Archivio per la categoria ‘Politica’
La crisi italiana non è soltanto di competitività e di liquidità. È anche una crisi di fiducia. Il governo può e deve prendere misure per sostenere le imprese e favorire l’accesso al credito; ma la fiducia non può essere restituita per decreto.
Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia, il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta del lancio dell’Expo 2015 – voluto da governi di ogni colore – e un luogo più indicato di Monza, alle porte di Milano. Per quanto tempo si sia perduto, l’Expo può ancora essere un grande successo. Intanto perché verte sul cibo – un settore di punta per il nostro export – e sullo sviluppo sostenibile, il che chiamerà in causa il volontariato, il no profit, le energie sociali e anche il ruolo della Chiesa cattolica, rigenerata dall’avvento di Papa Francesco. E perché l’Expo sarà per l’Italia una vetrina affacciata sul mondo di domani, sulla Cina, sull’India, sul Brasile, sull’Africa, sul nuovo Medio Oriente che uscirà da una travagliata stagione. Questa vetrina non poteva che essere a Milano, una metropoli che porta la vocazione alla centralità nel suo stesso nome: Mediolanum, la città che sta in mezzo. Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio, ospedali d’avanguardia, università d’eccellenza: Milano ha radici solide, come il Paese che rappresenterà nel 2015. L’importante è che l’Italia sappia ritrovare se stessa.
Molto dipende anche dal governo Letta. Un governo che non era nei desideri di nessuno, ma è l’unico possibile. Il Paese non reggerebbe all’ennesima legislatura perduta: le misure per rilanciare l’economia, le riforme per rendere la politica più efficiente e meno costosa, il semestre di presidenza Ue sono prove da non fallire. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione, ma deve andare oltre. Non si pretende da lui il carisma, che per le larghe intese sarebbe più di ostacolo che di aiuto. Guidare un governo però richiede comunque capacità di leadership. Un premier può essere tecnicamente bravissimo, ma se non «sente» il Paese, se non lo ascolta e non lo interpreta, se non va nelle aziende e nelle scuole, se si lascia trascinare dal gorgo dell’agenda istituzionale, non riuscirà a restaurare la fiducia che oggi manca. Napolitano chiede giustamente stabilità. E la stabilità dei governi dipende anche dalla loro capacità di entrare in sintonia con un Paese che mantiene fondamenta salde, ma ha bisogno di essere rinfrancato sulle proprie capacità di ripresa.Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2013
LA PARALISI DEL FORMALISMO
Pubblicato il 7 luglio, 2013 in Politica | No Comments »
I giudici della Consulta i quali l’altro giorno hanno decretato che in pratica le Province possono essere abolite solo previa modifica della Costituzione, e non con un decreto legge del governo, quei giudici forse non lo sanno: ma essi hanno dato un contributo decisivo perché gli italiani si confermino ulteriormente in un giudizio ormai divenuto senso comune: «In Italia non è possibile cambiare nulla, non si può fare nulla. Siamo condannati alla paralisi».
Un giudizio che si ascolta sempre più spesso anche da chi fino a ieri non si stancava di sperare nella buona volontà e capacità dei ministri, del Parlamento, di qualcuno insomma, di riformare, di semplificare, abolire, qualcosa; di avviare il Paese su strade nuove. E invece no, in Italia non si può. Perché di fatto in Italia un vero potere di decisione non esiste. O meglio: sulla carta si può decidere qualunque cosa, dare vita a qualunque novità. Ma sulla carta: perché poi ogni decisione immancabilmente si arena, ogni novità si blocca, in attesa di un regolamento, di un parere, di una tabella tecnica, della riunione di un comitato, ma sopra ogni cosa in attesa del fatidico « esito del ricorso », suprema spada di Damocle perennemente agitata e perennemente sospesa su ogni atto della Repubblica.
In Italia il potere di chi governa sembra così risolversi, alla fine, quasi soltanto in un semplice potere di proposta. La quale diventa un comando effettivo ma solo se ottiene il placet successivo da parte del combinato disposto di alta burocrazia, codici, Costituzione e magistrature varie. Un insieme di forche caudine disposte ovviamente con le migliori intenzioni che però sortiscono pressoché regolarmente un solo risultato: in un modo o nell’altro quello di svuotare, attenuare, cancellare, il provvedimento di cui si tratta.
