Archivio per la categoria ‘Politica’
Chi credeva che il punto più basso raggiunto dal trasformismo nazionale fosse l’invenzione della Casta – la trovata giornalistica che, per salvare l’ideologia controriformista e cattocomunista egemone, accusa moralisticamente gli uomini politici di badare solo a se stessi – si sbagliava. La Casta non è la causa della crisi di cui soffre (ovunque) la democrazia, bensì, da noi, è l’effetto indotto della cultura politica, fascista e comunista del Novecento, che presumeva di instaurare una libertà soggettiva e di realizzare una partecipazione collettiva più alta. Come siano andate, poi, le cose nel «secolo breve», lo si è visto e non è il caso di ripetere l’esperienza. Ma al peggio, da noi, non c’è, evidentemente, limite.
IL CASTELLO DEGLI ANNUNCI, di Antonio Polito
Pubblicato il 3 aprile, 2014 in Politica | No Comments »
La politica dell’annuncio è politica. Produce fatti e conseguenze politiche. Non è solo marketing. Se un annuncio convince dieci milioni di italiani che dal giorno dopo le Europee staranno un po’ meglio, non solo vanno meglio le Europee, ma cresce anche l’indice di fiducia delle famiglie, e si può sperare in più consumi e investimenti.
Tony Blair visse per l’intera prima legislatura sull’onda degli annunci: si chiamavano white paper , riforme annunciate, date in pasto alla stampa, digerite dal pubblico come cambiamenti epocali, e poi dimenticate. Ma tirarono su il morale di una nazione depressa dal post-thatcherismo. Mentre fu solo quando dagli annunci passò ai provvedimenti che Gerhard Schröder perse le elezioni, per aver davvero rifatto il welfare tedesco e salvato la Germania dal declino economico. Ma il problema di Renzi, come ha notato ieri il Financial Times , è che i suoi giorni non ricordano neanche pallidamente gli anni ruggenti di Blair e Schröder. I quali danzarono su un’era di espansione e di crescita. Mentre Renzi si deve calare nella peggiore recessione del dopoguerra.
La politica dell’annuncio di Renzi è l’opposto di quella praticata dal suo predecessore. Quando Letta voleva fare una cosa, prima cercava il consenso dei tecnici e della sua maggioranza, e poi procedeva col minimo comun denominatore. Quando Renzi vuole fare una cosa, prima l’annuncia e poi chiede ai tecnici e alla sua maggioranza di realizzarla. In questo modo Letta produsse uno sconto fiscale di 18 euro al mese per i redditi bassi e Renzi ne produrrà uno da 80 euro al mese. Si direbbe dunque che funziona.
Non c’è però bisogno di essere un gufo, un rosicone, un disfattista (o come altro si chiama oggi chi si permetta di coltivare l’arte liberale del dubbio) per capire che tutto ciò comporta dei rischi. Questa tattica, che nel ciclismo si chiama «dell’elastico» (uno in testa scatta a ripetizione, e il gruppo deve accelerare per stargli dietro) ha i suoi limiti: se l’elastico si allunga troppo, si spezza. Fuor di metafora: Renzi ottiene ciò che vuole minacciando ogni volta di andarsene. Siccome oggi a nessuno conviene che se ne vada, la spunta. Ma prima o poi a qualcuno converrà, e i termini dell’equazione cambieranno. Per questo l’esperimento Renzi dipende così tanto dal risultato delle Europee.
In secondo luogo bisogna considerare l’effetto boomerang che potrebbe derivare da una inflazione degli annunci. In Europa, dove è essenziale essere creduti quando offriamo riforme in cambio di flessibilità. Ma anche in Italia, dove si vive in uno stato di sospesa incertezza, come in un castello delle fiabe, e tutti attendono di capire, prima di agire, se Renzi riuscirà a fare tutto ciò che dice, o solo una parte, e come.
