Archivio per la categoria ‘Politica’

PICCONATE SUL MITO DELLA RESISTENZA, di Gianlcuca Veneziani

Pubblicato il 7 aprile, 2018 in Politica, Storia | No Comments »

A picconate, o a piccoli colpi di scalpello, il mito della Resistenza si va via via sgretolando, fino a ridursi a un cumulo di macerie. Ad abbatterlo non ci pensa più solo la revisione salvifica relativa al sangue dei vinti, ossia alle brutalità commesse dai partigiani a guerra finita, a mo’ di vendette private o di epurazione sistematica dell’ ex nemico: storia diventata patrimonio collettivo grazie all’ opera di Giampaolo Pansa. Adesso scricchiola pure l’ edificio della Resistenza come grande movimento di popolo, come insurrezione spontanea, immediata e partecipata, oltreché risolutiva, su cui a lungo si è basata la vulgata storica.

Se anche questo mito aurorale della Resistenza mostra le sue falle, il merito è dello storico francese Olivier Wieviorka che ha appena dato alle stampe il documentatissimo saggio Storia della Resistenza nell’ Europa occidentale 1940-1945 (Einaudi, pp.464, euro 35), analisi sull’ effettivo contributo dei partigiani durante il conflitto e il loro reale peso politico e militare nei Paesi occupati. Ma il merito è anche dello storico Paolo Mieli che ieri, recensendo il libro di Wieviorka sul Corriere della Sera, è riuscito poderosamente a infrangere, su un grande giornale, quel conformismo che fa della Resistenza insieme un Totem da venerare e un Tabù, del quale non è possibile parlare (male).

Leggendo Wieviorka, Mieli non esita a smontare quelle che lo storico francese definisce «agiografie», derubricando cioè l’ azione dei partigiani europei, e anche italiani, a un contributo residuale ai fini della Liberazione. A lungo infatti, fa notare Wieviorka, è stato «sopravvalutato il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune» ed è stato «ritenuto che le resistenze locali potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni».

Quasi fossero movimenti volontari, auto-finanziati e operativi grazie a una libera scelta insurrezionale In realtà, le cose andarono diversamente, sia perché la nascita di quei fronti di lotta fu sollecitata dal Soe (Special Operations Executive), organismo creato dagli inglesi al fine di fomentare la Resistenza; sia perché l’ apporto dei partigiani fu pressoché irrilevante tanto che «con o senza Resistenza, l’ Europa sarebbe stata liberata dalle forze angloamericane».

Ma l’ aspetto forse più interessante del saggio è che non ci fu, sin dagli albori in Europa, e tanto meno in Italia, l’ insorgere di dissidenti pronti a darsi alla macchia né una risoluta «opposizione all’ apparente inesorabilità della disfatta» nei Paesi occupati. Piuttosto, i governi di quegli Stati cercarono compromessi con il Reich e gli stessi popoli a tutto pensarono tranne che a mettersi subito in armi contro l’ invasore. Smentita evidente della leggenda secondo cui sarebbe esistita una Resistenza implicita e silenziosa, nata nel momento dell’ occupazione e poi sfociata nella Resistenza armata.

Questo fu vero soprattutto in Italia, dove il movimento resistenziale tardò a manifestarsi sia per quella che Mieli definisce «apatia politica degli italiani» sia per una comprensibile mancanza di ardore che portava i nostri prigionieri di guerra a non voler rischiare la pelle per rovesciare il regime, sia per il consenso di cui – almeno fino al 1943 – il fascismo godette nel nostro Paese, al punto che molti soldati o cittadini consideravano un “tradimento” opporsi al governo vigente.

E infatti da noi gli angloamericani faticarono ad alimentare uno spirito ribellista e a mettere su gruppi di lotta armata. Wieviorka racconta di tentativi grotteschi, come quando si cercarono ribelli italiani in Nord Africa e in Svizzera, ma si trovarono soltanto «cospiratori da salotto»; o quando, non riuscendo a identificare una figura spendibile come leader dei futuri partigiani, la si trovò in un certo Annibale Bergonzoli, un generale che tuttavia presto si dimostrò «un ciarlatano di temperamento esaltato». Insomma, non la persona ideale nelle cui mani mettere le sorti d’ Italia.

È interessante notare come questa rilettura della Resistenza continui a essere portata avanti da studiosi esterni alla cultura di destra. Wieviorka, nipote di ebrei uccisi ad Auschwitz, collabora con un inserto del giornale di sinistra Libération; lo stesso Mieli, cresciuto negli ambienti della sinistra extraparlamentare, è stato allievo del grande Renzo De Felice, storico comunista, e nondimeno principale artefice della revisione sul fascismo. Come già nel caso di Pansa, la demitizzazione della Resistenza non può che partire da sinistra. Dove le menti più illuminate, ormai da tempo, si sono accorte che della Resistenza non resiste più niente. Gianluca Veneziani, Libero Quotidiano, 7 aprile 2018

IL DECLINO DEL CENTRO (PER ORA), di Angelo Panebianco

Pubblicato il 28 marzo, 2018 in Costume, Politica | No Comments »