Conosco l’obiezione: «C’è poco da fare, è lo Stato di diritto. Nulla si può contro la legge. E se la legge prevede procedure, eccezioni, ricorsi, bisogna rassegnarsi». Certo. Ma è legittimo porsi almeno due domande: perché nessuno pensa – o, se ci pensa, riesce mai – a cambiare davvero le leggi e ancora oggi sembra che cambiare alcune parti della Costituzione equivalga alla fine del mondo? E ancora: perché nell’interpretazione di quelle esistenti sembra prevalere in così tanti casi il cavillo, la capziosità da leguleio, e quasi mai invece la sostanza delle cose e l’interesse collettivo? Il sospetto è facile ma inevitabile: perché è precisamente in questo modo che non solo possono sperare di avere la meglio tutti gli interessi particolari (lobby, corporazioni, potentati economici) abitualmente difesi da agguerritissimi studi legali o da influenti reti di relazioni, ma perché così difendono il loro ruolo e il loro decisivo potere d’interdizione coloro che occupano i gangli dell’alta burocrazia nonché della struttura giudiziaria (troppo spesso collegati anche per via di parentela o di assunzioni di familiari con gli interessi particolari di cui sopra).
La nostra democrazia è in una crisi profonda anche per questo: perché da troppo tempo al potere legittimo espresso dal Parlamento e dal governo – cui solo spetta di decidere in quanto espressione della volontà dei cittadini – si è sovrapposto di fatto un potere di veto, oligarchico e autoreferenziale, di natura castale. L’immobilismo di cui sta morendo l’Italia è il frutto avvelenato della scarsa funzionalità del potere democratico di decidere , cioè del potere della politica, e, viceversa, dell’eccessivo potere di veto delle oligarchie giuridico-amministrative. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 7 luglio 2013
…..Con tutto il rispetto per Galli della Loggia, che leggiamo sempre con piacere, ci sembra che abbia scpetrto l’acqua calda o, se si preferisce, abbia finito col dare ragione, tangta!, a Silvio Berlusconi che queste cose le dice da anni.
LE SENATRICI DEL PD CONTRO LE DONNE:VIETARE LA PUBBLICITA’ CON LE BELLE RAGAZZE
Pubblicato il 6 luglio, 2013 in Costume, Politica | No Comments »
Vietata Belen in ogni sua apparizione. Oscurata Uma Thurman che si beve un’acqua tonica. Bruciata come una strega ogni immagine di Letitia Casta che reclamizzava un profumo di due stilisti italiani. Seppellito sotto colate di cemento lo spot di una marca di jeans girato da una sensualissima Megan Fox. Tremate, tremate, perché le cacce alle streghe sono tornate. A volere scatenare la nuova Inquisizione e fare roteare come negli anni ‘50 le forbici della censura è un nutrito gruppo di senatrici del Partito democratico. Un drappello guidato da Silvana Amati, e con subito a ruota Manuela Granaiola, Daniela Valentini e il vicepresidente di palazzo Madama, Valeria Fedeli, che ha appena firmato un disegno di legge già incardinato dal titolo «Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media». Il titolo sembra generico, ma il contenuto non lo è affatto. L’obiettivo infatti è quello di vietare con pesanti sanzioni (fino a 5 milioni di euro) l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità televisiva o stampata (giornali e manifesti).
Siccome tutte e quattro le prime firmatarie avevano venti anni nel 1968, erano di sinistra e in prima linea a sventolare la bandiera della rivoluzione sessuale, per fare tornare l’Inquisizione nel secondo millennio provano a scegliere le parole adeguate. La sostanza è quella del rogo per tutte le pubblicità che utilizzano il corpo della donna. Ma certo scagliarsi contro «immagini che trasmettono, non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne», è modo assai più elegante e consono ai tempi per accendere il fiammifero sotto quel cumulo di manifesti e celluloide.
Una Belen o una Uma Thurman sensuale in uno spot devono rassegnarsi al rogo perché «stereotipi di genere», che «restringono dunque il margine di manovra e le opportunità di vita di donne e ragazze, ma anche di uomini e ragazzi». Come avrebbe detto negli anni Cinquanta un Oscar Luigi Scalfaro pronto a coprire la balconata abbondante di una matrona in un ristorante romano, «pubblicità e media presentano il corpo femminile come mero oggetto sessuale, esistente per l’uso e per il piacere altrui». Così – dicono le Inquisitrici del Pd, «nelle adolescenti, nelle donne giovani», diventa epidemia «un’ossessiva attenzione al corpo che provoca manifestazioni di ansia e aumento di emozioni negative, riduce la consapevolezza dei propri stati interni». Di più – perché le inquisitrici Pd hanno a cuore soprattutto la salute – vedere una Belen con farfallina evidente «provoca anche conseguenze molto serie sul benessere psico-fisico delle persone che la subiscono: è infatti correlata a un aumento dei disturbi depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari».