Facciamo l’esempio del lavoro. Se un imprenditore può assumere, oggi sta sicuramente aspettando l’esito del braccio di ferro tra governo e sinistra parlamentare sull’unico decreto fin qui varato, che rende più facili i contratti a tempo determinato. E poi aspetterà di vedere se il disegno di legge seguente, il Jobs Act propriamente detto, lo contraddirà, restaurando un contratto unico a tempo indeterminato. Del resto è già successo che aspettative generate da Renzi siano cadute: quella di ricavare maggiori risorse dalle pensioni, per esempio, o dalla lotta all’evasione.
Il governo è quindi giunto a un momento cruciale. A metà mese ci saranno le tabelle del Def, numeri vincolanti. Gli annunci sono stati tutti fatti, e da qui alle Europee bastano e avanzano. Ora serve che diventino leggi e provvedimenti. Come in ogni storia d’amore, alla seduzione deve seguire l’atto.Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 4 aprile 2014
MARINE LE PEN, LA NUOVA DESTRA EUROPEA
Pubblicato il 24 marzo, 2014 in Il territorio, Politica, Politica estera | No Comments »
“Che piaccia o preoccupi, la bionda Marine Le Pen ha compiuto il capolavoro politico che non era riuscito a suo padre. Ha svecchiato la gerarchia del partito, ha attenuato l’armamentario xenofobo e razzista e ha cavalcato le inquietudini dei cittadini di fronte a un’Europa lontana, irriconoscibile rispetto agli ideali per cui è stata concepita. Un sogno diventato un insieme di regole vicino al naufragio. Marine è riuscita, come altri capipopolo europei, a sfuggire all’esorcismo inutile di quanti si ostinano a definire populismo ed «eurofobia» le domande di sicurezza, di giustizia fiscale, di difesa delle identità nazionali, di sviluppo e lavoro. E a predicare nel deserto sociale il verbo dell’austerità e la legge dello spread.” Così Massimo Nava sul Corriere della Sera di questa mattina ha commentato lo storico risultato elettorale al primo turno amministrativo dei francesi che hanno attribuito al partito di Marine Le Pen, il Front National, un successo strepitoso, che ha ottenuto circa il 7% dei voti a livello nazionale pur avendo presentato liste in soli 500 comuni sui 36.000 in cui si votava, conquistando anche molti cComuni al primo turno, in ogni parte della Francia. Proiettando i dati a livello nazionale si prefigura per il partito di Marine Le Pen un risultato eccezionale alle europee del 25 maggio quando potrebbe risultare il primo partito francese e quindi di fatto partito guida della Destra, una nuova Destra Europea, in Europa, rompendo, così come di fatto è accaduto ieri in Francia, il sistema bipolare – PPE e PSE – che sinora ha governato, male, il vecchio continente. Sistema che ha provocato ovunque insofferenza quando una vera e propria repulsione nei confronti di una istituzione che ha sottratto ai popoli europei identità, sovranità, libertà, per attribuirle ad una casta di burocrati senza anima e pulsioni. Non era questa l’Europa che i grandi europeisti, da De Gasperi ad Adenauer avevano sognato, non era questa l’Europa dei Popoli, l’Europa Nazione, gli Stati Uniti di Europa, che avevamo sognato da ragazzi, quando ad essa inneggiavamo per contrapporla alle due potenze che a Yalta si erano spartiti il mondo come fosse un cocomero. Non era di certo l’Europa delle banche e dei banchieri, l’Europa del rigore e dell’ottusa burocraticismo, sbarcato a Bruxelles al seguito dei sistemi corrosivi delgli stati nazionali, quella che si doveva costruire. Ed è contro questa Europa mal fatta, che ovunque, in tanti patrie europee che sono insorti i cosiddetti euroscettici che ora hanno anche un Capo, una signora bionda vestita di blu, che ha il coraggio delle proprie idde, che non recita poesie ma innalza la bandiera della verità, che si pone come simbolo di una Destra che non ha paura delle parole e di dirle senza infingimenti e timori, che non ha paura di chiamarsi Destra senza se e senza ma. Questa signora è Marine Le Pen. Grazie per aver ridato speranza e rappresentanza alla Destra, anche alla distratta o forse del tutto latitante destra italiana. g.