I rapporti di forza così come sono stati fissati dai risultati elettorali e come si sono subito manifestati nella elezione dei presidenti di Camera e Senato hanno fatto pensare che un nuovo bipolarismo, un bipolarismo 5 Stelle/Lega, stia per consolidarsi; come dimostrerebbero le scintille di ieri tra Salvini e Di Maio. Non ci credo affatto. Un simile bipolarismo non potrebbe mai stabilizzarsi né stabilizzare la democrazia italiana. L’esperienza storica, la storia delle democrazie, ci dice che nessun bipolarismo può diventare durevole se la sua affermazione si accompagna allo «squagliamento» del centro. Il declino del centro è l’evento più significativo delle elezioni del 4 marzo. Ed è anche la condizione che rende improbabile la stabilizzazione del nuovo quadro politico e dei connessi rapporti di forza. Qui giova la lezione di Giovanni Sartori (i lettori del Corriere ricorderanno i suoi editoriali). La forza del centro, per Sartori, può manifestarsi in due modi. O c’è un bipartitismo i cui poli tendono a convergere al centro, a competere fra loro per conquistare l’elettorato più centrista (e per questa ragione adottano programmi e promettono politiche «centriste») oppure il centro dello schieramento è occupato in permanenza da un partito o da una coalizione di partiti e le forze estreme sono relegate all’opposizione. La prima è stata, nelle fasi più felici della sua storia, l’esperienza della Gran Bretagna. La seconda è stata l’esperienza italiana ai tempi della Guerra fredda. Ciò che in nessun caso può stabilizzare una democrazia è un bipolarismo i cui poli siano occupati dalle estreme (un bipolarismo che Sartori avrebbe definito «centrifugo», in fuga dal centro).

A ben guardare, nonostante le urla dei tanti e la caciara che per lo più accompagnano la lotta politica nei Paesi latini, la nostra breve esperienza di democrazia maggioritaria, ai tempi della contrapposizione fra Prodi e Berlusconi, aveva dato vita a un bipolarismo i cui poli non fuggivano verso le estreme ma convergevano al centro (gli estremisti presenti nei due schieramenti erano tenuti a bada da forze centriste). Il senso di questo discorso è che le elezioni del 4 marzo, lungi dall’innescare un processo che potrebbe stabilizzare la democrazia italiana, hanno aperto un vuoto politico, anzi una voragine, nel centro dello schieramento (sono venuti meno, come osservava Francesco Verderami sul Corriere del 26 marzo, i punti di riferimento politico dei «moderati», ossia, precisamente, degli elettori centristi). L’eventuale futura stabilizzazione della democrazia italiana richiede che quel vuoto venga riempito. Che ciò si verifichi o no, nessuno può al momento saperlo.

La ricostituzione del centro, se mai avverrà, richiederà la scomposizione di forze oggi esistenti: dovrà aggregare sia parti del Pd indisponibili a una alleanza con i 5 Stelle sia la parte di Forza Italia contraria a farsi assorbire dalla Lega. Un simile processo, per riuscire, avrà bisogno di tre ingredienti. Il primo è il tempo. Non è una operazione possibile nel giro di poche settimane o pochi mesi. Il secondo ingrediente è la leadership. Le situazioni di emergenza favoriscono a volte l’avvento di leader energici. La ricostituzione del centro non sarà possibile senza l’affermazione di una nuova leadership — in stile Macron per intenderci. Il terzo ingrediente ha a che fare con la proposta politica. Insieme alla leadership essa può contribuire a forgiare nuove identità. La ricostituzione del centro passa per l’articolazione di una proposta da presentare al Paese e che sia alternativa a quelle delle estreme. Sul piano economico, tale proposta dovrà essere alternativa — e quindi chiara, non equivoca — alle ricette «venezuelane» che i vincitori proporranno (flirtando con Di Maio, Matteo Salvini ha scoperto che il reddito di cittadinanza potrebbe creare lavoro: niente di meno). Ma il lavoro si crea se si sa come attirare investimenti, se si riduce il debito rendendo contestualmente possibile la riduzione delle tasse, se si allentano i vincoli burocratici. Né il Partito democratico né Forza Italia in questa campagna elettorale avevano, al riguardo, proposte chiare. Si sono visti i risultati.

Altrettanto incisiva dovrà essere la proposta politica di un ricostituendo centro per tutto ciò che riguarda il rapporto fra l’Italia e il mondo. Occorre spiegare agli italiani che gli interessi del Paese vanno tutelati dentro l’Europa e non contro di essa, ossia svolgendo un ruolo attivo nel processo di integrazione: il contrario di quanto auspicano o perseguono i cosiddetti «sovranisti». Occorre spiegare, inoltre, che i Trump passano ma la Nato resta, ossia che l’alleanza, anche militare, fra le due sponde dell’Atlantico è, e sarà anche in futuro, la più importante condizione di mantenimento di ordine (quel tanto di ordine che è possibile) e di pace (quel tanto di pace che è possibile) nel mondo. E occorre spiegare — almeno fin quando sarà ancora possibile farlo senza diventare successivamente vittime di misteriosi incidenti — che collaborare con la Russia è necessario ma è anche indispensabile farlo tenendo sempre un nodoso randello in mano. Senza compromettere il legame con gli alleati occidentali e senza mai dimenticare quanto possano essere pericolosi i rapporti con una grande potenza retta in modo autoritario e abituata da secoli a usare forza e brutalità per affermare se stessa nel mondo. In un assetto maggioritario di tipo francese una leadership neo-centrista potrebbe in poco tempo sbaragliare le estreme e conquistare da sola il governo. In un assetto proporzionale quale è il nostro, l’eventuale successo di un’operazione neo-centrista, probabilmente, favorirebbe una dislocazione delle forze non troppo dissimile da quelle che l’Italia ha già sperimentato in epoche passate. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 28 marzo 2018

NON CAMBIATE CASACCA E DIFENDETE LA LIBERTA’ DEL PARLAMENTARE, di Antonio Polito

Pubblicato il 27 marzo, 2018 in Costume, Politica | No Comments »

Roberto Fico, del M5S, appena eletto presidente della Camera (Omniroma) R

Ieri tutti i parlamentari hanno scelto i gruppi cui aderire. C’è da sperare che ci abbiano pensato bene, e che considerino la loro iscrizione non come un atto burocratico ma come un impegno anche morale. Presto infatti la loro lealtà potrebbe essere messa a dura prova dalle tentazioni della politica, soprattutto in un Parlamento nel quale maggioranza e minoranza non sono precostituite e che appare destinato a una certa fluidità.