È dunque Belen-pandemia, e di fronte ad emergenze di questo tipo le senatrici Pd sono pronte a trasformarsi in crocerossine e perfino in poliziotte della buon costume. A un solo grido: «oscurare, anzi vietare la gnocca». Si preparino i pubblicitari, perché la controriforma è pronta, e naturalmente l’oscuramento di gnocca ce lo chiede «l’Europa», pronta a metterci in mora se tergiversiamo ancora. Ecco la soluzione: «Inserire al codice delle pari opportunità un articolo 1 bis che disciplina il divieto di utilizzare l’immagine della donna in modo vessatorio o discriminatorio ai fini pubblicitari». Chi farà rispettare quel divieto? «Il ministro delle Pari opportunità, anche su denuncia del pubblico, di associazioni e di organizzazioni, nonché di ogni altra pubblica amministrazione che vi abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali». Ad applicare le sanzioni ci penserà una apposita sezione-commissione «per il contrasto alla discriminazione della donna nella pubblicità e nei media», istituita all’interno della Autorità garante della concorrenza e del mercato, che avrà perfino poteri di censura preventiva. La commissione apporrà «un apposito bollino» a «certificare la conformità del messaggio pubblicitario a criteri di qualità e finalità socio-educative per linguaggio, immagini e rappresentazioni, in linea con i criteri di tutela della donna stabiliti dalla presente legge». Sarà quindi vietata «la trasmissione sui circuiti televisivi pubblici e privati sul territorio nazionale di pubblicità o messaggi pubblicitari che non hanno ottenuto il bollino di cui sopra». Oltre all’antitrust, anche i comuni potranno brandire la scimitarra della nuova inquisizione, «inibendo a monte l’affissione di pubblicità sessiste o discriminatorie, lesive della dignità delle donne». I manifesti delle varie Belen dovranno essere «coperti con una scritta adesiva, ben visibile, che recita: SANZIONATO». Gli operatori pubblicitari che non rispetteranno i divieti di spot e manifesti saranno puniti «con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a 5 milioni di euro. Franco Bechis, Libero, 6 luglio 2012
…..A quando l’obbligo per le donne di indossare il burqa e il velo? Forse siamo alla regola del contrappasso come suggerisce Bechis quando richiama il 68 e lo slogan femminista del 2corpo è mio e me lo gestisco io”. Forse, più verosimilmente, si tratta solo di una “vendetta” di donne - magari brutte – contro donne belle che senza fare mercimonuio del loro corpo lo usano per pubblicizzare ciò che non può esserlo dagli uomini. Non meraviglia però che questo ridicolo e anche grottesco tentativo di ritorno al medioevo sia opera delle donne di sinistra: come diceva Prezzolini nessuno sa essere più conservatore dei falsi progressisti. Anche nel culto della bellezza. g.
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DI IERI: PROVINCIE “SALVE” E ITALIA PARALIZZATA
Pubblicato il 4 luglio, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »
Ne siamo certi: la Corte costituzionale avrà avuto le sue buone ragioni. Non per nulla molti davano per scontata la bocciatura sia della riforma delle Province contenuta nel decreto salva Italia, sia del successivo più morbido tentativo di riordino con l’accorpamento di alcuni enti. La Consulta ha ritenuto illegittimo il ricorso al decreto legge per interventi di tale portata, visto che quello strumento dovrebbe essere limitato ai casi di straordinaria necessità e urgenza.
Per avere una più completa conoscenza delle motivazioni bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Certo, una riforma come l’abolizione delle Province, che doveva essere fatta più di 40 anni fa contestualmente alla nascita delle Regioni, non poteva essere ritenuta tanto impellente da giustificare un decreto. Anche se forse sarebbe il caso di ricordare il contesto in cui il decreto salva Italia vide la luce. C’era appunto, da salvare il Paese che in quel momento si trovava in una situazione così difficile da dover affidare il proprio destino a un governo tecnico, con la necessità di prendere nel giro di poche ore provvedimenti in grado di placare i mercati resi pazzi dalle furiose spallate della speculazione internazionale. Di più. Rimettere in carreggiata l’Italia era un passaggio cruciale per la sopravvivenza stessa della moneta unica, tanto erano drammatici i toni della lettera che il 5 agosto del 2011 arrivò all’Italia dalla Banca centrale europea.
