Archivio per la categoria ‘Politica’
LE LEGGI RIMASTE VUOTE…, di Michele Ainis
Pubblicato il 28 agosto, 2013 in Politica | No Comments »
Due anni fa il governo Berlusconi decise d’investire sui prestiti d’onore agli studenti. Ottima idea, ottima iniziativa. Scopriamo adesso che fin qui ne hanno fruito in 597, quando negli Usa sono 39 milioni gli ex studenti che stanno saldando il loro prestito d’onore. Insomma l’ennesima promessa tradita, anche se il tradimento non fa mai notizia. La notizia sta sempre nell’annuncio, nel messaggio che accompagna l’ultima lieta novella normativa. Come l’abolizione del precariato nella pubblica amministrazione, decisa ieri dal governo Letta; e speriamo che sia vero. Altrimenti inciamperemmo su un’altra legge-manifesto: le «grida in forma di legge» su cui levava l’indice, già nel 1979, il Rapporto Giannini. A chi convengono? Perché restano orfane di ogni applicazione? E come mai alle nostre latitudini fioccano come la grandine?
A occhio e croce, questo fenomeno si manifesta in due sembianze. In primo luogo, le leggi fatte apposta per non funzionare. Fra cui s’inscrive, per l’appunto, la disciplina sui prestiti d’onore: un misero fondo di 19 milioni, un tasso d’interesse che scatta il primo giorno dopo il prestito (anziché dopo la laurea), e che fa schizzare la rata a mille euro al mese. Ovvio che non ci sia poi la fila agli sportelli. In secondo luogo, le leggi che reclamano ulteriori adempimenti normativi, per esprimere tutti i propri effetti. E se l’adempimento non viene mai adempiuto? Amen, la legge rimarrà una pia intenzione, una nuvola di parole mute.
Questi corpi celesti solcano da tempo il nostro orizzonte giuridico. Celebre il caso della vecchia legge sulla Protezione civile, inoperante perché priva del suo regolamento esecutivo. Da qui ritardi e disfunzioni nei soccorsi, quando nel novembre 1980 un terremoto devastò l’Irpinia; da qui un messaggio televisivo di Pertini, con parole di fuoco nei confronti del governo per la sua omissione normativa. Ma sta di fatto che negli ultimi anni gli episodi si moltiplicano, sicché l’eccezione è ormai diventata regola. Durante il gabinetto Berlusconi, per esempio, fu annunciata in pompa magna la riforma Gelmini dell’università, la cui efficacia dipendeva tuttavia da un centinaio di regolamenti futuri. Mentre il gabinetto Monti concluse la propria esperienza lasciando ai posteri 490 norme da rendere pienamente vincolanti, con regolamenti o con atti amministrativi.
Ma per quale ragione la politica italiana ha trasformato ogni legge in un inganno? Semplice: perché è incapace di decidere, e allora finge di produrre decisioni. Disegna acrobazie verbali, sciorina commi incomprensibili, che volano come coriandoli nel Carnevale del diritto. Oppure pratica l’arte del rinvio, confezionando norme che restano altrettanti corpi senza gambe, fin quando non interverrà la disciplina d’attuazione. D’altronde le leggi in quarantena possono ben rivelarsi utili dal punto di vista dei partiti. Nel 1945, dopo la guerra, in Norvegia conservatori e laburisti bisticciavano circa il mantenimento della legge sul controllo dei prezzi: i primi volevano abrogarla, i secondi no. Finì che la legge rimase in vigore, però soltanto sulla carta, giacché non venne più applicata; e così entrambi i partiti cantarono vittoria davanti al proprio elettorato.
Mezzucci, espedienti da magliaro. Ma in questo gioco illusionistico siamo noi i maestri, mica i norvegesi. Sicché, quando vi folgora l’annuncio dell’ultima rivoluzione normativa, mentre vi buca i timpani il coro contrapposto dei detrattori e degli entusiasti, sappiate che non è il caso di scaldarsi. In Italia la legge non è sempre una cosa seria. Il Corriere della Sera, 28 agosto 2013
.….Non è vero…quelle che impongono tasse, imposte, balzelli, non solo sono serie ma non hanno mai bisogno di regolamenti attuativi che rischiano di rimanere mai attuati. Queste leggi sono serissime e immediatamente esecutive, dal giorno stesso in cui vengono assunte, magari con la formula del decreto legge, da tutti deprecata ma da tutti utilizzata. Tanto a pagare sono i cittadini i cui lamenti, quelli si, restano inascoltati. g.
