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VOTO SEGRETO O PALESE: IL RISPETTO DELLE REGOLE

Pubblicato il 17 settembre, 2013 in Politica | No Comments »

Noi italiani scambiamo le regole per tegole. Sicché, quando ci cascano addosso, le schiviamo. E un minuto dopo corriamo a fabbricare un’altra tegola (pardon, regola), cercandovi riparo. È già successo mille volte, sta forse per succedere di nuovo. Oggi il Movimento 5 Stelle proporrà una modifica al regolamento del Senato, allo scopo d’ottenere un voto palese sulla decadenza di Silvio Berlusconi. Consensi dalla Lega, applausi da Sel, aperture dall’Udc e da Scelta civica, benedizioni da autorevoli esponenti del Pd. E ovviamente un altolà dal Pdl, che difende la regola vigente, ossia lo scrutinio segreto.

C’è una nobile ragione di principio sotto quest’ennesima baruffa sulle regole? Macché, c’è un calcolo politico. Il Pdl spera che il segreto dell’urna favorisca smottamenti nel fronte avverso, sulla carta largamente superiore. Perché la decadenza di Berlusconi rischia di trascinarsi dietro la decadenza della legislatura, con una crisi di governo e poi con lo scioglimento anticipato delle Camere. E perché, si sa, nessuno degli eletti ha voglia di fare le valigie. Dal canto suo il Pd teme giochetti da parte dei grillini: potrebbero salvare in massa l’illustre condannato, per poi addossarne la colpa alla sinistra. Ma soprattutto teme imboscate al proprio interno, giacché i 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Prodi al Quirinale sono ancora lì, e tramano nell’ombra. Dunque la nuova parola d’ordine è la stessa che Gorbaciov coniò negli anni Ottanta: glasnost , trasparenza. D’altronde come si fa a non essere d’accordo?

Si fa, si fa. Intanto per una ragione di merito, perché non è affatto vero che la segretezza convenga solo ai ladri. Non a caso la Costituzione proclama il nostro voto d’elettori «libero e segreto». Questi due attributi si tengono a vicenda: il voto è libero unicamente se resta segreto. Altrimenti potremmo subire ritorsioni dal datore di lavoro, minacce dai politici, o più semplicemente potremmo farne mercatino, vendendolo al miglior offerente. E il voto degli eletti? Qui la libertà deve coniugarsi con la loro responsabilità verso gli elettori. Dopotutto se ti ho dato fiducia devo pur sapere se la meriti, se stai mantenendo le promesse. Però siccome ogni democrazia parlamentare accoglie il divieto di mandato imperativo, siccome ormai l’imperatore non è tanto il cittadino bensì il capopartito, allora la segretezza dei voti espressi nelle assemblee legislative suona come il riscatto dei peones, l’ultimo presidio della loro dignità.

Queste due opposte esigenze possono combinarsi in varia guisa. Fino al 1988 era regola il voto segreto, mentre quello palese veniva usato in casi eccezionali. Dopo la riforma dei regolamenti parlamentari s’applica la regola contraria; tuttavia l’eccezione – e cioè il voto segreto – continua a governare le votazioni sui diritti di libertà, sui casi di coscienza o infine sulle singole persone. Il caso Berlusconi, per l’appunto; quantomeno al Senato, giacché alla Camera funziona anche qui il voto palese. Merito di Craxi, salvato nel 1993 dai franchi tiratori, sicché Montecitorio s’affrettò a riformare la riforma. Alla fine della giostra la questione sta allora nel metodo, prima ancora che nel merito. Possiamo calibrare come più ci aggrada il rapporto fra scrutini segreti e palesi. Possiamo anche sbarazzarci della prerogativa che rende i parlamentari giudici di se medesimi, trasferendola per esempio alla Consulta. Ciò che invece non possiamo fare è di scrivere un’altra regola ad personam o meglio contra personam . Per rispetto delle regole, se non della persona. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 17 settembre 2013

………………………Alla vigilia del voto sulla decadenza di Berlusconi, questo breve saggio di un “saggio” (Ainis è uno dei 40  incaricati di  elaborare le riforme costituzionali ed istituzionali) è quanto mai utile, quanto meno per stabilire che se sono una vergogna le leggi ad persona,  lo sono altrettanto quelle contra personam. Conme quella che si vuole adottare nel casi di Berlusconi, per cui i cacciatori di streghe divengono essi stessi streghe, anzi stregoni. g.