Il primo appello a deputati e senatori della XVIII legislatura dunque è: non cambiate casacca. Non fatelo con la spregiudicatezza e il cinismo dei vostri predecessori nel Parlamento precedente. Essi hanno inferto con il loro comportamento un colpo tra i più duri alla credibilità della democrazia rappresentativa, rendendo un grande favore alle forze dell’antiparlamentarismo. Che molti di loro non siano rieletti è dunque un giusto contrappasso.

Allo stesso tempo bisogna però rivolgere un appello a quei partiti che in campagna elettorale hanno proposto (o minacciato) di ridurre la libertà dei singoli parlamentari violando (o rimuovendo) il divieto di ogni vincolo di mandato che è sancito nella Costituzione. Lasciate perdere. Innanzitutto perché quel principio, che consente all’eletto di rappresentare gli elettori invece che un capo o un datore di lavoro, è il contenuto stesso della democrazia parlamentare, in nome del quale si sono fatte le rivoluzioni. In secondo luogo perché quegli stessi partiti un giorno dopo le elezioni, scopertisi senza maggioranza, hanno cominciato a chiedere pubblicamente ai parlamentari eletti altrove di aderire al proprio programma per far nascere il governo, e di muoversi cioè senza vincolo di mandato. Sia il trasformismo, che dai tempi di Agostino Depretis caratterizza in negativo la vita del Parlamento italiano, sia un nuovo autoritarismo che vuol fare delle Camere un bivacco di impiegati di partito, invece che di manipoli, sono pericoli mortali per la democrazia. Già ne corre tanti, risparmiamole almeno questi. Antonio Polito, Il Corriere della Sra 27 marzo 2018

I MODERATI SENZA UNA ROTTA, d Francesco Verderami

Pubblicato il 26 marzo, 2018 in Costume, Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi (Imagoeconomica) Silvio Berlusconi (Imagoeconomica)

Alla vigilia delle elezioni uno studio di Swg sulle identità politiche degli italiani aveva proposto un’analisi comparata tra il 2013 e il 2018: cinque anni prima i cittadini che si definivano «ceto moderato» erano il 36%, cinque anni dopo si erano ridotti al 21%. Quella che è sempre stata la maggioranza relativa del Paese è diventata un’area di minoranza rispetto a nuove «etichette», nelle quali ormai si riconosce gran parte dell’opinione pubblica nazionale. È tempo di cambiare le categorie della politica? Si è forse conclusa la lunga stagione che ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica? O più semplicemente quanti erano chiamati a rappresentare le istanze del «ceto moderato» non sono stati più in grado di farlo? Perché il «ceto moderato» comunque continua a esistere, dopo la Dc aveva trovato il suo baricentro nel centrodestra a trazione berlusconiana.

Ma quel centrodestra non esiste più: il sorpasso su Forza Italia operato da Salvini nelle urne, e la leadership che il segretario della Lega ha conquistato nelle trattative sulle presidenze delle Camere, cambia la natura della coalizione. E ne cambia anche le prospettive. È vero che il progetto di Lega-Italia non è che la riedizione del Pdl, prima costruito e poi sciolto da Berlusconi, ma è altrettanto vero che la sua linea nazionalista contrasta con la tradizione popolare ed europeista nella quale il fondatore dell’alleanza si è sempre riconosciuto. A questo punto Berlusconi, che per venticinque anni è stato la voce di gran parte del «ceto moderato», può ancora rappresentare quell’area di opinione pubblica? Oppure serve qualcosa di nuovo e qualcuno nuovo che raccolga il testimone? E qui emergono i problemi. Dentro Forza Italia, per varie ragioni, il tema del futuro non si è mai posto perché così era peraltro imposto dal leader (anche) con la forza dei numeri, oltre che del suo carisma. Ma il futuro è arrivato, cogliendo di sorpresa una classe dirigente che rivela i suoi limiti.

Mentre il vecchio impero viene occupato da nuovi conquistatori, che dimostrano una capacità di azione politica pari alla determinazione con cui la impongono, si assiste al frenetico agitarsi di quanti — per ambizioni personali, istinto di sopravvivenza e spirito di adattamento — cercano soltanto di non venire travolti dal nuovo. Manca chi sappia proporre un progetto, offrire un orizzonte. Nessuno sembra essere né avere voce. L’ultimo tentativo di arrocco era stato la riforma del modello di voto, concepita insieme al Pd con l’intento di costruire — dopo le urne — delle larghe intese sul modello europeo dell’alleanza tra popolari e socialisti, come già in Germania e in Spagna. Se il Rosatellum ha avuto un effetto di sistema opposto, c’è un motivo: la riproposizione della rivoluzione liberale (datata 1994) ha evidenziato in campagna elettorale un’assenza di idee che ha amplificato il senso di frustrazione del «ceto moderato» colpito dalla grande crisi.