LA SOLITUDINE DEI MODERATI, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 26 agosto, 2013 in Politica | No Comments »
Se le cose continueranno a essere come sono oggi (ed è molto probabile), Berlusconi ha verosimilmente una sola via possibile per restare davvero al centro della vita politica italiana. Ma è una via che ha le tinte cupe dell’Apocalisse: andare ai «domiciliari», far saltare il governo, puntare al più presto alle elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale, vincerle. Una via non solo carica d’incognite per lui temibilissime (a cominciare dalle reazioni del presidente della Repubblica per finire con le ripercussioni sull’immagine e sulla tenuta economica del Paese), ma interamente all’insegna del «tutto o niente». E il «tutto o niente», se può sedurre la psicologia del giocatore, può anche condurre lo stesso alla rovina totale.
Esclusa l’Apocalisse non resta che il Tramonto: a oltre 75 anni di età (ma anche a 45 forse non farebbe differenza) non si può fare il leader effettivo di un partito e di un Paese nelle condizioni in cui si troverebbe Berlusconi stando ai «domiciliari». Dunque il Tramonto. E con esso la domanda inevitabile: che effetto avrebbe la scomparsa del Sole sulle sorti del Pdl? È ragionevole pensare che l’effetto sarebbe la sua virtuale dissoluzione. Un partito personale ben difficilmente riesce a fare a meno del fondatore-padrone, e Berlusconi lascia dietro di sé il vuoto, a cominciare dall’assenza di qualunque meccanismo collaudato in grado di prendere decisioni minimamente vincolanti per tutti. Esito più probabile, pertanto, una rissa inconcludente e feroce di cacicchi e cacicche minacciati di disoccupazione, di tutti contro tutti, con implosione finale del Pdl.
Ma che ne sarà a questo punto della vasta area elettorale che per un ventennio si è riconosciuta nel Pdl? Oggi come oggi è difficile immaginare che essa possa essere riorganizzata e integrata da un’iniziativa che parta dal Centro. Che sia questa la sola ipotesi ragionevole non vuol dire che sia anche quella che si realizzerà. In realtà, infatti, se Berlusconi è al tramonto, sul Centro si direbbe che la luce del giorno non sia mai neppure spuntata. Dalla batosta elettorale in poi da lì non è venuto assolutamente niente; da quel giorno Casini, Monti e i loro parlamentari avvizziscono, tristemente appollaiati su un inutile dieci per cento, peraltro ormai ridottosi nei sondaggi a poco più della metà.
Il tramonto berlusconiano, insomma, rischia di corrispondere per milioni di elettori, per l’area dello schieramento politico non di sinistra che vede insieme la Destra e il Centro, e che si è soliti chiamare «moderata», a una profonda crisi di rappresentanza politica. È una crisi che viene da lontano, che caratterizza in un certo senso l’intera storia della Repubblica, anche se per mezzo secolo essa è stata tenuta celata dalla presenza surrogatoria del partito cattolico, della Democrazia cristiana. Ma se ci si pensa con attenzione – Dc a parte, che aveva natura e origine diverse, e a parte le formazioni monarco-fasciste ereditate dal passato precedente – una tale area in settant’anni non ha espresso che due formazioni significative: l’Uomo Qualunque (che visse una brevissima stagione dal 1944 al 1947) e Forza Italia. Diverse per consistenza e durata ma entrambe con un fondo comune: fatto di un’insuperabile gracilità organizzativa, della inconsistenza e della contraddittorietà della piattaforma politica, del loro carattere personalistico, di una più o meno strisciante tentazione populista. E al dunque sempre dando l’impressione di un che d’improvvisato e di provvisorio, di una certa labilità, di mancanza di radici; e sempre con una classe politica raccogliticcia e mediocre. Politicamente è questo tutto ciò che sono stati capaci di esprimere i moderati italiani.
Verrebbe quasi da concludere che dietro tali forze politiche non sia mai esistito e non esista ancora oggi alcun retroterra sociale. Ciò che però non è vero, naturalmente. Una società italiana moderata, un’Italia di centrodestra, esiste eccome. Ma il fatto si è che sia per abitudine che per vizio essa si tiene lontana dalla politica: non da ultimo per lo sciocco pregiudizio che se ne possa fare a meno, che la politica debba, e possa, ridursi alla buona amministrazione. La cultura e lo stile di vita di questa Italia moderata la spingono sì, poi, al coinvolgimento sociale, ma solo nella dimensione dell’associazionismo specifico (professionale e di scopo): assai meno la spingono a spendersi in quell’impegno generale nella società – tipicamente preliminare alla politica – per il quale essa non ha vocazione e non prova in genere alcun gusto. Infine, non prefiggendosi poi di cambiare il mondo, non credendolo né utile né possibile, e ricavando per giunta una certa soddisfazione dalla propria attività quotidiana, essa è perlopiù scettica verso tutte le «grandi cause» e le relative mobilitazioni. Salvo casi eccezionali non si sente a proprio agio con assemblee, comizi, ordini del giorno: tutte cose, invece, che fanno la delizia dell’Italia progressista.