PER IL COMMISSARIO AI TAGLI DELLA SPESA PUBBLICA 2200 EURO AL GIORNO….
Pubblicato il 20 marzo, 2014 in Politica | No Comments »
Al commissario «tagliatutto» un milione di euro in quattro anni. In soli 68 giorni (Natale incluso) del 2013 ha intascato 150mila euro
Ma quanto guadagna l’uomo dei tagli? Qual è lo stipendio di Carlo Cottarelli, il commissario alla revisione della spesa? Il compenso è stato fissato dalla legge e si aggira intorno al milione di euro. Per evitare il tetto ai manager pubblici (poco più di 300mila euro all’anno) quella cifra è stata spalmata su quattro anni invece che su tre, l’autentica durata del mandato. Sono davvero mirabolanti le sorprese che riservano le decisioni del Parlamento italiano. Determinazioni che rischiano di avere effetti, in verità, comici.
Ma procediamo con ordine. A fissare il compenso di Cottarelli, è il decreto legge 98 del 2013. Precisamente al comma 4 dell’articolo 49bis si legge che l’indennità del commissario deve essere «nei limiti di quanto previsto dall’articolo 23-ter del decreto legge 6 dicembre 2011», meglio noto come “Salva Italia”, il primo provvedimento importante del governo Monti. Che appunto fissava un tetto equiparandolo alla retribuzione del primo presidente della Cassazione, circa 300mila euro lordi l’anno.
Quell’articolo della legge del 2013, successivamente fissa come deve essere pagata la retribuzione del commissario. «Agli oneri derivanti dall’articolo 4, nel limite massimo di 150mila euro per l’anno 2013, di 300mila per ciascuno degli anni 2014 e 2015 e di 200mila euro per il 2016 si provvede mediante corrispondente riduzione» del fondo per interventi strutturali di politica economica. Quindi, totale fa 950.
Ma non avrebbe potuto il Parlamento decidere di dividere quei 950 per tre anni? Se così avesse fatto, il governo avrebbe dovuto corrispondere a Cottarelli 316mila euro all’anno, ma sforando il tetto ai manager. Così si è deciso di spezzettarlo su quattro anni, includendo – per una piccola parte – anche il 2013. Con un effetto da ridere.
E già. Perché l’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale si è insediato a Roma soltanto il 23 ottobre (sino al giorno prima ha lavorato nell’organizzazione di Washington come si evince anche dal sito del Fmi). Il che vuol dire che per l’anno scorso ha lavorato 68 giorni, compreso tutti i sabati, le domeniche, Natale, vigilia, Santo Stefano, festa dell’Immacolata e San Silvestro. Dunque, se gli fosse stato applicato il massimale – i 150mila euro – diviso i 68 giorni dal 23 ottobre alla fine dell’anno, ciò vorrebbe dire che Cottarelli è costato allo Stato poco più di 2200 euro al giorno.
Il condizionale è d’obbligo. Perché fin qui è possibile descrivere quanto previsto dalla legge. Ma non quanto effettivamente corrisposto. Infatti il contratto stipulato tra il ministero dell’Economia e il commissario alla spesa non è stato pubblicato on line. Sarà stata certamente una dimenticanza. Perché alla trasparenza Cottarelli tiene molto al punto da dedicare a questo argomento un’intera slide di quelle presentate al governo.
La tabella si intitola: “La strasparenza della spesa pubblica”. L’uomo dei tagli spiega al primo punto che «la pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Non è un caso che figuri questa affermazione come prima: Cottarelli ha fin qui dato una decina di interviste a tutti i principali giornali nazionali, la comunicazione è stata una delle principali attività legate al suo mandato.
