici a quella dei cancellieri, e via via intercettazioni, prescrizioni, informatizzazioni, buone intenzioni. E allora, dove sta il problema? Non nel metodo, ci mancherebbe: è sempre cosa santa e giusta testare gli umori del popolo votante. Dopotutto, in Francia la legge Barnier del 1995 stimola il giudizio dei cittadini sulle grandi opere pubbliche, e così succede in varie altre contrade, su varie altre materie. In Italia però non c’è nessuna legge che regoli queste forme di consultazione, sicché ciascun governo fa un po’ come gli pare. E questo sì, è un guaio. Specie se c’è di mezzo la giustizia, che è forse la più grave emergenza nazionale.
Da qui un problema di merito sul metodo, mettiamola così. Perché in primo luogo, se ci chiedete un’opinione, dovete poi tenerne conto. Per esempio: a Bologna, nel maggio 2013, si è celebrato un referendum consultivo sui fondi alle scuole private. Hanno vinto i no, ma il Consiglio comunale ha detto sì. Ovvio che poi ti senti buggerato. Ma in secondo luogo un’opinione pesa quando è libera, ed è libera quando ha di fronte alternative chiare, specifiche, puntuali. Meglio ancora se poste in successione progressiva, come hanno fatto i grillini con il loro progetto di legge elettorale. Lì, semmai, il limite era nel limite d’accesso, consentito a pochi congiurati.
Le domande, quindi. In ogni referendum (elettronico o cartaceo) contano più delle risposte, come osservò a suo tempo Bobbio. Perché le orientano, e spesso le prefigurano. Ma in questo caso, quali domande ci domanda il domandante? Per esempio, se intendiamo premiare i meriti nel cursus honorum dei magistrati. Certo che sì, ma come? Silenzio tombale: più che una domanda, è un quiz. Oppure se siamo o no d’accordo sulla riforma delle intercettazioni; tuttavia l’esecutivo confessa di non avere alcuna idea circa il da farsi. Ancora: le correnti giudiziarie, chi le compra? Probabilmente nessuno; ma il problema, di nuovo, è come venderle, come liberare il Csm dalle loro unghie rapaci. E la separazione delle carriere? Qui manca del tutto il quesito, magari per un eccesso di discrezione, di bon ton.
Diceva Oscar Wilde che le domande non sono mai indiscrete; però lo sono, talvolta, le risposte. Ecco perciò la nostra domanda: qual è la linea del governo in materia di giustizia? Perché il silenzio, si sa, alimenta i cattivi pensieri. Come il sospetto d’una trattativa sottobanco con l’Anm; e sarebbe imbarazzante la concertazione con il sindacato giudiziario, dopo averla bandita con gli altri sindacati sul lavoro. Ma si fa presto a sbarazzarsi dei sospetti. Basta che la prima consultazione il governo la faccia con se stesso. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 2 luglio 2014
…….Questo piccolo “saggio” del prof. Michele Ainis, costituzionalista assai accorsato (è stato anche uno dei saggi nominati da Napolitano nell’era Monti) la dice lunga sulle promesse di Renzi e sulla vacuità di molte di esse, compresa quella sulla riforma del pianeta Giustizia, forse la più vacua e la più inconsistente tra quelle messe in campo nel corso di questi mesi dall’ex sindaco di Firenze. Riforma che farà la fine delle altre, sarà oggetto da una parte delle ormai quotidiane tiritiere di Renzi e dall’altra del lungo elenco delle “incompiute”. g.
CIO’ CHE RENZI ANCORA NON HA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 29 giugno, 2014 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »
Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle – e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti – invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» – dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese – tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.
La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso – con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale – in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.
Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.
Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo – sia detto incidentalmente – ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.
Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
L’esecutivo dispone – direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento – di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia – per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità – c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.
Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.
Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 29 giugno 2014
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
………………..Analisi spietatatamente esatta quella di Galli della Loggia, specie per quanto riguarda il mondo delle idee e quello della cultura. Purtroppo, sino a prova contraria, Renzi, sul quale Galli della Loggia pogge molte speranze, non sembra possedere lo spirito roosveltiano, piuttosto sembra animato solo da una voglia matta di potere e del suo mero esercizio, proprio a scapito delle idee a lungo tempo, capaci di consentire alla nostra società di tornare a crescere. g.