CASO ILVA: TANTI SALUTI ALL’INDUSTRIA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 15 settembre, 2013 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 15 settembre 2013

……Se avessimo detto o scritto su questo blog ciò che scrive Panebianco a proposito dell’Ilva e dei magistrati onniscenti che ormai hanno immobilizzato il Paese e lo stanno trascinando verso l’abisso, ci sarebbe stato di certo il cretino di turno (ne abbiamo in mente uno che in  materia di cretinismo è il numero superuno)  che ci avrebbe accusato di volere la morte della gente di Taranto e ci avrebbe  arruolato nell’esercito dei delinquenti. Non ci avrebbe scalfito più di tanto perchè piuttosto che essere imbecilli talvolta può essere più conveniente (per gli altri) non esserlo. Il caso dell’Ilva è stato ridondante di imbecillità dall’inizio e ricorda da vicino un altro caso clamoroso: Punta Perotti. L’ecomostro – come fu definito dalla pubblicistica del tempo – nacque e crebbe e si innalzò sulle sponde del lungomare barese sotto gli occhi della magistratura che a quel tempo occupava un palazzo poco distante per cui non poteve non accorgersene. Ma stette zitta, non fiatà, sino a quando i palazzi avevano già assorbito ingenti risorse e i suoi appartamenti posti sul mercato immobiliare per la vendita. Solo allora i magistrati partirono all’attacco condotto sino in fondo, sino all’abbattimento che ha prodotto danni ingentissimi, finanziari, e d’immagine,  i cui risarcimenti sono oggetto di sentenze di altre magistrature, comprese quelle europee. Così l’Ilva. Sta lì, da decenni, si chiamava centro siderurgico e all’epoca della sua nascita fu considerato una sorta di risarcimento al sud bistrattato. Per decenni ha caratterizzato, nel bene e nel male, la crescita non solo di Taranto ma dell’intero suo hinterland che si estenede anche oltre i confini di quella provincia. Per decenni il siderurgico, passato attraverso mille traversie anche finanziarie, ha dato lavoro e sicurezza economica a migliaia di lavoratori e di famiglie, per decenni gli ecologisti, sopratutto quelli che di giorno concionano contro la modernità ma la sera non se ne fanno mancare neppure una, hanno innalzato cartelli e promosso cortei di protesta, e per decenni i magistrati tarantini hanno girato la testa dall’altra parte. Non dovevano mantenerla girata la testa dall’altra parte,  ma come dicevano i i romani, maestri di diritto,  “modus in rebus”. Invece no. Avendo deciso di rigirarla dopo decenni di sonnolenza hanno scatenato tutta la loro potenza di fuoco per ottenere quello che sta accadendo e che non riguarda solo l’Ilva, Taranto, la sua provincia.  Riguarda tutta l’Italia e la sua già disastrata economia oggetto di bramose attese da parte della concorrenza, in ogni settore, ovviamente anche in quello dell’acciaio. La sistematica “attenzione” della magistratura  verso il grupppo Riva  che tra tante colpe pur qualche merito deve avercelo, ha prodotto il blocco del sistema siderurgico in  ogni parte del Paese, proprio quando il Paese ha bisogno di trovare ragioni e occasioni di ripresa per uscire dal tunnel nel quale siamo stati ficcati dalla balardaggine americana e dalla miopia della burocrazia europea, anzi, sopratutto tedesca che non potrà che gioire dell’ennesima imboscata all’industria italiana. E la politica che fa? Non è risuscita a bloccare, pur essendo la politica sovrana in un sistema di democrazia, l’azione distruttiva di un  magistratura straboccante e si balocca su questioni che sono come il pelo nell’uovo. Chi ha fame il pane lo inzuppa anche lì dove c’è il pelo, badando alla sostanza e tralasciando la forma. Altrimenti di forma finiremo col morire.g.

COME PREMIARE L’ILLEGALITA’….A NAPOLI SI PUO’

Pubblicato il 13 settembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Circola in Italia una strana idea di legalità. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l’illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all’unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all’abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c’è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi.

Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l’occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell’edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall’esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga.

Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L’ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l’ha, avendola occupata con la forza o l’astuzia. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 settembre 2013

……Scommettiamo che se De Magistris, in questa circostanza,  invece che sindaco di Napoli fosse  stato procuratore della Repubblica,  il sindaco, chiunque fosse, lo avrebbe arrestato? E per una volta avrebbe avuto ragione perchè legalizzare un reato quale è non solo l’occupazione abusiva di una casa ma anche la sottrazione della proprietà al legittimo proprietario, per di più con la forza, è a sua volta un reato che va perseguito e punito, severamente e immediatamente,  visto che la sempre invocata Costituzione “più bella del mondo” riconosce e tutela la proprietà privata.  Invece De Magistris, come denuncia Polito, se ne è uscito con una tesi  che più che l’arresto meriterebbe la gogna:  legalizzare il reato serve a riconoscere il diritto alla casa….e il diritto di chi la casa se l’è vista sgraffignare sotto il muso? Diciamoci la verità: De Magistris, come tanti come lui, è quel che ci meritiamo allorchè andando a votare dimentichiamo l’antico adagio che ammoniva: il meglio  (o quel che tale appare) è sempre nemico del bene. Ogni riferimento a ciò che è sotto il nostro naso è puramente voluto. g.