Con suggerimenti di misure durissime da adottare immediatamente, e fra queste si citava proprio l’abolizione delle Province, sempre promessa da tutti i partiti ma mai realizzata. Alla luce dei fatti, quella riforma poteva essere o meno considerata urgente? Al di là del merito, comunque, la sentenza della Corte costituzionale conferma se ce ne fosse stato ancora il bisogno che l’Italia è un Paese in preda a una totale paralisi. Non c’è decisione che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato. Può capitare indifferentemente alla riforma delle Province, come alla vendita di un immobile dell’Inps, o alla costruzione di un elettrodotto, oppure alla delibera di un’authority, quando non al licenziamento di un dipendente pubblico corrotto.
È successo perfino al taglio del 10 per cento degli stipendi dei magistrati, cassato dalla suprema Corte perché ledeva l’indipendenza dei giudici, Colpa di una legge scritta male, di una sciatteria burocratica, di un errore formale. Talvolta addirittura di una fantasiosa interpretazione delle norme. Una giustificazione c’è sempre. Fatto sta che non abbiamo più alcuna certezza: inutile lamentarsi del tempo biblico per fare un’opera pubblica, degli anni che necessari a risolvere un contenzioso, degli investimenti esteri sempre più impalpabili. Così non si va da nessuna parte. Ed è bene esserne tutti coscienti, giudici compresi. Sergio Rizzo, Il Corriere della Sera, 4 luglio 2013
………………Se non ci fosse la “firma” di Sergio Rizzo, autorevole fustigatore della “casta” e dei suoi privilegi insieme a GianAntonio Stella, questo commento alla sentenza di ieri della Consulta che ha di fatto annullato ogni intervento normativo sulle Provincie emanati dal Governo tra il 2011 e il 2012, potrebbe essere “”attribuito” a Berlusconi o qualche suo incaricato. E’ Berlusconi che da sempre denuncia le tante decisioni della Consulta che bloccano, annullandola, l’attività dei governi e del Parlamento, è Berlusconi che da sempre invoca una radicale riforma dei poteri di un organo che lungi dall’essere “tecnico” e quindi imparziale è sempre più “politico” quindi, se non fazioso, certamente di parte. Ma Berlusconi è rimasto inascoltato in nome di una presunta e certa “autorevolezza” dell’organo di controllo della legittimità della Repubblica; ora che mettere in dubbio sia pure con molta cautela questa presunta e non cereta autorevolezza è un giornalista di sicura fede non berlusconiana qualcuno, lassù, in alto, sul Colle più alto che più alto non si può, prenderà atto di tale realtà e autorizzerà – proprio così: autorizzerà!- una non più rinviabile riforma costituzionale del sistema dei pesi e dei contrappesi, insieme all’altra riforma ormai ineludibile, quella della giustizia? Vedremo. g.
IL CASO SANTANCHE’: CHI PUO’ RILASCIARE LA PATENTE DI PRESENTABILE?
Pubblicato il 2 luglio, 2013 in Politica | No Comments »
Non si è ancora capito quale sia il peccato di Daniela Santanchè. La deriva bacchettona del Pd sta ormai arrivando al non senso.
Rosi Bindi all’ingresso dell’assemblea nazionale del P
E la questione del vicepresidente della Camera è lo specchio di un partito con il vizio di attribuire patenti morali, come se fosse una chiesa. È una sorta di talebanismo laico che come Bibbia o Corano usa le simpatie di Repubblica. È la storia che si ripete: il Pd che decide che qualcuno non è presentabile. Quello che si fatica a capire è perché. Visto che non ci sono motivi giudiziari alla fine tocca arrampicarsi sugli specchi. È antipatia? È troppo berlusconismo? È eccesso di presenzialismo in tv? È ostinazione nel difendere le proprie idee? È essere una donna con i tacchi? O essere una donna con le palle? Capite che queste obiezioni non reggono. È partigianeria? È rispondere a tono alle critiche? Tutti presunti difetti che non hanno impedito a Rosy Bindi di occupare la stessa poltrona. La pasionaria bianca avrà molte pecche ma nessuno ha mai considerato il suo ruolo da vicepresidente una bestemmia. La Santanchè è una tifosa? La Bindi peggio. Alla sinistra sta antipatica? Bene. A destra molta gente trova urticante la signora Boldrini, ma non è una buona ragione per battezzarla come impresentabile. Non è obbligatorio votarla. Nessun problema. Quello che però sta diventando il sintomo di una malattia è il vizio di mettere etichette. A quanto pare nel Pd e dintorni non riescono a farne a meno. Stanno arrivando al paradosso che, siccome non va bene a loro, una persona diventa eticamente inferiore, una da bannare, da marchiare, da distruggere. Il meccanismo è sempre lo stesso. È un coro che diventa infamia. È far passare una considerazione soggettiva come verità assoluta, senza dare spiegazioni. È colpire con un anatema gli avversari politici più fastidiosi o, semplicemente, meno disponibili ad abbassare la testa. Il Pd perdona solo chi sta a destra con un po’ di vergogna, con il senso di colpa, per sventura. Se uno mostra tutto l’orgoglio berlusconiano va allora punito. Va raccontato come impresentabile. Anche nel Pdl ci sono parlamentari che non si amano tra di loro, o che non amano i candidati alle varie poltrone. È una questione di concorrenza politica interna. Ci sta. Non è un bene del partito, ma almeno c’è una ratio.