Per una tale metà del Paese, così pervasivamente, antropologicamente, antipolitica, il rischio è quello di identificarsi solo nella contrapposizione alla sinistra, di essere sensibile solo a questa parola d’ordine: e di trovare leader esclusivamente capaci di vellicare questa contrapposizione. Laddove, viceversa, alla debole strutturazione politica attuale dell’Italia moderata si dovrebbe, e forse si potrebbe rimediare (cominciare a rimediare), cercando di darle un fondamento in strati culturali i quali, sia pure nascosti, probabilmente esistono al fondo di gran parte di essa. Se non altro come fantasmi di un passato lontano. Un certo senso dello Stato e dell’interesse pubblico, l’idea della Nazione come vincolo di solidarietà e scudo necessario nell’arena internazionale, e poi l’orizzonte della compostezza, del saper leggere e scrivere, del giocare pulito, e sopra e prima di tutto la necessità di essere liberi in modo non distruttivo. Illusioni? Anticaglie? E perché, le idee dei modernissimi intelligentoni di Scelta civica erano per caso più interessanti o più convincenti (alzi la mano chi ne ricorda qualcuna)? E forse sono oggi più profonde e lasciano meglio sperare quelle dell’onorevole Gennaro Migliore o dell’onorevole Pippo Civati? Il Corriere della Sera, 26 agosto 2013
……………Al netto di alcune considerazioni che hanno sapore di valutazioni del tutto personali, le preoccupazioni di Galli della Loggia intorno alla “solitudine” della larga, ampia, consistente area dei moderati italiani, forse, anzi senza forse, da sempre maggioritaria nel Paese, sono esatte e condivisibili. I moderati italiani, frettolosamente tipizzati solo come centrodestra, mai come in questo momento sono e si apprestano ad essere orfani di rappresentanza politica. La vicenda politica di Berlusocni che, comunque possa concludersi – speriamo al meglio per lui che non merita la gogna a cui lo si vuol destinare – di certo può considerarsi conclusa, senza che ci sia una classe dirigente, tanto meno un “capo” che possa raccoglierne il testimone per farsi – l’una o l’altro – interprete di questa grande anche se spesso etorogenea maggioranza relegata nel ghetto della contrapposizione a sinistra, come sottolinea Galli della Loggia, benchè abbia in sè tutte le ragioni e il bagaglio culturale per essere invece motore propulsore di una nuova civiltà italiana. Forse se una colpa va imputata a Berlusconi, al netto delle molte ragioni di gratitudine verso di lui per aver innalzato la bandiera della libertà quando essa stava per essere ammainata ad opera di un fondamentalismo etico assai discutibile, è quella di non aver pensato al “dopo” e ancor più di non neppure tentato di forgiare una classe dirigente, vera e coriacea, tanto quanto sarebbe necessario, oggi, per essere in grado di prendere il largo da sola nel grande mare del futuro. Nel quale rischiano di andare alla deriva sia l’Italia che i moderati. g.
CACCIA GROSSA ANI NOSTRI SOLDI…CON LA SCUSA DELLA RIDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA (CHE NON C’E'!)
Pubblicato il 13 agosto, 2013 in Economia, Politica | No Comments »
Dietro ad ogni comportamento di un politico italiano, sia locale sia nazionale, si nascondono due modalità contrapposte: quella che potremmo definire la modalità del pubblico in antitesi alla modalità del privato. Purtroppo i due modi di essere, in questo nostro bipolarismo forzato, sono trasversali ai due grandi partiti.
Non è detto che un rappresentante del centrodestra non legiferi, ordini, ed esterni con la modalità del pubblico. Più raramente, ma avviene, alcuni rappresentanti di sinistra fanno invece propria la modalità del privato. In estrema sintesi la modalità del privato ritiene che, con tutti i loro difetti, le scelte dei singoli, compresi gli errori, siano da agevolare in un’ordinata e libera organizzazione dello Stato. Per uno sponsor della modalità del pubblico la norma e i suoi sacerdoti (funzionari e politici) sono invece comunque da preferire. Non pensiate che si stia parlando di filosofia. Ogni comportamento politico, anche il più insignificante, si può leggere in questa semplice contrapposizione.
Il caso di scuola è ovviamente quello fiscale. Anche se la bulimia normativa e burocratica è altrettanto pericolosa: regolare nel dettaglio il nostro vivere comune è l’altra faccia dell’oppressione fiscale. Ieri il ministro Delrio ha spiegato in quale direzione si dovrebbe rimodulare l’Imu: «Il nostro principio irrinunciabile è la redistribuzione della ricchezza, la giustizia sociale». L’obiezione più ovvia è che prima di distribuirla, è necessario crearla, la ricchezza. E il macigno delle imposte di fatto la distrugge. Si tratta di una confutazione tecnica, contabile. Ma non l’unica.