SE NON E’ ZUPPA, E’ PAN BAGNATO: AMATO GIULIANO, IL DOTTOR SOTTILE DI CRAXI, NOMINATO GIUDICE COSTITUZIONALE

Pubblicato il 12 settembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Giuliano Amato giudice costituzionale

ROMA, 12 SET – Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “con decreto in data odierna, ha nominato ai sensi dell’art. 135 della Costituzione, Giudice della Corte Costituzionale il Professore Giuliano Amato”. Fa parte delle prerogative del Capo dello Stato scegliere cinque dei quindici ‘giudici delle leggi”’.

“Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano con decreto in data odierna – si legge nella nota del Quirinale – ha nominato ai sensi dell’art. 135 della Costituzione, Giudice della Corte Costituzionale il Professore Giuliano Amato, in sostituzione del Professor Franco Gallo, il quale cessa dalle sue funzioni di Giudice e di Presidente della Corte Costituzionale il prossimo 16 settembre. Il decreto è stato controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Onorevole Dottor Enrico Letta. Della nomina del nuovo Giudice Costituzionale il Capo dello Stato ha dato comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente della Corte Costituzionale”. Fonte ANSA, 12 settembre 2013

…………………..L’antico proverbio contadino è quanto mai “azzeccato” per l’ultima nomina di Napolitano che non contento di aver infoltito la sinistra del Senato con quattro nuovi senatori a vita al costo sine die di un milione di euro all’anno, stamattina ha nominato un nuovo giudice costituzionale, e guarda caso anche questa volta di sinistra, nella persona di Giuliano Amato, meglio noto come il prezzemolo di tutte le minestre, da quella craxiana, a quella dei banchieri a cui dedicò la “rapina” cui sottopose i conti correnti degli italiani nel 1992, depredandoli notte tempo di una prelievo forzato mai più restituito. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti di tutti i fiumi del mondo ma lui, il Giuliano nazionale, il dottor sottile che suggeriva a Craxi le mosse politiche, è riuscito non solo ad uscire indenne da ogni sconvolgimento ma ha tratto fior di vantaggi,  dalla nomina a premier nel 1992 al posto di Craxi che tradì senza indugi, alla nomina  apremier dopo D’Alema agli sgoccioli della maggioranza ulivista di Prodi del 1996. Qualche settimana fa non gli è riuscito di fare bingo con la elezione a presidente della Repubblica che avrebbe aggiunto un ulteriore sonoro tintinnare di emolumenti mensili a quelli, davvero miserabili che riscuote ogni mese: 35 mila euro, ma non si è perso d’animo ed infatti dopo una breve attesa intervallata dalla mancata nomina a seatore a vita ecco la nomina a giudice costituzionale, nell’ambito della quale, potrebbe, forse a breve, dimostrare il suo eterno contorcimento, negando a Berlusconi, ex amico di Craxi e quindi anche suo ex amico, una qualsivoglia benevolenza a proposito della legge Severino ove fosse quest’ultima  fosse sottoposta al vaglio di costituzionalità. Anche in questo malaugurato caso il nostro non  si sottrarrebbe e farebbe il suo dovere: sempre al servizio di Sua Maestà  di Chi comanda. g.

SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO

Pubblicato il 11 settembre, 2013 in Politica | No Comments »

Se gli ultimi tentativi di mediazione fallissero, se l’ultimo, accorato appello del presidente Napolitano cadesse nel vuoto e il Pdl optasse nelle prossime ore per la spallata finale al governo Letta, allora non ci sarebbe nemmeno un vincitore, ma sul terreno solo uno stuolo impressionante di vinti.

Sarebbe sconfitta innanzitutto l’Italia, la cui condizione economica preoccupa ancora l’Europa e il cui spread ha proprio ieri sorpassato quello spagnolo. Perderebbero le istituzioni, che nella scorsa primavera, quando i partiti in Parlamento avevano mostrato tutta la loro penosa impotenza, furono salvate con uno sforzo d’emergenza attraverso la rielezione di Giorgio Napolitano. E il capo dello Stato, come è noto, si è detto personalmente e istituzionalmente indisponibile, fino alle estreme conseguenze, a giochi e manovre che farebbero ripiombare l’Italia nel caos politico.

Non vincerebbe lo stesso Berlusconi, che non vedrebbe minimamente migliorata la propria condizione personale, drammaticamente invischiata in vicende giudiziarie il cui automatismo oramai non sarebbe recuperabile neanche da una linea di condotta ultra-aperturista del Pd nella Giunta del Senato.