Così il Paese ha scelto la via del cambiamento radicale. La forza centrifuga che questa autentica rivoluzione politica sta producendo potrebbe portare alla marginalizzazione e poi alla dissoluzione delle aree moderate e riformiste, oppure alla loro scomposizione e alla nascita di un nuovo progetto. D’altronde un processo di osmosi tra i blocchi che si sono contrapposti nella Seconda Repubblica era iniziato: in fase embrionale con le larghe intese ai tempi del governo Letta, e in maniera più visibile con il patto del Nazareno nell’era renziana. Il Rosatellum, con le sue finalità di governo, è l’indizio più evidente.

Si vedrà se un’operazione macroniana avrà tempo e spazio per realizzarsi anche in Italia. E se Salvini e Di Maio — che si propongono come i fondatori della Terza Repubblica e di un nuovo bipolarismo — daranno tempo e spazio agli avversari per costruire un simile progetto. In ogni caso servirebbero nuovi attori per un’operazione che si porrebbe come area di rappresentanza alternativa a quella sovranista e populista. Ma il futuro è oggi. La sfida che sta per iniziare con le consultazioni per la formazione di un governo, garantisce a Berlusconi ancora un ruolo importante, con la consapevolezza però che l’unità del centrodestra non è un valore in sé. Certo, nessun leader può essere insensibile alla necessità di dare stabilità al Paese. Sarebbe tuttavia complicato assecondare progetti che allontanerebbero il suo partito dall’area di riferimento europea, dove Forza Italia esprime il presidente del Parlamento. E sarebbe ancor più difficile spiegare al «ceto moderato» come si possano combinare le tesi liberali sostenute per venticinque anni con il reddito di cittadinanza. Francesco Verderami, Il Corriere della Sera, 26 marzo 2018

LA TROPPO CALUNNIATA PRIMA REPUBBLICA, di Pierlugi Battista

Pubblicato il 19 marzo, 2018 in Costume, Politica | No Comments »

Non è per difendere la vituperata Prima Repubblica, per carità: archeologia oramai. Ma questo ostinato refrain secondo cui l’Italia starebbe tornando alle nefaste abitudini della Prima Repubblica davvero non sta né in cielo né in terra, è un modo di dire totalmente infondato. Per esempio, la Prima Repubblica è stato un esempio davvero senza paragoni di stabilità politica lungo i decenni. Una stabilità che poteva sfociare nell’immobilismo, nella reiterazione di governi dominati sempre dallo stesso partito: la Democrazia Cristiana. Dicono: ma i governi cambiavano vorticosamente. Sì, ma solo per il cambiamento degli equilibri interno al partito di governo, non per il cambiamento di maggioranze di governo. Nella Prima Repubblica non c’era bisogno di complicati marchingegni elettorali per ottenere le maggioranze in Parlamento. Bastava l’unica vera risorsa che in una democrazia favorisce il formarsi di una maggioranza: i voti. Sommando i voti dei partiti di governo si arrivava al 50 per cento. Poi certo, un premio di maggioranza non darebbe stato sgradito alla Dc, che infatti lo propose nel 1953: la «legge truffa» fu bocciata, ma non importò granché perché per altri quarant’anni gli elettori diedero maggioranze con le leggi che già c’erano.

Nella Prima Repubblica non si conoscevano i «ribaltoni», specialità della Seconda, e i parlamentari non cambiavano massa casacca, come invece avviene in dimensioni scandalose da venticinque anni a questa parte con transumanze da Repubblica delle banane: i partiti erano forti e duraturi, ora sono forti i singoli specializzati nel fare e disfare partitini che durano il tempo di una distribuzione di posti e poi svaniscono. Nella Prima Repubblica le maggioranze di governo rispettavano la volontà degli elettori: è vero, si formavano in Parlamento ma non smentivano mai il verdetto popolare, per cui era legittimo dire, tranne rarissimi momenti di forte turbolenza, che gli elettori decidevano da chi essere governati, e da quale coalizione, senza sentirsi traditi come succede da qualche anno a questa parte, con governi che seguono alchimie bizzarre e soprattutto del tutto sganciate da un mandato popolare esplicito. Nella Prima Repubblica si sapeva la sera stessa chi aveva vinto, non c’era bisogno di scossoni costituzionali. La Prima Repubblica non è da rimpiangere, ma nemmeno da calunniare. Pierlugi BATTISTA, Il Corriere della sera 19 marzo 2018

……Piuttosto da rimpiangere oltre che da non calunniare visti i tanti aspetti negativi che  lo stesso Battista mette in evidenza della seconda e terza repubblica. g.

MIGRANTI, CALANO GLI SBARCHI, di Paolo Mieli

Pubblicato il 24 agosto, 2017 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Sarà anche a causa (oper merito) di qualche «ex capo mafioso» di Sabratha che ha smesso di aiutare gli scafisti e — per legittimarsi con il governo di Tripoli — adesso anzi li ostacola, ma quel che sta accadendo nei mari libici ha dell’incredibile: ad oggi
il numero dei migranti sbarcati nel mese di agosto sulle coste italiane è di 2.859 contro i 10.366 dell’anno scorso. Sono diminuiti di ben più del 72%. Davvero clamoroso. E pensare che le cose in primavera sembravano essersi messe al peggio: ad aprile gli arrivi erano cresciuti a 12.943 contro i 9.149 del 2016. A maggio erano aumentati ancora: 22.993 a fronte dei 19.957 dell’anno scorso. A giugno lo stesso: 23.526 contro 22.339. Infine quei due giorni maledetti, 27 e 28 giugno, nei quali di profughi ne giunsero diecimila. Diecimila che sbarcarono pressoché contemporaneamente da venticinque navi in altrettanti porti italiani. Poi un nuovo mega sbarco di oltre quattromila persone il 14 luglio.