Il vero problema nell’affermazione di Delrio, peraltro considerato un ottimo amministratore locale, è piuttosto politico. La sua è la tipica posizione della modalità del pubblico. Il concetto stesso di re-distribuire implica che la distribuzione fatta dal mercato sia sbagliata, ingiusta, illecita o peggio, illegale. E che è necessario che qualcuno si occupi della buona e corretta re-distribuzione, appunto, di quanto erroneamente accumulato. E a farlo deve essere la politica e qualche illuminato funzionario pubblico. Ma dove sta scritto che ciò che ha stabilito il mercato sia emendabile da ciò che scrive un Parlamento? Le Camere nacquero storicamente proprio per il motivo opposto e cioè non permettere al sovrano di re-distribuire, in quel caso a proprio favore, ciò che la borghesia stava iniziando ad accumulare.
Bisognerebbe fare un passo indietro. E pensare all’imposizione fiscale come al modo che una società moderna ha di fornire servizi, ritenuti oggi essenziali, a coloro che non siano in grado di permetterseli. Si può anche immaginare una fetta di questa imposizione dedicata a quelle opere pubbliche e infrastrutture, che i singoli non avrebbero alcun interesse a finanziare. Punto.
La re-distribuzione del reddito non è un nobile ideale, ma un fantoccio ideologico. Almeno per coloro che hanno ben stampata in testa la modalità del privato. Ma soprattutto, negli anni, essa ha dimostrato di essere anche molto inefficiente. Dietro alla bandiera della re-distribuzione si consumano e si perpetuano le peggiori ingiustizie, che proprio essa vorrebbe cancellare. Quello che emerge chiaramente dal bilancio dello Stato è che l’enorme mole di quattrini sottratti dalle tasche dei contribuenti, riesce perfettamente nel suo intento di ridurre il reddito disponibile dei privati, ma nel contempo non riesce neanche lontanamente a soddisfare i bisogni essenziali dei più deboli. Abbiamo la tassazione più alta d’Europa e la spesa sociale pro capite più bassa, abbiamo le aliquote più penalizzanti dell’Occidente e gli investimenti pubblici più bassi nel vecchio Continente.
L’unico obbiettivo che la re-distribuzione raggiunge è quello di trasferire le risorse dai privati per elargirle diffusamente ai poteri pubblici. Non raccontiamoci palle.
Occorre combattere contro l’Imu, il rialzo dell’Iva, non solo per i 10 miliardi di euro che complessivamente valgono, ma per dare un primo forte segnale di discontinuità. La re-distribuzione dai ricchi ai poveri è l’ultimo, e neanche più originale, paravento dietro il quale la bestia statuale nasconde i suoi artigli per impossessarsi del nostro reddito e del nostro patrimonio.
Diffidate dagli sconosciuti che vengono a casa vostra per farvi del bene. Soprattutto se sul loro biglietto da visita c’è scritto: On… Nicola Porro, Il Giornale, 13 agosto 2013
…..Porro, ex vice direttore de Il Giornale e oggi conduttore di una trasmissione televisiva, Versus, rende di più e meglio quando scrive che quando parla, sia pure in veste di conduttore!
CASINI: IL FIGLIO PRODIGO CHE TORNA A CASA DOPO AVER CONTRIBUITO AD INCENDIARLA
Pubblicato il 12 agosto, 2013 in Politica | No Comments »
Onorevole Casini, Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere, chiede a voi moderati non di sinistra di avere il coraggio di unirvi al Pdl e di rappresentare la «destra», ora che Berlusconi è destinato ad uscire di scena. Raccoglie l’appello?
«Che la democrazia dell’alternanza sia un fatto positivo in ogni Paese è innegabile. Ma se in Italia, dopo 20 anni, non ha funzionato un bipolarismo temperato, con un minimo comune denominatore tra i due poli, è stato proprio per la duplice criminalizzazione, di Berlusconi e dei comunisti. Si è preferito “non fare prigionieri” e così si è persa una grande occasione».
Non è responsabile anche il centro che ha deciso, nelle ultime elezioni di non schierarsi?
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra, e forse è il caso che tutti ci asteniamo dalla tentazione. Ma un cattivo risultato non significa negare le nostre buone ragioni. La scorsa legislatura la sconfitta della destra è stata dovuta al fallimento del loro governo. E a sinistra hanno pervicacemente voluto l’alleanza con Sel, che si è infranta addirittura sul voto del capo dello Stato…».
Insomma, non è verso di voi che si deve puntare il dito…
«Ho cercato di moderare il centrodestra dall’interno, fino alla svolta del Predellino. Poi ho ritenuto più coerente una testimonianza solitaria. Ma va detto che se abbiamo vissuto un bipolarismo sbracato è anche per responsabilità di un Pd che, esclusa la parentesi veltroniana, non ha mai voluto avere “nemici” a sinistra. E anche oggi il fatto che Renzi sia diventato l’icona di Sel e di chi vuole sfasciare il governo Letta, deve far pensare».
Ma oggi appunto il quadro è cambiato: la condanna di Berlusconi lascia oggettivamente un vuoto a destra. Siete pronti a muovervi in quella direzione?