Non si è ancora capito quale sia il peccato di Daniela Santanchè. La deriva bacchettona del Pd sta ormai arrivando al non senso.
E la questione del vicepresidente della Camera è lo specchio di un partito con il vizio di attribuire patenti morali, come se fosse una chiesa. È una sorta di talebanismo laico che come Bibbia o Corano usa le simpatie di Repubblica. È la storia che si ripete: il Pd che decide che qualcuno non è presentabile. Quello che si fatica a capire è perché. Visto che non ci sono motivi giudiziari alla fine tocca arrampicarsi sugli specchi. È antipatia? È troppo berlusconismo? È eccesso di presenzialismo in tv? È ostinazione nel difendere le proprie idee? È essere una donna con i tacchi? O essere una donna con le palle? Capite che queste obiezioni non reggono. È partigianeria? È rispondere a tono alle critiche? Tutti presunti difetti che non hanno impedito a Rosy Bindi di occupare la stessa poltrona. La pasionaria bianca avrà molte pecche ma nessuno ha mai considerato il suo ruolo da vicepresidente una bestemmia. La Santanchè è una tifosa? La Bindi peggio. Alla sinistra sta antipatica? Bene. A destra molta gente trova urticante la signora Boldrini, ma non è una buona ragione per battezzarla come impresentabile. Non è obbligatorio votarla. Nessun problema. Quello che però sta diventando il sintomo di una malattia è il vizio di mettere etichette. A quanto pare nel Pd e dintorni non riescono a farne a meno. Stanno arrivando al paradosso che, siccome non va bene a loro, una persona diventa eticamente inferiore, una da bannare, da marchiare, da distruggere. Il meccanismo è sempre lo stesso. È un coro che diventa infamia. È far passare una considerazione soggettiva come verità assoluta, senza dare spiegazioni. È colpire con un anatema gli avversari politici più fastidiosi o, semplicemente, meno disponibili ad abbassare la testa. Il Pd perdona solo chi sta a destra con un po’ di vergogna, con il senso di colpa, per sventura. Se uno mostra tutto l’orgoglio berlusconiano va allora punito. Va raccontato come impresentabile. Anche nel Pdl ci sono parlamentari che non si amano tra di loro, o che non amano i candidati alle varie poltrone. È una questione di concorrenza politica interna. Ci sta. Non è un bene del partito, ma almeno c’è una ratio.
La questione della vicepresidenza a Montecitorio, capite, non è più politica. Non è un problema di moderazione o di larghe intese. È qualcosa di più meschino. È la demonizzazione dell’avversario scomodo. È un gruppo di sacerdoti livorosi che si arroga il diritto di scomunicare chi con troppo orgoglio difende la propria diversità. È il peccato di berlusconismo aggravato. Ma fino a che punto si può governare con politici figli di questa cultura intollerante? Come si può governare con gente che fa le larghe intese per il bene comune ma poi disprezza i suoi partner di governo? È arrivato il momento per il Pd di fare scelte non ipocrite. Adesso hanno deciso di votare scheda bianca. Ed è un’altra vigliaccheria pilatesca. Se non vogliono governare con il Pdl facciano cadere il governo Letta. È più onesto. È più dignitoso. È più chiaro. Salvatore Tramontano, Il Giornale, 2 luglio 2013
……Siamo d’accordo. Ma il problema, comunque, resta. Ed è antico. La pretesa, oggi del PD, ieri del PCI e di tutti i suoi numerosi derivati, di “rilasciare” patenti, ieri di legalità democratica, pardon antifascista, e quindi di legittimità politica, oggi di agibilità politica, pardon, antiberlusconiana, è una componente di sempre del modo di fare dei comunisti e di tutti i loro “derivati”, rimasto immutato dopo la rovinosa caduta del “muro” e della dimostrata fallacità del sistema marxista, in tutte le sue sfaccettature e rimasto immutato anche dopo la dimostrata immoralità di tanti esponenti comunisti per cui è venuta meno la cosiddetta e tanto vantata superiorità morale dei comunisti, post comnunisti e acomunisti di ogni genere e specie. Ora è il momento di Daniela Santanchè. Nei cui confronti si è sbizzarita il variopinto caravanserraglio dei tanti “migliori” o aspiranti tali, da tal Civati alla Sarracchiani che da qualche lustro passa il tempo ad emettere sentenze e giudizi, dall’alto di una non ancora dimostrata superiorità, intellettuale prima ancora che morale, non solo nei confronti della Santanchè, ma di chiunque altro stia “dall’altra parte” del cielo. Ciò è la dimostrazione, se pure ve ne fosse bisogno, che la pacificazione, quella in nome della quale è nato il governo delle larghe intese, che è in fondo il seguito di quello gestito da Monti e sostenuto anch’esso da PDL e PD, è ben lontana dall’essersi realizzata, nache perchè, come è nel costume dei seguaci di Lenin e di Stalin, essa in verità è solo uno strumento cinicamente utilizzato per raggiungere i propri fini, che sono esattamente il contrario della “pacificazione” che per esser tale dovrebbe, anzi, deve fondarsi sul rispetto reciproco. Ma questo è un vsalore che davvero non appartiene nè mai apparterrà a quelli che della gogna per gli avversari hanno fatto da sempre la loro bandiera. g.