Torniamo alle slide illustrate al premier Renzi. Il commissario alla spesa sottolinea che «occorre accelerare la pubblicazione di banche dati». Ed elenca: «Banca dati delle amministrazioni pubbliche della Ragioneria generale dello Stato, ora aperta a varie amministrazioni pubbliche, è prevista essere aperta al pubblico in primavera. Integrazioni nei contenuti sono opportune»; «La banca dati dell’autorità di vigilanza nei contratti pubblici deve essere aperta completamente al pubblico»; «La banca dati del Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze, ndr ) sulle partecipate locali è stata resa disponibile al pubblico il 28 febbraio e verrà aggiornata regolarmente»; «La banca dati del Sose sui costi standard dei Comuni va aggiornata, il flusso di ritorno deve essere dato ai Comuni e, successivamente, deve essere aperta al pubblico». Terzo punto sulla trasparenza secondo Cottarelli riguarda un «principio generale: tutto deve essere disponibile on line tranne quello che è esplicitamente confidenziale designato come strettamente confidenziale per ovvi motivi». Infine, ultimo punto riguarda i «dibattiti pubblici su programmi di spesa».
Il contratto tra un ministero e un alto dirigente pubblico, dunque, non dovrebbe rientrare tra gli atti confidenziali.
RENZI_: ANNUNCI E REALTA’, di Dario De Vico
Pubblicato il 13 marzo, 2014 in Politica | No Comments »
Dire che le conferenze stampa alla Renzi sono ispirate alla più completa irritualità è diventato in poco tempo un eufemismo. Il neopremier ieri ha illustrato le scelte e i provvedimenti votati poco prima in Consiglio dei ministri alla stregua di un banditore e francamente il metodo non aiuta. Specie quando sono in gioco misure complesse, quando si tratta di valutare i delicati equilibri di finanza pubblica o solo individuare il perimetro delle novità normative, una più pacata trasmissione delle informazioni giova. Sicuramente al lavoro dei media (compresi quelli stranieri) ma ancor di più a quella trasparenza del rapporto tra politica e cittadini che rientra tra gli intendimenti prioritari di Matteo Renzi.
Ieri quest’obiettivo non è stato centrato perché alla fine dello show sappiamo i titoli dei provvedimenti che il premier ha fatto approvare, conosciamo l’indirizzo di alcuni di essi ma ci è rimasta la sensazione di non aver del tutto chiara la relazione che intercorre tra le decisioni di spesa adottate (e scandite) e le coperture di bilancio. Al punto che dovremo giocoforza aspettare il Def (il Documento economico-finanziario) per poter usufruire di elementi più certi di valutazione. Come riuscirà, ad esempio, il bisturi della spending review nel 2014 a raddoppiare i risparmi dai 3 miliardi previsti finora da Carlo Cottarelli ai 7 promessi ieri da Renzi? E ha senso adottare come riferimento per il rimborso dei debiti della pubblica amministrazione una stima di Bankitalia (90 miliardi) contestata ancora pochi giorni fa dal ministro del Tesoro uscente, che ha parlato di un pregresso limitato a 50 miliardi?
I dubbi, dunque, ci sono e abbracciano sia metodo che merito ma non per questo annullano il valore di singole scelte operate ieri dal governo. Al di là delle stime quantitative è giusto sbloccare i pagamenti dello Stato e degli enti locali alle imprese, è più che sensato semplificare la via crucis dell’apprendistato, hanno una loro ratio provvedimenti-ossigeno come quelli destinati a mettere in sicurezza le scuole, è utile venire incontro alle imprese tagliando i costi dell’energia, dell’Irap e dell’Inail ma soprattutto va apprezzata l’idea di ridurre le tasse ai redditi fino a 25 mila euro con la speranza che la mossa generi un rilancio dei consumi. E ha fatto bene Renzi anche a individuare per il suo jobs act lo strumento della legge delega invece che riscrivere di botto e per l’ennesima volta le regole del mercato del lavoro.