Ci si aspettava un’estate davvero complicata. Tragica per i migranti, prima di tutto, dal momento che — con quei ritmi di fuga dall’Africa — sarebbe stato assai probabile che un’alta percentuale di uomini, donne, bambini avrebbe trovato la morte in mare. E assai impegnativa per il nostro Paese che avrebbe dovuto accoglierne in quantità alle quali non era preparato. È in quel momento che si è avuta la svolta.

Una svolta iniziata qualche giorno prima delle celeberrime disposizioni del ministro dell’Interno Marco Minniti che impegnavano le navi di soccorso delle Ong ad accogliere a bordo agenti inviati dall’autorità giudiziaria. Tant’è che già nel mese di luglio — nonostante i 4 mila del 14 — i migranti giunti nel nostro Paese erano scesi dai 23.552 del 2016 a 11.459. Cosa è successo? Alcuni personaggi equivoci, come quelli peraltro non identificati di Sabratha, hanno giudicato conveniente mollare i trafficanti al loro destino. Si poi è messa in moto la Guardia costiera libica alla quale l’Italia aveva riconsegnato quattro motovedette riammodernate assieme ad una cinquantina di agenti addestrati alla scuola della Guardia di finanza di Gaeta. E la famosa nave che (su richiesta del presidente Fajez Serraj) abbiamo mandato in acque libiche — invio a causa del quale il generale Haftar ci ha minacciato di ritorsioni armate — funge adesso da officina di riparazione delle motovedette di Tripoli. Un programma che va avanti: entro l’estate di motovedette ne consegneremo altre sei; così come continueremo ad addestrare altro personale della loro Guardia costiera. E la Guardia costiera, sia ricordato a sollievo di chi guarda all’intera vicenda ispirato da autentici principi umanitari, non solo ha reso molto meno facili le attività dei trafficanti di profughi ma ha sottratto ad un destino di sventura (e alcuni a «morte certa», parole che prendiamo da documenti delle Nazioni Unite) diecimila disperati in fuga dall’Africa.

La complessa operazione ha avuto un’altra insperata conseguenza. Invece di crescere a dismisura e di andarsi a stipare in dimensioni straripanti nei centri di accoglienza del nord libico, i migranti che quest’estate hanno raggiunto la costa settentrionale africana, sono diminuiti. La notizia che il trasbordo dalle imbarcazioni degli scafisti a quelle delle Ong era stato reso più complicato, ha avuto, ad ogni evidenza, un effetto deterrente. Anche perché, a seguito dell’incontro di Minniti con i «tredici sindaci» (capitribù ai quali è stata offerta una prospettiva economica alternativa al coinvolgimento nel traffico di esseri umani), hanno cominciato a funzionare alcune attività di frontiera a sud della Libia. Ad un tempo è aumentata — con effetti positivi — la sorveglianza dell’Onu (tramite Unchr) sui centri di accoglienza. E ben cinquemila profughi hanno accettato di tornarsene nei Paesi d’origine grazie anche ad un incentivo economico. Il tutto sotto la sorveglianza delle Nazioni Unite.

Ci si può fidare al cento per cento dell’Onu? Sottovalutiamo la disponibilità della milizia di Sabratha a cambiare nuovamente bandiera? Abbiamo risolto una volta per tutte — almeno per quel che ci riguarda — il problema delle migrazioni? Possiamo escludere che negli ultimi giorni di agosto o in settembre si abbia qualche brutta sorpresa? No. È evidente. Ripetiamo: no. È però accaduto che qualcuno si sia finalmente e provvidenzialmente mosso contro i signori del traffico migratorio. E che qualche risultato si cominci a vedere: gli sbarchi ridotti del 72%, la Guardia costiera libica che ha salvato diecimila persone, cinquemila profughi che accettano il «rimpatrio volontario assistito».

Molti dimenticano che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti fu preceduta da una vera e propria guerra cinquantennale della Royal Navy inglese contro gli «scafisti» di allora. Dopo che con lo Slave Trade Act (1807) fu reso illegale il commercio degli schiavi, le navi britanniche ingaggiarono nei mari una battaglia contro i trafficanti che si protrasse fino al 1865, l’anno in cui, con la vittoria del Nord abolizionista, si concluse in America la guerra di secessione. Oggi concordiamo sul fatto che senza quella spietata guerra ai negrieri, la strada per l’abolizione della schiavitù sarebbe stata molto più lunga. L’analogia con quella lontana offensiva contro i trafficanti di esseri umani è stata colta — prendiamone nota — da due personalità alle quali, quando si tornerà a parlare di questo agosto 2017, si dovranno riconoscere meriti particolari: Gualtieri Bassetti e Bernard Kouchner. Bassetti è da poco tempo il presidente dei vescovi italiani e nel momento in cui il mondo cattolico appariva incline a criticare in termini aspri la politica del governo sulle Ong, ha pronunciato — il giorno di San Lorenzo, a Perugia — un notevole discorso nel quale ha richiamato la comunità cristiana ad una guerra senza quartiere contro «la piaga aberrante della tratta di esseri umani» e alla pronuncia del «più netto rifiuto a ogni forma di schiavitù moderna». Riferimenti evidenti alla lunga battaglia della marina inglese di cui si è appena detto.