La questione della vicepresidenza a Montecitorio, capite, non è più politica. Non è un problema di moderazione o di larghe intese. È qualcosa di più meschino. È la demonizzazione dell’avversario scomodo. È un gruppo di sacerdoti livorosi che si arroga il diritto di scomunicare chi con troppo orgoglio difende la propria diversità. È il peccato di berlusconismo aggravato. Ma fino a che punto si può governare con politici figli di questa cultura intollerante? Come si può governare con gente che fa le larghe intese per il bene comune ma poi disprezza i suoi partner di governo? È arrivato il momento per il Pd di fare scelte non ipocrite. Adesso hanno deciso di votare scheda bianca. Ed è un’altra vigliaccheria pilatesca. Se non vogliono governare con il Pdl facciano cadere il governo Letta. È più onesto. È più dignitoso. È più chiaro. Salvatore Tramontano, Il Giornale, 2 luglio 2013
……Siamo d’accordo. Ma il problema, comunque, resta. Ed è antico. La pretesa, oggi del PD, ieri del PCI e di tutti i suoi numerosi derivati, di “rilasciare” patenti, ieri di legalità democratica, pardon antifascista, e quindi di legittimità politica, oggi di agibilità politica, pardon, antiberlusconiana, è una componente di sempre del modo di fare dei comunisti e di tutti i loro “derivati”, rimasto immutato dopo la rovinosa caduta del “muro” e della dimostrata fallacità del sistema marxista, in tutte le sue sfaccettature e rimasto immutato anche dopo la dimostrata immoralità di tanti esponenti comunisti per cui è venuta meno la cosiddetta e tanto vantata superiorità morale dei comunisti, post comnunisti e acomunisti di ogni genere e specie. Ora è il momento di Daniela Santanchè. Nei cui confronti si è sbizzarita il variopinto caravanserraglio dei tanti “migliori” o aspiranti tali, da tal Civati alla Sarracchiani che da qualche lustro passa il tempo ad emettere sentenze e giudizi, dall’alto di una non ancora dimostrata superiorità, intellettuale prima ancora che morale, non solo nei confronti della Santanchè, ma di chiunque altro stia “dall’altra parte” del cielo. Ciò è la dimostrazione, se pure ve ne fosse bisogno, che la pacificazione, quella in nome della quale è nato il governo delle larghe intese, che è in fondo il seguito di quello gestito da Monti e sostenuto anch’esso da PDL e PD, è ben lontana dall’essersi realizzata, nache perchè, come è nel costume dei seguaci di Lenin e di Stalin, essa in verità è solo uno strumento cinicamente utilizzato per raggiungere i propri fini, che sono esattamente il contrario della “pacificazione” che per esser tale dovrebbe, anzi, deve fondarsi sul rispetto reciproco. Ma questo è un vsalore che davvero non appartiene nè mai apparterrà a quelli che della gogna per gli avversari hanno fatto da sempre la loro bandiera. g.