Non vincerebbe il centrodestra, decapitato del suo leader, frastornato, illuso, incapace di capire che il burrone è molto vicino e che senza un rinnovamento radicale di leadership, di classe dirigente, di linguaggio la partita è perduta, per quante fantasmagoriche performance Berlusconi sia ancora in grado di esibire in campagna elettorale, il suo terreno preferito ma che da ora in poi dovrà affrontare come un’anatra zoppa.

Non vincerebbe il centrosinistra, già pronto ad inebriarsi per la scomparsa del Nemico da cui è stato battuto tanto frequentemente, ma che sembra condannato all’eterna ripetizione degli stessi errori. Non vincerebbe il Pd, che anche ieri ha dimostrato di intrattenere un rapporto morbosamente ambiguo con il movimento di Grillo, colpito sì dai suoi insulti ma anche segretamente tentato dall’idea di una pur sbrindellata alleanza per mettere definitivamente all’angolo il centrodestra. Svanirebbe la stessa idea di riforme costituzionali condivise, la prospettiva di una riduzione del numero dei parlamentari, di maggiori poteri al capo del governo, della fine del paralizzante bicameralismo perfetto, del ridimensionamento dei costi della politica, Province in primis, che sembrano inscalfibili.

Impallidirebbe la speranza che sia possibile in Italia una normale democrazia dell’alternanza, in cui gli schieramenti si contendano la guida del governo, ma non vogliano perseguire l’annientamento reciproco, come è accaduto in questi venti anni e come i coriacei detrattori della «pacificazione» vorrebbero che continuasse in una rissa infinita e inconcludente. Perderebbero tutti e si correrebbero gravi «rischi», come avverte Napolitano. C’è ancora pochissimo tempo per sperare che ci si voglia fermare un centimetro prima del precipizio. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2013

……L’analisi è giusta, la diagnosi anche…quale terapia?

UNA MISTERIOSA OSSESISONE

Pubblicato il 9 settembre, 2013 in Politica | No Comments »

Il governo di larghe intese è stato voluto dal Pdl molto più che dal Partito democratico. Angelino Alfano fa bene a ricordarlo. Pier Luigi Bersani, sotto choc per la mancata vittoria elettorale, tentò in tutti i modi di formare un esecutivo diverso, appoggiato dagli eletti di Grillo. Solo dopo numerosi fallimenti, e grazie al presidente della Repubblica, il Pd accettò con sofferenza di varare una grande coalizione, nella quale non ha mai creduto fino in fondo.

Ma proprio questi dati di fatto rendono ancora più incomprensibile il comportamento del Pdl, o almeno di una sua parte, nell’estate politica dominata dalla condanna di Silvio Berlusconi. L’impegno a tenere separati la vicenda giudiziaria e il destino del governo è stato rimosso. Le minacce si sono moltiplicate fino a questi giorni di tregua apparente. Falchi e pitonesse hanno calcato la scena con dichiarazioni incendiarie contro tutto e tutti: dal capo dello Stato al presidente del Consiglio, dai giudici ai presunti traditori che si anniderebbero nel Pdl.

C’è qualcosa di misterioso nell’ossessione di aprire una crisi. Far cadere il governo e andare alle elezioni (ammesso che al voto si vada) non cambierà di un millimetro la situazione giudiziaria di Berlusconi. Il 15 ottobre la condanna diventerà operativa con la scelta tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Poco dopo arriverà la Corte d’appello che ricalcolerà gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Non c’è nessuno, in uno Stato di diritto, che possa ragionevolmente pensare che tutto ciò si possa cancellare con un colpo di spugna prima dell’esecuzione della sentenza e senza che l’ex premier ne prenda atto.

Certamente molte dichiarazioni di esponenti del Pd sulla decadenza in base alla legge Severino stanno dando una mano al partito della crisi. C’è una fretta sbandierata. Il diritto di difesa riconosciuto a tutti (compreso quello di valutare nel merito il ricorso alla Corte europea) e le obiezioni avanzate da importanti giuristi sembrano un fastidio. La voglia di eliminare l’avversario per via giudiziaria, un tratto distintivo della fallimentare politica dei Democratici nei confronti di Berlusconi, è fortissima.

È bene che la giunta che si riunisce oggi avvii un esame approfondito e lasci il tempo necessario alla difesa. Così la vicenda tornerà su un binario corretto. Perché lascerà nelle mani di Berlusconi una decisione che nessuno può prendere al suo posto. Riguarda il suo futuro personale e il destino del partito che ha fondato. Un atteggiamento rispettoso della legalità gli permetterà di continuare a svolgere, anche fuori dal Parlamento, un ruolo politico importante. E, dopo una richiesta avanzata da lui o dalla sua famiglia, il Quirinale potrà esaminare con serenità le ipotesi di clemenza o di commutazione della pena.