Ancora più esplicito è stato Kouchner l’uomo che nel 1971 fondò Medici senza frontiere, l’Organizzazione non governativa che adesso non ha firmato il Codice di condotta proposto da Minniti e ha ritirato le proprie navi dai mari antistanti la Libia. Kouchner, pur riconoscendo la liceità delle obiezioni di Msf, ha spiegato quanto sia fondamentale la lotta «inesorabile» ai trafficanti, ha definito senza mezze misure «sbagliata» la decisione di chi come Msf si è chiamato fuori dalle operazioni di soccorso, e ha riconosciuto all’Italia (ma anche alla Germania di Angela Merkel) di aver in questi frangenti «salvato l’onore dell’Europa». Dopodiché ha esortato le Nazioni Unite a farsi valere per impedire che i campi di accoglienza in Libia diventino (o continuino ad essere) dei lager. E a trasformare in qualcosa di più ambizioso il piano per la restituzione dei profughi ai Paesi di provenienza. L’Europa in questo piano ha già investito 90 milioni, l’Italia 20, la Germania 50. Altri soldi forse verranno ancora. Funzionerà? Quel che è certo è che nel Mediterraneo non si è avuta la catastrofe umanitaria da molti annunciata; anzi, sono diminuiti i morti oltreché, in proporzioni clamorose, gli sbarchi. C’è la possibilità che qualcuno, anche uno solo, di quelli che avevano trattato questo capitolo dell’attività governativa alla stregua di una riproposizione delle pratiche persecutorie del nazionalsocialismo, sia indotto da ciò che è poi accaduto, a riconsiderare le cose dette e scritte? Improbabile. Ma se qualcuno volesse dar prova di onestà intellettuale, questa sarebbe l’occasione giusta. Il Corriere della Sera, 24 agosto 2017, Paolo Mieli

…..Se anche Paolo Mieli riconosce che la linea MINNITI ha dato buoni risultati e che la diminuzione degli sbarchi di mifgranti sulle nostre coste (in agosto del 70% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) è prova che qualcosa non andava per il verso giusto sino al varo della diretiva del nuovo ministro dell’Interno, vule dire che qualcosa di non corretto c’era. Ora tocca alle Procure fare luce in ogni luogo e in ogni dieezione per stanare i nuovi negrieri che hanno lucrato sull’immigrazione. g.

DA ANTICRAXIANO VI DICO: GLI DOBBIAMO QUALCOSA, di Piero Sansonetti

Pubblicato il 21 gennaio, 2017 in Politica, Storia | No Comments »

Il 19 gennaio del 2000 moriva esule in Tunisia. Lo hanno fatto passare per un brigante ma era uno statista. Fu abbattuto da Mani Pulite: era rimasto l’unico a difendere l’autonomia della politica. Da allora la politica ha perso autonomia.

Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo.

Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella.

Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria? La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura.

Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato.

LAPRESSE - CRAXI - © INTERNATIONALPHOTO/LAPRESSE 23-05-1987 PARMA POLITICA NELLA FOTO : BETTINO CRAXI PARLA AL COMIZIO SOCIALISTA

Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘ 99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile. Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso.

In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato.

Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere. Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi.

Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il presidente francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia».

Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire.

Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli ( Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta.

f36454b8-9bda-4890-8096-9358f1186099_large

Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante.

Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’Avanti! , il giornale del suo partito, firmandoli Ghino di Tacco. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il political correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un aula di Montecitorio strapiena e silente. Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro.

Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”.

Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio?

Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.

mani_pulite_fotogramma_1

La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton ( e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze.

Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro.

E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali…

Photo prise le 20 octobre 1988 ‡ la Maison Blanche ‡ Washington, du prÈsident Ronald Reagan en discussion avec l'ancien prÈsident du Conseil italien Bettino Craxi (D) qui est dÈcÈdÈ ‡ son domicile tunisien, le 19 janvier 2000, ‡ l'‚ge de 65 ans. Bettino Craxi s'Ètait rÈfugiÈ en 1994 ‡ Hammamet pour Èchapper ‡ la justice italienne qui l'a condamnÈ par contumace, dans diverses affaires de corruption et de financement illicite du PSI, ‡ un total de 27 ans de prison. // Picture dated 20 October 1988 at the White House in Washington shows the then US president Ronald Reagan with former Italien premier Bettino Craxi. Craxi died at his home in southern Tunisia 19 January 2000 at age 65. He fled to Tunisia in 1994 to escape imprisonment on corruption convictions.

In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto.

Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò.

Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse ( economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti.

Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia. Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia.

Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere?

E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato?

Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi. PIERO SANSONETTI.

.….CONDIVIDO. g.



CON REFERENDUM FINITA LA STAGIONE DELLA SECONDA REPUBBLICA, di Antonio Polito

Pubblicato il 14 dicembre, 2016 in Politica | No Comments »

(Afp) (

Rifiutandosi di entrare nella Terra Promessa da Renzi, gli elettori hanno forse scritto la parola fine sulla Seconda Repubblica. Il referendum costituzionale può assumere il valore storico che ebbe quello sul divorzio nel 1974: la chiusura di un’era. Per la verità gli italiani ci avevano provato già nelle elezioni politiche del 2013, mandando in frantumi il bipolarismo. Ma Renzi si inserì abilmente e velocemente nel vuoto di potere.Così illuse se stesso e tutti noi che fosse possibile riesumare, stavolta con un volto più giovane, la salma di un sistema politico che aveva fatto il suo tempo. La Seconda Repubblica ha avuto infatti quattro tratti distintivi: era fondata sul leaderismo, tenuta in piedi dal maggioritario, ingessata in due coalizioni, nutrita dallo strapotere della tv. Nessuno di questi pilastri ha resistito allo tsunami della crisi.