Restano tutte in campo, invece, le perplessità per l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Nessuno nella condizione in cui versa il nostro Paese ha voglia di vestire i panni di Cassandra ma intravediamo il pericolo che in mezzo a tante coperture aleatorie alla fine la contropartita più corposa e certa passi ancora una volta attraverso l’incremento delle entrate fiscali. E temiamo che ciò possa rivelarsi alla fine un indigesto antipasto della patrimoniale . Il Corriere della Sera, 13 marzo 2014
.….De Vico, butta acqua sul fuoco che eglis tesso ha acceso. La sceneggiata di Renzi, tanto vanesia quanto offensiva per la gente, è prova che siamo più ad uno spettacolo da circo equestre che non nella dura realtà di un governo che non deve annunciare ma deve fare. Renzi ha vinto le primarie del PD, poi la cacciata di Letta, giocando con l’unica cosa che sa usare, cioè le parole, ma con le parole non si governa, anzi… E la verità, sebbene ammorbidita dala speranza, come la descirve De Vico è che Renzi continua ancor oggi che ha la responsabilità di governo a giocare con le parole e fare annunci che rischiano di rimanere tali, con grande rabbia degli italiani. g.
LA RIFORMA ELETTORALE A META’ TRA IL RIDICOLO E IL GROTTESCO
Pubblicato il 6 marzo, 2014 in Politica | No Comments »
Il filo da acrobata su cui Renzi cammina ha resistito alla prima prova della legge elettorale, ma si è fatto molto più sottile. Ora che è al governo, il premier ha dovuto scegliere tra le due maggioranze, e ha ovviamente preferito quella di governo. Più ancora che Alfano, a imporlo è stato il Pd. Dal Pd non renziano, tuttora in maggioranza a Montecitorio, viene l’emendamento vincente che limiterà la riforma elettorale alla Camera, e da quel Pd Renzi rischiava, in caso contrario, una sonora bocciatura in Aula. Berlusconi, il contraente dell’altro patto, ha dovuto accettare, seppure con «grave disappunto». Per un po’ di tempo il Cavaliere non potrà fare molto altro. Da oggi le due maggioranze di cui disponeva Renzi si sono ridotte a una e mezza: quella con Alfano, che si allarga a Berlusconi sulle riforme. D’altra parte, l’ultima volta che una doppia maggioranza ha funzionato risale ai tempi di De Gasperi a Palazzo Chigi e Terracini alla Costituente. Altri uomini.
Il compromesso trovato ieri ha una sua logica. «Avremmo fatto ridere il mondo con una riforma elettorale inapplicabile per il Senato», ha detto ieri il senatore Quagliariello, e ha ragione. Però la soluzione escogitata non suscita minore ilarità: una riforma applicabile solo alla Camera. Il che vuol dire che se per caso o per scelta il Parlamento non eliminerà del tutto il Senato elettivo, alle prossime votazioni avremo un sistema che dà certamente una maggioranza a Montecitorio e altrettanto certamente non la dà a Palazzo Madama. Provate a spiegarlo a un marziano, o anche a un tedesco. Se si aggiungono le tre soglie diverse, un premio di soli sei seggi e la deroga alla Lega, si apprezza fino in fondo l’«esprit florentin» della riforma che sta nascendo.
Come tutte le soluzioni a metà anche quella trovata ieri contiene una buona opportunità ma anche un immenso rischio. Garantisce al Parlamento il tempo necessario, gliene servirà più di un anno, per cambiare la Costituzione. Ma il fallimento, o la dilazione alle calende greche, stavolta ci precipiterebbe in una situazione perfino peggiore di un pessimo passato.
Sospettare che qualcuno dei giocatori stia barando sotto il tavolo è del resto legittimo. Suona infatti strano che, mentre tutti la danno per scontata, non sia stata in realtà neanche presentata da Renzi una bozza di riforma del Senato. Eppure aveva indicato un cronoprogramma che ne prevedeva entro l’estate l’approvazione in prima lettura, e proprio al Senato.