Ma, soprattutto, il leader del centrodestra italiano potrà riflettere su un punto decisivo. Dopo venti anni è tempo di avviare con serietà la costruzione di una nuova formazione dei moderati italiani. Nel Pd è in atto un processo di cambiamento generazionale, la coppia Enrico Letta-Matteo Renzi porterà questo partito fuori dalla tradizione post comunista. Il centrodestra può restare a guardare senza dare una prospettiva agli italiani che non si riconoscono nella sinistra? Non è possibile: anche in questo campo c’è bisogno di idee nuove e di una classe dirigente che sappia interpretarle e proporle al Paese. Tocca a Berlusconi, con i gesti e gli atteggiamenti giusti, decidere se esercitare una vera leadership favorendo questo processo. Altrimenti si consegnerà agli urlatori di professione in un cupo finale di partita.Il Corriere della Sera, 9 settembre 2013

………………..E’ così, tocca a Berlusconi, perchè la sua discesa in campo non risulti fine a se stessa, compiere scelte strategiche che consentano ai milioni di elettori che si sentono e sono moderati nella loro visione della vita, del costume, della morale, di avere lo strumento che possa essere megafono della loro voce, delle loro aspirazioni, delle loro speranze, delle loro convizioni, nonostante la sua uscita di scena. Tocca a lui scegliere se essere ricordato come l’uomo che ha ridato ai moderati un  luogo, fisico e politico, nel quale riconoscersi o essere indicato come colui che ha sacrificato a se stesso il sogno di sempre dei moderati: concorrere alla nuova ricostruzione del Paese dopo quella del secondo dopoguerra che fu opera e merito della DC che allora fu diga al comunismo come oggi deve essere diga al dilagante conformismo di sinistra un nuovo soggetto politico che non sia soltanto ascia di guerra e strumento fazioso nelle mani di pochi ras. Confidiamo che il presidente Berlusconi nell’imminente suo personale crepuscolo sappia e voglia dare una nuova alba al grande popolo dei moderati italiani. g.

ECONOMIA: PRIGIONIERI DI UNA ILLUSIONE

Pubblicato il 7 settembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

Il presidente del Consiglio ha usato l’analogia del cacciavite: «Dobbiamo rendere più efficienti le istituzioni. Ci proponiamo di farlo con interventi normativi, non riforme epocali. Useremo il cacciavite, facendo prevalere l’esigenza dell’efficacia sulla bandiera della politica». Vanno in questo senso provvedimenti come una nuova legge Sabatini per finanziare gli investimenti, l’ampliamento dei criteri per l’accesso al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, aiuti agli investimenti per ricerca e innovazione, norme sblocca-cantieri.

In un’Italia dove ci si è troppo attardati ad aspettare il Godot delle Grandi Riforme, un governo che vuole usare un cacciavite è benvenuto. Purché questo non riveli l’impotenza della politica. La piccola manutenzione è decisiva quando la macchina dello Stato funziona e ha solo bisogno di essere messa a punto. Non è il nostro caso. Soffriamo di una combinazione di deficit ben più gravi di quello dei conti pubblici: un apparato burocratico che ostacola, anziché agevolare, le riforme, e una mancanza di prospettiva.

Il governo rischia di rimanere stritolato. La politica è impegnata in un regolamento di conti fra centrosinistra e centrodestra: elaborare un progetto per il Paese che verrà pare l’ultima delle preoccupazioni. L’apparato statale, con la scusa di supplire alle carenze della politica, ha l’unico obiettivo, sin qui pienamente raggiunto, di perpetuare se stesso. Non basta il cacciavite. L’esempio più evidente sono le storture del mercato del lavoro, ancora l’altro ieri sottolineate da Dario Di Vico, che impediscono di creare occupazione persino là dove sarebbe possibile.

Taluni guardano all’Europa come al salvagente al quale aggrapparsi; altri come a un macigno che ci affonda. Entrambi sbagliano: siamo noi la fonte dei nostri problemi e noi soli possiamo risolverli. L’Europa è utile quando sappiamo sfruttarne gli esempi e gli stimoli, dannosa se ci limitiamo a subirla. Sinora il governo ha dato l’impressione di accettare passivamente i vincoli che Bruxelles impone ai conti pubblici, senza chiedersi se davvero essi ci aiutino davvero a uscire dalla crisi. Anziché vincolarci a un deficit inferiore al 3 per cento del Prodotto interno lordo già da quest’anno (senza alcun impegno sulle riforme), avremmo dovuto concordare con l’Europa un programma pluriennale che avesse come obiettivo la crescita. Cominciando dalla riforma del mercato del lavoro, rimettendo mano alla legge Fornero, alla scuola, alla concorrenza, a una burocrazia soffocante.