«Siamo pronti ad assumerci la responsabilità di scegliere. Ma oggi il Pdl non può sprecare l’occasione scegliendo una deriva avventurista».
Lei si è detto convinto che Berlusconi alla fine darà le dimissioni da senatore, lo pensa ancora?
«Sì, perché conosco la sua intelligenza e so che il presidente più longevo del Dopoguerra eviterà l’umiliazione di un voto che, al Senato, lo vedrebbe pesantemente sconfitto. Mi rendo conto che per lui è una prova dura, ma solitamente nelle circostanze difficili dà il meglio di sé. D’altronde è lui che ha chiesto di separare le sue vicende giudiziarie da quelle del governo, e che continua a sostenere Letta. Se dobbiamo andare verso il bipolarismo del futuro, e creare nuove convergenze in nome delle comuni appartenenze europee del Ppe, l’atteggiamento politico del Pdl in questo momento non può avere equivoci».
Insomma, se il Pdl sceglie la via del sostegno al governo potreste ritrovarvi presto insieme? Siete già in contatto con i vertici del partito?
«In questo momento è giusto e doveroso che il Pdl si stringa accanto a Berlusconi, gli dia la massima solidarietà. Poi è chiaro che dovrà aprirsi una riflessione in tutto il partito: so che alcuni stanno già pensando a come rimettersi in marcia, vedremo i fatti e le scelte».
Intanto però il Pdl chiede «agibilità politica» per il suo leader. Voi siete disponibili a qualche passo, qualche soluzione per venirgli incontro?
«Ci sono temi che sicuramente andranno affrontati, a partire dalla riforma della giustizia. Non parlo della sentenza della Cassazione, ma ho sempre detto e lo ribadisco che un certo accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi è difficile da negare. Ma se non si è fatta la grande riforma della giustizia, pur in presenza di una maggioranza enorme del centrodestra, è stato perché si è preferito inseguire, in modo disarmonico e spezzettato, i singoli procedimenti giudiziari in cui è stato coinvolto Berlusconi ».
Ma cosa fare nell’immediato per garantire, appunto l’«agibilità politica» per Berlusconi?
«Io sinceramente non capisco bene di cosa si stia parlando. Il tema della sentenza di Berlusconi non è eludibile. Bisogna prendere atto, con rispetto e senza giudizi sprezzanti, che la sentenza c’è stata e che avrà i suoi effetti. A parte che pretendere in questo momento la grazia o provvedimenti speciali serve solo a non ottenere nulla, ma concretamente, non vedo cosa ci si potrebbe inventare. Oltretutto, qualsiasi provvedimento parlamentare dovrebbe passare là dove il Pd ha una larga maggioranza: un Pd che è impensabile possa agire sfidando sentimenti, convinzioni e umori della propria base».
E se la soluzione fosse la discesa in campo di Marina Berlusconi?
«Il problema non sono le persone. Per mesi abbiamo chiesto a personalità influenti della società civile di partecipare, abbiamo esortato, pregato, figurarsi se mi scandalizza l’idea che una brava imprenditrice possa impegnarsi. Ma il punto è su quale linea politica si scende in campo».
Non teme che troppi nodi non sciolti per il Pdl, compreso quello sull’Imu, possano davvero portare a elezioni anticipate?
«Le elezioni anticipate non le indice il Pdl, ma Napolitano. Il quale ha detto e ripetuto che con questa legge non si va a votare. Quindi – in caso di crisi – si cercherebbe di formare un nuovo governo che, dovrebbero capirlo gli amici del Pdl, non sarebbe certo un ricostituente… Detto questo, è vero che il governo è nato anche sull’accordo per superare l’Imu nell’attuale forma, su questo nel Pdl hanno ragione. E sono possibili anche soluzioni intelligenti, come quella di una service tax che piace anche a un loro sindaco come Cattaneo. Un accordo andrà necessariamente trovato».Il Corriere della Sera, 12 agosto 2013
PENSIONI D’ORO, C’E’ CHI PRENDE 90 MILA EURO AL MESE, 3.008 EURO AL GIORNO!
Pubblicato il 8 agosto, 2013 in Costume, Economia, Politica | No Comments »
Sono centomila i «super-pensionati» che costano al sistema ben 13 miliardi di euro all’anno. Mercoledì il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Aringa, rispondendo in commissione Lavoro della Camera a un’interrogazione di Deborah Bergamini (Pdl), ha rispolverato l’albo delle «pensioni d’oro», riaprendo il file delle polemiche.