È quello il vero ostacolo della corsa. E non è un caso se la proposta di legge non c’è ancora. Il fatto è che il progetto iniziale di Renzi non convince: in molti, pare di capire anche nella Consulta, hanno seri dubbi a trasformare la Camera Alta in una sorta di Cnel di sindaci piuttosto che in un Bundesrat alla tedesca. È giunto dunque il momento di scegliere. Ieri il premier ha salvato la velocità della macchina che ha messo in moto, ora deve indicare il traguardo. Antonio Polito, Il Corirre della Sera, 6 marzo 2014
………………Alla prima prova emerge la verità su Renzi: è un nuon acrobata di un circo di serie C, ma se dovesse saltar di serie salterebbe in aria. Per il momento tira a campara, proprio come il Maestro di quest’arte che rimane indiscutibilmente lo scomparso Giulio Andreotti. Ma nessun paragone è possibile tra un cavallo di razza quale fu Andreotti e un asinello fiorentino come è Renzi. g.
I PROPRI INTERESSI COME IDEOLOGIA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 28 febbraio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »
Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.
Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura – dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità – si sono arrese ai tempi nuovi.
In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).
La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché – nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. – per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale – come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà – dietro l’ossequio formale ai politici – a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia. Fonte: Il Corriere della Sera
RENZI: IN GERMANIA LO PARAGONANO A MR. BEAN
Pubblicato il 26 febbraio, 2014 in Politica, Politica estera | No Comments »
Così la stampa tedesca vede Renzi, lo paragona a mr. Bean, cioè ad una maschera comica se non pagliaccesca. E Renzi non è ancora andato a Berlino, chissà quando ci andrà come ce lo disegneranno i tedeschi, abituati alla serietà e alla compostezza, anche quando, anzi specie quando stanno per farla a qualcuno. Intanto Renzi, in attesa di andare a Berlino, ha fatto le prove generali questa mattina a Treviso dove ha già iniziato a fare marcia indietro. A un imprenditore che gli chiedeva di eliminare o ridurre l’IRAP, tutto giulivo ha detto che avendo a disposizione 10 miliardi – ma non li ha ancora dovendo il neo ministro dell’Economia ancora trovarli da chissà dove – per ridurre il cuneo fiscale come promesso in Parlamento, se riducesse l’IRAP, che vale 30 miliardi, di un terzo, cioè 10 miliardi, favorendo così gli imprenditori, non ci sarebbero più i 10 miliardi per ridurre il cuneo fiscale. Gli è sfuggito che una cosa è l’IRAP e un’altra cosa è il cuneo fiscale, perchè mentre l’IRAP pesa sugli imprendtori, il cuneo fiscale riguarda i lavoratori. Insomma, in breve, Renzi, senza volerlo, forse, ma forse neanche rendendosene conto, ha praticamente detto quello che sanno da sempre tutti e cioè che il problema del nostro Paese è la mancanza di risorse difronte all’enorme debito pubblico alimentato da una spesa pubblica improduttiva che nessuno si sogna di tagliare. La prova? L’avremo fra qualche ora quando saranno nominati viceministri e sottosegretari. Si parla di una cinquantina di teste che servono per tenere buoni i tanti malpancisti il cui voto è stato necessario specie al Senato, per far andare in mare aperto il governicchio di Renzi e senza dei quali la barca rischia di andare a fondo prima ancora di allontanarsi dalla riva. Intanto, però, teniamoci lo sberleffo della stmpa tedesca che ci ricorda il risolino della Merkel su Berlusconi. E se tanto ci dà tanto, non ci sarà da meravigliarsi che l’ex legionaria della Germania dell’Est quando lo vedrà Renzi, se lo spupazzerà come vuole. g.
IL SINDACO DEGLI ITALIANI CHE NON HA L’ETA’, di Sarina Biraghi
Pubblicato il 24 febbraio, 2014 in Politica | No Comments »
Affidiamo al commento di Sarina Biraghi, opinionista de Il Tempo, la valutazione del discorso di Renzi in Senato. Noi avremmo scritto – sintetizzando – niente di nuovo sotto il sole. Ma nella sostanza non è diversa l’opinione della Biraghi. Eccolo