E soprattutto avviando una riduzione graduale ma certa della spesa, che liberi, entro un triennio, 50 miliardi da destinare al taglio delle tasse sul lavoro: quanto serve per condurre il nostro cuneo fiscale (la differenza fra la busta paga del lavoratore e il costo per l’impresa) al livello tedesco. In questo triennio violeremmo il vincolo del 3%, come la Francia: ritorneremmo a essere sorvegliati da Bruxelles, ma questo può solo aiutare l’attuazione delle riforme e garantire i tagli di spesa. Altrimenti, prima della fine dell’anno sfonderemo il limite del 3%, e a quel punto l’unica strada sarà la solita: aumentare l’Iva accompagnandola con qualche altro balzello fiscale, come già prevede la clausola di salvaguardia che innalzerà l’anticipo delle imposte dovute il prossimo anno.

Ps: un mese fa il Senato ha votato un ordine del giorno che impegna il governo a modificare entro giovedì prossimo, ultimo giorno utile, la norma della legge Severino che prevede la chiusura di 31 tribunali e 31 Procure. Se il governo lo farà ogni impegno a tagliare la spesa apparirà per ciò che probabilmente è: parole al vento. ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI Il Corriere della Sera, 7 settembre 2013……

…..Ci possono giurare Alesina e Giavazzi che il taglio dei Tribunali per tagliare le spese farà  8ha già fatto!)la stessa fine del taglio dei costi della politica che con una firma di Napoliabno soino aumebntati di un milione all’anno, tanto quanto serve per i quattro neo senatori a vita. g.

I NOMI CAMBIANO, LE TASSE RESTANO: TUTTI I BALZELLI E I RINCARI DA 15 ANNI IN QUA

Pubblicato il 1 settembre, 2013 in Economia, Politica | No Comments »

L’hanno chiamato pomposamente federalismo fiscale, abbiamo scoperto che si traduceva prosaicamente in: più tasse per tutti. È il frutto avvelenato del fisco creativo della seconda Repubblica che – certo – insieme alla ubriacatura a corrente alternata per le devoluzioni ha dovuto fare i conti con il debito monstre prodotto dalla prima Repubblica dei partiti.

ENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBEROENRICO LETTA TASSE BY BENNY PER LIBERO

Siamo arrivati così a una pressione fiscale che sfiora il 45 per cento. Tasse, tasse e sempre tasse. Con una babele di acronimi orribili (Ici, Irap, Irpef, Tarsu, Tia, Imu, Ires), altri improponibili e dal futuro già segnato (Tares che è anche una pistola, usata dai poliziotti americani, per sparare scariche elettriche) fino ad approdare ai confortevoli ma assai nebulosi anglicismi: Service tax. E cioè?

Dal 1996 al 2011, in quindici anni, le entrate tributarie dei governi locali (Regioni, Province e Comuni), bilanci dello Stato alla mano analizzati dal centro studi della Cgia di Mestre, sono letteralmente esplose: + 114,4 per cento, pari in termini assoluti a una crescita di circa 102 miliardi di euro. Sono usciti dalle tasche degli italiani per andare (più o meno) nelle casse dei governi locali ai quali lo Stato centrale ha via via attribuito più competenze ma anche tagliato più trasferimenti. I Comuni, mediamente, sono con l’acqua alla gola.

Quelli praticamente falliti come Taranto, Catania e la stessa Roma sono stati salvati. Dallo Stato centrale, però. Con le tasse di tutti, senza che nessuno abbia mai pagato pegno.
Si è cominciato con l’Ici, agli albori della seconda Repubblica, era il 1992. L’imposta comunale sugli immobili.

case e catastocase e catasto

Che però è stata prima abolita (Silvio Berlusconi ci vinse la sua penultima campagna elettorale) proprio quando arrivava (si fa per dire) il federalismo fiscale, per essere sostituita dall’Imu che però non piace più e diventerà Service tax, di cui faranno parte la Tari, che prenderà il posto della Tarsu o della Tia (le imposte sui rifiuti), e la Tasi, ossia la «misteriosa» (copyright di Massimo Bordignon sul sito lavoce. info)
imposta sui servizi indivisibili.

I criteri per il prelievo della Service tax saranno fissati dai singoli Comuni con alcuni paletti stabiliti dal governo centrale. Alla fine una girandola di sigle che – chissà perché – fa venire in mente la celebre frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Appunto.

Una tassa nuova con le vecchie dentro sembra un buon metodo. Già sperimentato. Con l’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive), ad esempio, la tassa più odiata dagli imprenditori italiani. Che nel 1998, assorbì i contributi sanitari, la tassa sulla salute, l’Ilor e l’Iciap. Sull’Irap e sull’Irpef poi – lo sappiamo a spese nostre – le Regioni possono intervenire con la loro “addizionale” che vuol dire far pagare di più soprattutto per colpa dei buchi nella sanità.

IMUIMU

Meccanismo che non va confuso con quello della “compartecipazione” (i vari livelli di governo si distribuiscono l’entrata) che vale anche, per esempio, per le accise sulla benzina. Sempre tasse sono. Con più esattori, però. E sempre gli stessi contribuenti.