Pensioni d’ora: quelli da 90mila euro al mese
La pensione più alta erogata dall’Inps ammonta a 91 mila 337,18 euro lordi mensili. Corrisponde al profilo di Mauro Sentinelli, ex manager e ingegnere elettronico della Telecom, che percepisce qualcosa come 3.008 euro al giorno, cui si sommano ai gettoni di presenza che prende come membro del consiglio di amministrazione di Telecom e presidente del consiglio d’amministrazione di Enertel Servizi Srl. Non poche medaglie al suo petto: è stato l’ideatore del «servizio prepagato Tim Card», una miniera di profitti per la sua azienda. Scorrendo la «top ten» previdenziale fornita dal sottosegretario, c’è un salto fra il primo e il secondo posto, che si «ferma» a 66.436,88 euro. Il titolare in questo caso non è noto, mentre al terzo posto con circa 51.781 euro, dovrebbe esserci Mauro Gambaro, ex direttore generale di Interbanca e di Inter Football Club, oggi advisor specializzato nel corporate finance e presidente del cda di Mittel management srl.
A seguire, Alberto De Petris, ex di Infostrada e Telecom, che porta a casa circa 51 mila euro, mentre a un’incollatura c’è probabilmente Germano Fanelli, fondatore della Octotelematics, che nel 2010 accumulava dieci incarichi differenti. Dal quinto a decimo posto della classica si resta nella fascia dei 40 mila euro, esattamente da 47.934,61 a 41.707,54 euro.In questo ambito dovrebbero ritrovarsi manager come Vito Gamberale, amministratore delegato di F2i, oppure Alberto Giordano, ex Cassa di Roma e Federico Imbert, ex JP Morgan. «Questi numeri – ha commentato Bergamini – dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti».
E in effetti sono ancora troppe le pensioni da migliaia e migliaia di euro al mese pagate in Italia che non hanno alcun nesso economico con i versamenti effettuati. La deputata Giorgia Meloni (FdI) propone da tempo di fissare un tetto all’importo delle «pensioni d’oro», oltre il quale andare solo se nel tempo si sono pagati contributi che giustifichino tale importo. In questo modo si potrebbero risparmiare molti miliardi di euro. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha già risposto alla sollecitazione appena assunto l’incarico, osservando che il tema è giusto ma che i governi che in passato hanno provato a intervenire, anche fissando un semplice contributo di solidarietà, si sono scontrati con la Corte Costituzionale e col principio dei diritti acquisiti. Si può cambiare la Costituzione? Fonte: Il Corriere della Sera, 8 agosto 2013
.….Certo che si può….si deve cambiare tutto quel che occorre perchè si ponga fine a questa squalida vicenda per cui c’è chi percepisce 3mila euro al giornmo e chi deve vivere con 500 euro al mese. 13 miliardi di euro all’anno, il costo delle pensioni d’oro che la Corte Costituzionale preserva anche dal minimo contributo di solidarietà per tutelare se stessa visto che tra i pensionati d’oro ci sono i giudici, è pari ad alcuni punti di PIL e all’importo di tre anni di IMU sulla prima casa. Basta questo perchè il ministro Giovannini porti in Parlamento tutte le modifiche costituzionali necessarie perchè vengano rimodulate queste pensioni il cui importo, tra l’altro, non è legato esplicitamente ai contributi versati e poi vediamo chi in Parlamento si gira dall’altra parte. g.
GIUSTIZIA: LA RIFORMA PIU’ DIFFICILE
Pubblicato il 6 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »
Così come non c’è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.
Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po’ per antiberlusconismo, un po’ perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po’ perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.
Ma lo squilibrio di potenza c’è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l’ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.
Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest’ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.
La magistratura è l’unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare – ma solo se i magistrati acconsentiranno – interventi volti ad introdurre un po’ più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell’accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».
Il problema va aggredito da un’altra prospettiva. C’è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l’azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell’area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).
Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.
Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l’impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.
Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2013
……………Ciò che scrive Panebianco è ispirato oltre che dalla conoscenza approfondita, da ottimo politologo qual’è, dei fatti, anche dal buon senso. Non solo! Anche dalla recente invettiva lanciata da una deklle fazioni della magistratura, Magistratura Democratica (sic!), all’indomani dell’auspicio formulato dal presidente della Repubblica di una sollecita e cmplessiva riforma del pianeta giustizia. Nessuno si azzardi, Parlamento compreso, a dar corso ad alcuna riforma che vada nella direzione di rivedere i meccanismi attuali di intervento della magistratura nella vita del Paese. E’ stato questo il succo dell’invettiva dei magistrati cosiddetti democratici, succo che conferma, ove ve ne fosse bisogna, che ha ragioneda vendere Panebianco quando scrive che la magistratura è nel nostro Paese l’unico potere forte, tanto quanto è debole, dall’altra parte, il potere politico. Non solo perchè la politica stessa si è autoindebolita, quant perchè in virtù di ciò il potere giudiziario, da Tangentepoli in poi, si è autoinsignito di ruoli che non gli appartengono. Ed ha ragione Panebianco quando afferma che solo se la politica saprà riformare se stessa riguadagnandosi rispetto e credibilità, e solo allora, si potrà procedere sula strada della riforma della giustizia e della sua riciollocazione nell’alveo naturale del sistema costituzionale del nostro Paese. Una prima occaisone la politica ce l’ha in queste ore e l’ha offerta la inopportuna intervista rilasciata alla stampa dal presidente del collegio della Cassazione che venerdì ha condannato Berlusconi. Nell’intervista il giudice ha anticipato, fatto del tutto inconsueto e fuori delle regole, le ragioni della condanna di Berlusconi, sproloquiando sul concetto del “non poteva non sapere” e su quello che invece “sapesse”. L’intervista ha provocato polemiche infuocate er ancora ne provocherà nelle prossime ore. Ebbene, mentre il primo presidente della Cassazione ha definito inopportuna l’intervisdt e il ministro Cancellieri ha chiesto informazioni e tre componenti laici del CSM hanno chiesto di aprire una praqtica a carico del giudice troppo loquace, si è registrato, da una parte, l’intervento del presidente dell’ANM il quale si è precipitato a sostenere che nulla v’è da rilevare sotto il profilo disciplinare a carico del giudice medesimo, dall’altra, il silenzio assordante di quanti, a sinistra, ogni qual volta da destra si “constesta”, anche a ragione come in questo caso, la magistratura, si strappano le vesti per “difendere”, ovunque e comunque, la magistratura. Ecco ciò che rende debole la politica e la pone in stato di sudditanza della magistratura. E sino a quando rimarrà tale stato di cose nel nostro Paese la riforma della Giustizia, la più ampia, e che è di certo la riforma più difficile ma anche la più urgente, anzi l’unrgenza assoluta, difficilmente potrà realizzarsi. g.
NEL 2012 ALLA FACCIA DELLA CRISI SPESO UN MILIARDO PER LE AUTO BLU
Pubblicato il 4 agosto, 2013 in Cronaca, Economia, Politica | No Comments »
Per le auto blu è stato speso oltre un miliardo di euro nel 2012, con un calo di 128 milioni rispetto al 2011 (-12%) e – 26% rispetto al 2009. Sono i primi risultati del monitoraggio dei costi delle auto della PA realizzato da Formez PA per il Dipartimento della Funzione Pubblica, avviato nel mese di maggio 2013. La spesa totale sostenuta nel 2012 per la gestione del parco auto è stimata pari a 1.050 milioni di euro, 128 milioni in meno rispetto al 2011 (-12%). Le variazioni sono sostanzialmente analoghe nella PA centrale (circa 25 milioni di euro pari al -12,4%) e nell’Amministrazione locale (103 milioni di euro pari al -11,9%, equivalente). La gestione include le spese per acquisizioni in proprietà e noleggio, le spese ripartibili e non ripartibili e le spese per il personale dedicato, tra cui gli autisti. Rispetto alla spesa sostenuta dalle amministrazioni nel 2009, anno di riferimento per le nuove e più stringenti norme e direttive per il contenimento dei costi, la riduzione della spesa per le auto della P.A. nel 2012 è stata di 335,5 milioni di euro (-26,3%), 282,8 milioni di euro per le Amministrazioni locali (-27,0%) e 53,7 milioni di euro per l’Amministrazione centrale. Considerando la spesa per tipologia di auto, si può constatare che per le auto blu (ossia le vetture assegnate ad una persona sia in uso esclusivo che non esclusivo, le auto a disposizione degli uffici con autista e le vetture con e senza autista se di cilindrata superiore a 1.600 cc), il totale della spesa per il 2012 ammonta a circa 400 milioni di euro, con una riduzione di 72 milioni di euro rispetto all’anno precedente. La spesa per le auto cosiddette ‘ grigiè (vetture a disposizione degli uffici e servizi senza autista e auto con e senza autista inferiore ai 1.600 cc) è stata pari a 539 milioni di euro, con una riduzione di circa 55 milioni di euro rispetto al 2011. Fonte: agenzie di stampa
………………Naturalmente nessuno del “palazzo” si preoccupa più di tanto, nemmeno che quel che si spende per le auto della casta è pari ad un quarto dell’IMU sulla prima casa.
LO SFORMATO LEGISLATIVO:OVVERO LE LEGGI CHE LA GENTE NON CAPISCE
Pubblicato il 4 agosto, 2013 in Costume, Politica | No Comments »
D’estate, puntualmente, fioccano i divieti. L’ultima invenzione è il porto d’armi (pardon, di sigarette) in automobile, che ha impegnato in singolar tenzone le ministre Bonino e Lorenzin. Ma la pioggia di regole ci bagna tutto l’anno, e nessun ombrello è abbastanza largo da proteggerci. Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: avremmo in circolo 21.691 leggi dello Stato. Tuttavia la stima è viziata per difetto, e non solo perché il trascorrere del tempo ci ha recato in dote nuovi acciacchi normativi. Dobbiamo aggiungervi le leggi regionali (all’incirca 30 mila). Quelle delle due Province autonome (il sito web della Provincia di Bolzano ne vanta oltre 2 mila). Nonché il profluvio dei regolamenti: 70 mila.