Il primo comandamento dell’epoca politica iniziata nel 1994 era il leaderismo, e diceva che il capo della coalizione di maggioranza, il cui nome venne scritto sulla scheda elettorale, è automaticamente il capo del governo, perché quest’ultimo non si elegge più nel Parlamento ma direttamente nelle urne. Così è stato tre volte con Berlusconi e due volte con Prodi. Dopo la pausa di Monti e Letta, Renzi ha tentato di ripristinare il dogma pur senza passare per il voto popolare. È finita invece come ai tempi della Dc: Gentiloni a Palazzo Chigi nel ruolo di un Goria, un governo balneare a Natale che tiene il posto al prossimo, mentre il potere e la lotta per acquisirlo si spostano nel partito.

Il secondo comandamento era il maggioritario, condizione essenziale del leaderismo. Ma il maggioritario non esiste più nella versione del Porcellum, perché lo ha raso al suolo la Consulta per la sua incostituzionalità; non esiste ancora nella versione dell’Italicum, né forse esisterà mai perché ripudiato già da tutti e sub iudice; e non facilmente potrà risorgere nella versione del Mattarellum, che per tornare avrebbe bisogno di coalizioni che non ci sono più.

Erano appunto le coalizioni il terzo comandamento: tutti insieme contro il nemico comune. Ma da quando ci sono su piazza i Cinque Stelle il nemico non è più comune per nessuno, ciascuno ne ha almeno due, e dunque ognuno per sé. È per questo che la prossima legge elettorale rischia di essere, in ogni caso, più proporzionale di tutte le precedenti. È per questo che il centrodestra è diviso in tre tronconi al momento inconciliabili. Ed è per questo che il Pd è rimasto solo, senza uno straccio di alleati.

Infine il quarto comandamento: se occupi le tv e sei un buon comunicatore, vinci le elezioni. Con Berlusconi funzionò, anche perché lui era padrone della materia. Con Renzi ha funzionato per un po’. Al referendum ha invece funzionato a rovescio. L’occupazione militare delle tv da parte del premier ha generato fastidio, intolleranza e rigetto. Mentre i social hanno dato il mood alla campagna, definendo l’umore del Paese e alimentandolo. Cosa analoga a quella che è successa in America, dove la vittoria dell’outsider Trump è stata cucinata sul web.

Tutto questo ha conseguenze politiche immediate per il Pd. Quel partito è infatti nato nella e per la Seconda Repubblica, si è modellato su di essa per competere con Berlusconi che l’aveva inventata, e perfino il suo statuto e le sue regole interne (lo ha notato ieri acutamente Francesco Cundari sull’Unità) sono costruite sul titanismo autosufficiente del leader, una specie di «berlusconismo democratico», in cui il partito serve solo come strumento elettorale del capo. Ora che l’habitat naturale in cui era nato il Pd si è dissolto, suona stanca, se non patetica, l’idea che si possa ricominciare daccapo nel solito modo. Primarie e camper sono, prima di tutto nell’immaginario collettivo, come mobili di modernariato: eleganti e carini, ma vecchi. Radicamento sociale e social, gioco di squadra invece di idolatria del capo, freschezza di idee e proposte per il futuro al posto di difesa puntigliosa di mille giorni di governo che sono ormai passati e anche elettoralmente bocciati, richie- dono una trasformazione radicale del Pd che francamente non è alle viste. Attenzione, perché nel falò della Seconda Repubblica è già sparito il Pdl, non è affatto detto che il Pd ce la faccia. Certo non ce la farà se continua a considerare la sconfitta referendaria come una specie di accidente, di evento atmosferico disgraziato che ha solo momentaneamente fermato l’irresistibile ascesa di Renzi. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 14 dicembre 2016

REFERNDUM, LE CINQUE RAGIONI DI UNA SCONFITTA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 6 dicembre, 2016 in Politica | No Comments »

Le cinque ragioni
di una sconfitta

La personalizzazione controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di domenica.

Invece non basta, credo. In quel risultato c’è qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell’ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso

Lo dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine politologicamente più nobile.

Eppure Matteo Renzi non è mai stato il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra — uniti in un lodevole afflato di impegno antifascista — si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l’impulso dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori dell’amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire, semplificare. Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché l’ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell’immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.

1) Il profluvio dell’ottimismo, degli annunci sull’uscita dal tunnel, del «ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l’abbiamo fatta». Ai tanti italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud — verso il cui declino storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero — l’effetto è stato catastrofico.

2) A una conferenza stampa o a una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all’uditorio attraverso le slide: a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed «eloquente»: starei per dire in modo «serio». La sola cifra di serietà del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio l’ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica.

3) La mancanza di posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale — almeno a mio giudizio con più di un fondamento — è largamente diffuso un sentimento opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia. Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un’espressione di censura verso i dirigenti dell’inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell’industria e della finanza.

4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel termine «bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti alle slot machine) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l’elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine del «beneficato». È facile immaginare la popolarità derivatane al «benefattore».