Tasse e tariffe. Perché altrimenti come si fa a finanziare i servizi locali, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, dalla fornitura della luce a quella dell’acqua? A questo servono le tariffe. E per colpa della crisi, delle politiche di austerity imposte dalla Commissione di Bruxelles e dalla Bce di Mario Draghi, e il conseguente drastico taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia, le tariffe locali si sono impennate.

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In un anno – dati dell’Uniocamere – sono aumentate del 4,9 per cento, ben oltre il tasso di inflazione che, nell’arco dell’ultimo anno, si è attestato intorno al 3 per cento. Ed è nei trasporti che l’incremento del costo del servizio è stato tra i più marcati: in media +5,3 per cento con un picco del 9,3 per cento nei collegamenti extra urbani. Solo di poco inferiore l’aumento delle tariffe per la fornitura dell’acqua: + 6,7 per cento. E + 4,7 per cento quello per i rifiuti.

Che cosa resta del liberale principio “no taxation without representation”? L’illusione che quando si va alle urne (nazionali e locali) qualcuno prima o poi mantenga la promessa di abbassarle le tasse senza sostenere di non poterlo fare per colpa del buco lasciato in eredità dal suo predecessore. E senza cambiare solo il nome alle vecchie tasse. Fonte: DAGOSPIA, 1° settembre 2013

LA NEO SENATRICE A VITA CATTANEO A 51 ANNI E’ DIVENTATA MILIONARIA: GRAZIE, GIORGIO!

Pubblicato il 31 agosto, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Milionaria a 51 anni: la neo-senatrice a vita ha vinto al Superenalotto

Costo lordo annuo: 232.737,24 euro, di cui poco più della metà (120.777,24 euro) di stipendio base. Per una che fa la ricercatrice come Elena Cattaneo, nominata ieri senatore a vita da Giorgio Napolitano, è sicuramente un bello stipendio integrativo. Lei non ha vinto un premio Nobel come Carlo Rubbia. Non è un archistar come Renzo Piano. Non è un direttore d’orchestra conosciuto in tutto il mondo come Claudio Abbado (anche se nel 2005 si scoprì che faceva quasi la fame, visto che dichiarava al fisco appena 17.237 euro lordi pagando 3.965 euro di tasse). E soprattutto a differenza degli altri nominati senatori a vita la Cattaneo è molto giovane: compirà ad ottobre 51 anni, e a quella età nessuno mai nella storia d’Italia ha ottenuto quel seggio a vita. Solo Giovanni Leone divenne senatore a vita al di sotto dei 60 anni, che per altro avrebbe compiuto pochi mesi dopo la nomina. La ragione è evidente: quella nomina è consentita dall’articolo 59 della Costituzione per «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

Questa condizione salvo rarissime eccezioni è stata raggiunta da italiani normalmente verso la fine della propria carriera professionale. La Cattaneo è una ricercatrice apprezzata (non da tutti, visto che è stata protagonista di numerose polemiche sulla bioetica, quasi sempre contro i cattolici), ha studiato e lavorato a lungo all’estero, dirige il centro per le staminali dell’Università statale di Milano, è accademica dei Lincei, ha numerose pubblicazioni alle spalle, ma non ha ricevuto un premio Nobel né riconoscimenti scientifici simili. Si è impegnata anche politicamente, firmando il manifesto degli intellettuali a sostegno della candidatura di Pierluigi Bersani alle elezioni 2013 e partecipando anche alla sua campagna elettorale. Con questo curriculum e con questa età la Cattaneo ha ottime possibilità di conquistare la palma di politico italiano più pagato nella storia della Repubblica. Se vivesse a lungo come Rita Levi Montalcini, alla fine avrebbe ricevuto un premio da 12 milioni di euro. Ma anche vivendo fino a 90 anni accumulerebbe 9,3 milioni di euro solo come senatrice a vita. È assai probabile dunque che ieri Napolitano abbia deciso di assegnare qualcosa come dieci case di lusso in premio a una professoressa italiana che fin qui è stata assai divisiva per le sue posizioni scientifiche sia all’interno del mondo accademico che in quello culturale e religioso italiano. La Cattaneo per altro è stata protagonista di attacchi pubblici sia all’attuale ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che al suo predecessore, Renato Balduzzi. Ha fatto causa all’allora presidente del comitato di bioetica, Francesco Paolo Casavola, impugnato leggi italiane al Tar (perdendo), sostenuto su riviste internazionali che l’Italia era un Paese non democratico, attaccato con virulenza l’istituzione del Senato, accusata di «aggressione alla persona» per la legge sul biotestamento. Degli uomini politici italiani disse nel marzo 2009 che «sono pensatori privi di logica». In cambio della possibilità di conquistare quei 10 milioni di euro, però ora si rassegnerà a fare parte del gruppone…di Fosca Binche, Libero 31 agosto 2013