Troppo? No, è troppo poco. Nel Paese in cui perfino i carabinieri sono dotati di un ufficio legislativo, in questo Paese senza autorità ma con cento authority, le sartorie del diritto s’incontrano a ogni angolo di strada, e ciascuna ha un abito normativo che ci cuce addosso. Il 18 luglio il Garante della privacy ha varato un provvedimento sulle intercettazioni: 41.196 caratteri. Il 4 luglio ne aveva licenziato un altro sul contrasto allo spam: 7.767 parole. Risale invece a maggio il regolamento della Banca d’Italia sulla gestione collettiva del risparmio: 171 pagine. Senza contare statuti e regolamenti comunali (a Parma ce n’è uno sulla Consulta del verde, un altro dedica 14 articoli al Castello dei burattini). O senza ricordare le mitiche ordinanze dei sindaci-sceriffi, dal divieto della sosta di gruppo in panchina (Voghera) a quello dei bagni notturni (Ravenna), fino al divieto d’imbrattare i cartelli di divieto.
Ma di che pasta è fatto questo sformato normativo? Proviamo ad assaggiare il menu del governo Letta, accusato ingiustamente di battere la fiacca, mentre ha messo in forno 20 provvedimenti negli ultimi 30 giorni. Il più importante è il «decreto del fare», dove figura un capitolo sulle semplificazioni burocratiche. Vivaddio, era ora. Peccato tuttavia che per semplificare il decreto spenda 93 commi, oltretutto scritti nel peggior burocratese. Così, il comma 1 dell’articolo 52 si suddivide in 11 punti contrassegnati in lettere (dalla A alla M); la lettera I s’articola poi in 3 sottopunti, numerati con cifre arabe come gli articoli; e il sottopunto 2 si scinde in altri 2 sotto-sottopunti, ciascuno distinto da una lettera.
Diceva Seneca: la legge dev’essere breve, affinché possa comprenderla pure l’inesperto. E Tacito, a sua volta: quando le leggi sono troppe, la Repubblica è corrotta. Ecco, è questo doppio male che in Italia offusca il senso stesso della legalità. Sono le 63 mila norme di deroga, che mettono in dubbio la residua sopravvivenza della regola, con buona pace del principio d’eguaglianza. Sono i 35 mila reati che ci portiamo sul groppone, e che la Cancellieri non ha mai cancellato. Sono i 66 mila detenuti stipati in 47 mila posti letto, al cui destino il nostro Parlamento è indifferente, mentre viceversa grazia i colpevoli di stalking o di abuso di ufficio, con un emendamento approvato l’altroieri. Ed è, in ultimo, l’incertezza del diritto, che trasforma ogni poliziotto in giudice, ogni giudice in un legislatore. Perché in questo caso funziona un paradosso: le troppe leggi s’elidono a vicenda, dal pieno nasce il vuoto. E nel deserto dei valori torreggia uno Stato ficcanaso, che adesso vorrebbe perfino mandare a scuola chi possiede un cane, per insegnargli la buona educazione. Che maleducato. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 agosto 2013
COSI’ INFANGAVA BERLUSCONI IL GIUDICE CHE L’HA CONDANNATO
Pubblicato il 3 agosto, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »
Questo è l’articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell’impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s’è ribellato: «Devi!».
Il presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito
Dunque eseguo per scrupolo di coscienza.
In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti – fiducia e rispetto – per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio.
Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell’illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l’ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell’imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre.
Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L’avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m’invita in veste di moderatore-intervistatore. È un’incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell’occasione l’ex giudice istruttore dei processi per l’assassinio di Aldo Moro e per l’attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l’uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato.
Seguì un ricevimento all’hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d’onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest’ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora presidente del Consiglio. A sentire l’eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?».
Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio.
Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell’Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l’altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l’esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio?
Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell’udienza, v’è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell’avventura che m’è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d’appello l’8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente.
A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un’affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po’ brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l’altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati».
Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d’aver ecceduto con l’Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo. Stefano Lorenzetto, 3 agosto 2013
……Lorenzetto è un giornalista che scrive per molte testate, è famoso sopraqtutto per le interviste a personaggi influenti della politica, dello spettacolo, della cultura, spesso divenute libri. E’ difficile immaginare che quanto denuncia oggi sul giudice che ha giudicato e condannato Berlusconi se lo sia inventato. E se non se lo è inventato è abbastanza lecito nutrire dubbi sulla terzietà almeno di questo giudice, il più influente perchè presidente del collegio che ha condannato Berlusconi. E se dubbi ci sono ci pare che qualcuno che ne abbia autorità e poteri debba accertare la verità e nel caso disporre un nuovo processo con giudici sicuramente terzi. g.