5) Il tratto marcato di «consorteria toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione «chiusa», non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai). Il Corriere della Srra, 6 dicembre 2016, Ernesto Galli della Loggia

IL VERO ESAME DI DEMOCRAZIA SARA’ DOPO IL REFERENDUM, di Gianfranco Pasquino

Pubblicato il 22 ottobre, 2016 in Costume, Politica | No Comments »

No, sia come Presidente del Consiglio sia come segretario del Partito democratico, Matteo Renzi esagera e sbaglia. La «partita», qualunque sarà il risultato, non finisce domenica 4 dicembre sera. In democrazia, non esiste una sola partita. C’è un lunghissimo campionato fra idee, proposte, persone e soluzioni. C’è un pubblico, che vorremmo più attento, meglio preparato, maggiormente incline a partecipare che, di volta in volta, esprime, anche andando/non andando alle urne (spettacolo) il suo parere, ma che spesso, legittimamente, lo cambia e al quale urge ricordare che deve assumersi tutte le responsabilità dei suoi comportamenti e delle conseguenze. Lunedì 5 dicembre mattina dopo avere, variamente, festeggiato e/o preso atto con dolore dell’esito referendario, dopo essersi accapigliati nei talk show, quei politici, che hanno a cuore le sorti del Paese e che non intendono essere subalterni ai mercati e agli operatori finanziari, si metteranno al lavoro. Potranno sbrigare il compito anche delle modalità con cui eventualmente sostituire il presidente del Consiglio, ma dovranno, secondo la Costituzione vigente, farlo insieme al Presidente della Repubblica. Mai come in un’occasione simile, Mattarella sarà tenuto a esercitare il suo potere di moral suasion convincendo i riluttanti ad anteporre gli interessi del paese a quelli personali, di carriera e di prestigio. Politici responsabili, se davvero volevano queste riforme oppure se davvero sono riformatori, ma si opponevano alla qualità delle riforme del governo Renzi, ritornano comunque sul discorso/percorso di adeguamento (i vincitori) e di aggiornamento (i perdenti) costituzionale.

Dopo fin troppi mesi (quasi otto) di dibattiti intensi e, spesso, personalizzati e acrimoniosi, è lecito sperare che tutti abbiano avuto e sfruttato la possibilità di imparare qualcosa. Per quanto schierato, non ho mai creduto che tutto il male si trovi/stia dalla parte del governo né che tutto il bene fosse/sia collocato nell’inevitabilmente variegato schieramento del No. Dunque, tutti, ciascuno al suo livello, dovremmo avere imparato qualcosa non solo sulle preferenze altrui, ma anche sulle soluzioni proposte, sul grado di funzionalità e di accettabilità, sulle carenze. Nessun tavolo delle riforme e nessuna Assemblea costituente (che delegittimerebbe del tutto la Costituzione vigente): le riforme ripartono, senza diktat, dalle sedi deputate in Parlamento: le Commissioni e i loro componenti. Questo è anche un modo, forse il migliore, per dimostrare al presidente emerito Giorgio Napolitano, che il Parlamento non è umiliato, ma, in quanto luogo della rappresentanza politica degli italiani (anche se, certo, con il Porcellum non abbiamo una rappresentanza apprezzabile), è perfettamente consapevole di dovere dare risposte semplici, precise, accurate a disfunzioni che esistono, sulle quali il dibattito referendario ha fatto, se non piena, abbastanza luce. Ricordando a tutti che le revisioni costituzionali sono, forse più di qualsiasi altra materia, quelle per le quali vale nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato, sulle quali non è lecito imporre nessuna disciplina di partito, i parlamentari cercheranno di mettere a buon frutto il consenso, ce n’è, ce n’è, che si è espresso su alcune revisioni. Mireranno a migliorare o a cambiare del tutto altre revisioni sulla base di quello che, se hanno fatto una campagna elettorale non allarmistica, demonizzante e manipolatoria, ma informativa e sul merito, non possono non avere ascoltato dai moltissimi cittadini che hanno partecipato ai dibattiti e alle assemblee. Ho imparato dai classici della democrazia, ma anche dai contemporanei, che, oltre a non tagliare le teste, la democrazia si distingue dagli altri regimi per la sua capacità di produrre apprendimento collettivo e di correggere i suoi errori. La mattina del 5 dicembre, vincitori e vinti dovranno dimostrare che questo insegnamento vale anche per ciascuno di loro e per tutti. Gianfranco Pasquino, Il Corriere della Sera, 22 ottobre 2016

………………...Pasquino è un politologo e costituzionalista eccellente, è di sinistra ma è sempre stato equilibrato nei giudizi e nelle proposte. Questa nota descrive ciò che dovrebbe essere perchè la nostra democrazia superi l’esame di maturità dopo la difficile prova referendaria che sta dividendo il Paese fra buoni e cattivi, ovviamente secondo i punti di vista dei due concorrenti, fra il  SI e il NO. Auspico che il NO prevalga e in questo senso è maggiormente calzante l’invito di Pasquino a riprendere subito il percorso di una nuova proposta di riforma che sia calibrata sull’interesse del Paese e non di una parte, peggio di un 2uomo solo al comando” che è di per sè negazione della democrazia. Su un punto però non concordo con Pasquino lì dove ritiene che una Assemblea Costituente eletta per fare le riforme condivise sarebbe una delegittimazione della Carta Costituzionale. Non  ne spiega il motivo e sorvola sul fatto che la Carta Costituzionale è stata scritta e approvata da una Assemblea Costituente, quella eletta il 2 giugno del 1946. g.