…..Ogni commento ci pare superfluo ed inutile.Possiamo solo aggiungere che con queste decisioni, la nomina di quattro nuovi senatori a vita che costeranno a  noi poveri contribuenti   la bellezza di un milione l’anno per chissà quanti anni a venire e  tra i quattro anche questa cinquantunenne  senza particolari meriti  e che suona offesa alle tante donne che dovranno aspettare grazie alla riforma Fornero i 68 anni per andare in  pensione e percepire una modesta pensione di fame,  l’on. Napolitano si è giocata ogni precedente  “amnistia” per i suoi trascorsi di comunista osannatore del più criminale sistema di governo che mai l’umanaità abbia conosciuto. Anzi no. Un’altra cosa resta da dire, la più importante: gli italiani sono sempre più incazzati neri con la casta, senza distinzione di colori. g.


IL VIZIO DELLE TASSE RETROATTIVE E L’INUTILITA’ DELLO STATUTO DEI CONTRIBUENTI

Pubblicato il 31 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

E’ inutile, ogni volta che il Fisco si muove, i contribuenti, in qualche modo, rischiano di perdere qualcosa. Anche quando appare animato dalle migliori intenzioni. Prendiamo l’abolizione dell’Imu sulle prime case non di lusso: un risparmio, certo. Ma poi tra le pieghe del provvedimento preso in esame dal Consiglio dei ministri, si scopre che c’è un passaggio dal titolo preoccupante: “Ripristino parziale della imponibilità ai fini Irpef dei redditi derivanti da unità immobiliari non locate”. Detto in modo più chiaro: era previsto il ritorno dell’Irpef e delle addizionali locali, seppure ridotte al 50%, sulle seconde case sfitte. Norma che ieri Palazzo Chigi ha assicurato che non verrà inserita nel testo in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Eppure quell’articoletto (numero 6 nella bozza) nascondeva un vizio antico dell’Erario, del quale non riesce proprio a fare a meno: quello delle tasse retroattive. Il pagamento dell’imposta doveva scattare da gennaio e non dalla data di pubblicazione del decreto legge (oggi). Con otto mesi d’anticipo. Troppi.

Tutto bene se in Italia non fosse (o forse si dovrebbe dire sarebbe) in vigore una legge di salvaguardia per i cittadini, il cosiddetto «Statuto dei diritti del contribuente». Una specie di scudo anti-soprusi. Un casco anti-balzelli iniqui. Leggiamo l’articolo 3: «…le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo». Un criterio minimo di tutela: le imposte vanno pagate ma soltanto per il futuro. Lo Stato non può cambiare le regole per il passato. Lo stesso principio che vale per le norme penali. Una protezione violata già centinaia di volte in nome del gettito. Una difesa che spesso lo Stato, con l’alibi dei vincoli di bilancio, aggira.

Come? Con una semplice parolina, che tanto spiega del modo tutto italiano di considerare i cittadini-contribuenti: basta infatti scrivere nelle norme fiscali la frasetta «in deroga» e, come d’incanto, lo Statuto del contribuente si trasforma da scudo scalcagnato in foglia di fico bucherellata. Esattamente quello che stava per accadere con la reintroduzione dell’Irpef sulle case sfitte passata nel consiglio dei ministri. Un caso isolato? Macché. Da poco è accaduto anche sul redditometro, il Fisco ha la possibilità di andare a verificare gli scostamenti sui redditi fino al 2009. Ma per avere uno Statuto così fragile e così facilmente aggirabile forse sarebbe più corretto (e serio) nei confronti dei cittadini gettarlo alle ortiche. Come si direbbe intermini giuridici: abrogarlo. Oppure rispettarlo. Senza trucchi. Il Corriere della Sera, 31 agosto 2013

……Questa si che srebbe una bella battaglia, quella per vietare che nelle leggi compaia la parolina “in deroga”, in nome della quale vengono commesse nefandezze di ogni genere. Se ne è occupato di recente anche un simpatico trattattello dal titolo appropriato: Privuilegium. Perchè ogni deroga è un privilegio che quando si tratta dello Stato è anche una vera e propria truffa, oltre che essere una inaccettabile violazione della certezza del diritto e della civiltà del diritto che vietano la retroattività di ogni norma quando in danno del cittadino, specie in materia fiscale. Ma c’è nel Parlamento, da destra a sinistra, passando per il centro qualcuno che se ne voglia intestare la titolarità? Non ci parem, visto che nessuna deroga è stata mai oggetto di ricorso alle supreme corti perchè ne cancellino gli effetti. Perciò…zitti mosca, non i contribuenti ma quelli che li rappresentano e che ad ogni occasione si dicono interpreti e difensori della “centrtalità” del cittadino…quale centralità? quella del pagatore! g.