GOVERNO: L’ASSURDO TIRO AL BERSAGLIO
Pubblicato il 2 luglio, 2013 in Politica | No Comments »
Il meglio è nemico del bene. E invece in Italia la maggioranza parlamentare, anche più dell’opposizione, pullula di autorevoli esponenti che pur di avere un governo migliore minacciano di eliminare l’unico governo che abbiamo. Non che abbiano torto, nel sostenere che si può fare di più. Si vede che il governo Letta ha seri limiti congeniti, non disponendo di un programma votato dagli elettori, bussola di ogni esecutivo che si rispetti. E si vede anche che finora ha pensato più a rinviare i nodi fiscali lasciatigli in eredità dai governi precedenti che ad affrontare l’azione di tagli alla spesa pubblica che nessun governo precedente gli ha purtroppo lasciato in eredità. E però anche nella polemica politica dovrebbe vigere il principio alla base dell’istituto tedesco della «sfiducia costruttiva»: chi dice che se Letta non cambia marcia se ne va, dovrebbe anche dire per andare dove, per fare quale governo, e perché sarebbe migliore. Al momento, le due ipotesi più probabili in caso di caduta dell’esecutivo sono infatti nuove elezioni con la vecchia legge, un bis in idem , o nuova maggioranza basata sui trasformisti in uscita dal Movimento di Grillo. Chi pensa che per l’Italia una delle due soluzioni sia migliore della condizione attuale, alzi la mano.
L’ultimo aut aut è venuto dal senatore Mario Monti, che pure conosce così bene il sistema tedesco da aver chiesto al governo un Koalitionsvertrag , e cioè un vero e proprio contratto scritto come quello che regge le grandi coalizioni a Berlino. La sua iniziativa ha sorpreso tutti perché proviene da un uomo che ha prestato il suo servizio allo Stato, anche pagando un prezzo personale in termini di popolarità, proprio per garantire la stabilità politica interna e la conseguente credibilità internazionale. Ciò non di meno ha prodotto un «vertice di maggioranza» convocato per giovedì, che in Italia è sinonimo solo di maggiore confusione. Sono infatti proprio le tensioni e le divisioni dei partiti l’elemento di maggiore fragilità del governo. È da lì che nascono surreali assi tra Brunetta e Fassina, o inedite convergenze tra i falchi del Pdl e Mario Monti, oppure ancora lo stillicidio di Matteo Renzi, aspirante leader del Pd, contro i «piccoli passi» del compagno di partito che sta a Palazzo Chigi.
È evidente che il governo non ha avuto una partenza sprint, e che deve ancora trovare la sua missione in politica economica. I governi di grande coalizione servono a moltiplicare le virtù dei due partiti maggiori consentendo loro di fare le scelte dolorose che da soli non potrebbero fare, non certo a sommare le promesse demagogiche di entrambi. Al presidente del Consiglio dunque spetta di indicare al più presto degli obiettivi di riforma della spesa che giustifichino l’ambizione di ridurre la pressione fiscale, unico vero volano di crescita. Ma è altrettanto evidente che chi lo giudica dopo 60 giorni con il metro su cui hanno fallito governi che sono stati in carica per anni, lo vorrebbe balneare proprio mentre fa mostra di preoccuparsene. La durata non è tutto, per un governo. Ma senza durata non c’è niente, meno che mai le «grandi riforme» che tutti reclamano con urgenza dal governo.Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 2 luglio 2013
LA CRISI DEI PARTITI: UNA OSSESSIONE TRASVERSALE
Pubblicato il 27 giugno, 2013 in Costume, Politica | No Comments »
In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell’estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s’oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all’identità dell’altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l’immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent’anni del bipolarismo all’italiana. Ma dov’è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l’uno accanto all’altro sui banchi del governo?
Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L’assenza d’un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia. Vale per la maggioranza, vale – singolarmente – pure per l’opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto. La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori. E l’opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un’impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.
Nel silenzio dei partiti, un’unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S’ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d’uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c’è spazio per la politica, e non c’è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell’unico modo che conoscono: cercandosi un nemico. E trovandolo, se non all’esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.
Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un’espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all’unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario. Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.
C’è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C’è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L’anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche. Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri. E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l’esempio.
MACELLERIA, di Alessandro Sallusti
Pubblicato il 25 giugno, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »
C’era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby: fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse.
E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l’unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l’uscita di scena di Berlusconi.
Tra questa giustizia e la finzione non c’è confine. Siamo oltre l’accanimento, la sentenza emessa ieri è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l’entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore – sostenevano i giudici gerarchi – mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te.
Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Quanto al presidente Berlusconi, sono certo che saprà cosa fare. Se è ancora in piedi dopo 18 anni nei quali gliene hanno fatte di ogni, non sarà certo la sentenza di ieri a farlo desistere. Per quel che vale, permettetemi di dire che se avessi non dico un indizio ma un solo dubbio che il presidente abbia molestato una donna anche una sola volta in vita non sarei qui a scrivere queste righe. Frequentando un po’ l’ambiente, e avendo conosciuto l’uomo, ho assoluta certezza del contrario. Stiamo parlando di un galantuomo, mattacchione sì, ma di gran lunga moralmente più integro dei suoi accusatori e giudici. Il che rende di maggior gusto resistere a questa porcata. E alle prossime. Alessandro Sallusti, 25 giugno 2013
LA CONDANNA DI BERLUSCONI: HANNO FATTO UN DANNO EMORME ALLE DONNE, di Ritanna Armeni
Pubblicato il 25 giugno, 2013 in Costume, Giustizia, Il territorio, Politica | No Comments »
Diciamolo subito: il punto non è quello che avverrà dopo la sentenza e la condanna di Silvio Berlusconi o quali saranno le ripercussioni sul governo e sulle larghe intese, il punto è quello che è già avvenuto, quel che le decisioni dei giudici di Milano significano per il paese oggi, un minuto dopo la lettura della sentenza.
Una sentenza non ha solo un valore in sé. Non è indirizzata solo all’imputato. Certo Silvio Berlusconi è il condannato, ma dietro quei sette anni di carcere per costrizione e prostituzione minorile, dietro quell’interdizione perpetua dai pubblici uffici c’è la condanna di un intero mondo, di un modo di vivere il proprio privato, ci sono le “Olgettine”, le cattive ragazze che ricevono doni e denaro, le feste a sfondo sessuale, i divertimenti osé, le danze scabrose. Era bello quel mondo? Era squallido sicuramente, mette tristezza, fa capire tanto sui rapporti fra il potere e il sesso. Il problema è che in uno stato di diritto, in un stato che non arroga a sé il potere di dettare la morale e il comportamento sessuale dei propri cittadini, non può essere oggetto di condanna in tribunale. Invece nel processo non ha avuto alcuna importanza il fatto che, a cominciare da Ruby, quelle ragazze abbiano negato di aver avuto rapporti sessuali. Anzi la minaccia ora è l’accusa di falsa testimonianza. Non è possibile che chi ha partecipato ai giochi e alle danze non si sia prostituita, hanno, di fatto, affermato i giudici. Non è possibile che non si sia prostituita la minorenne Karima El Mahroug che ha fatto come loro. Puttane e bugiarde. Questo sono quelle ragazze e le loro parole al processo ora sono rinviate alla procura perché le esamini ulteriormente. Perché trovi ulteriori colpe contro di loro.
Non considero delle “erinni” le donne giudici di Milano che hanno letto la sentenza, non considero una “strega” Ilda Boccassini. Non mi piace il modo in cui i tanti oppositori della sentenza oggi le apostrofano, ma hanno sicuramente fatto un danno enorme alle donne. Non solo a quelle cattive ragazze che hanno tutto il diritto di essere cattive, cattivissime e anche puttane. E che non sono considerate incapaci di intendere, ma solo furbe maliziose e bugiarde. Ma anche alle altre. A quelle che pensano di essere dalla parte giusta. Perché, come la storia e la cronaca insegnano, in uno stato etico sono le donne le prime a rimetterci, buone o cattive che siano. Sono loro che in uno stato che decide il comportamento morale si trovano a rinunciare alla loro libertà. E il fatto che in tanti e in tante oggi siano felici per la condanna di quel mondo, si sentano finalmente liberate dallo squallore, dal cattivo gusto, dall’odore di stantio che da esso emana la dice lunga non solo su chi ha pronunciato la sentenza, ma anche su quella diffusa mentalità che fa il doppio errore di giudicare immorali e quindi illegali i comportamenti diversi dai propri. Possibile che un’idea di libertà, di legalità separata dall’etica, oggi debba essere rappresentata solo dalle “cattive ragazze”? Ritanna Armeni, Il Foglio quotidiano, 25 giugno 2013
…….Tra tutti i commenti che oggi si possono leggere sui quotidiani a proposito della condanna inflitta ieri a Milano da un Tribunale composto da tre donne, abbiamo scelto, per commentare una condanna che appare agli occhi di tutti, oltre che esagerata, molto discutibile (si può ancora in Italia discutere le sentenze o si corre il rischio di essere denunciati per lesa giustizia?) questo articolo di Ritanna Armeni. Che non è una giornalista al soldo di Berlusconi, nè sul suo libro paga, nè addomesticata in una delle cene di Arcore. Ritanna Armeni, che oggi scrive sul Foglio di Ferrara, è una giornalista di sinistra, anzi della sinistra extraparlamentare e di quella più agguerrita contro Berlusconi. Per questo la sua opinione ci sembra avere un peso maggiore dei tanti e delle tante che in queste ore si sono avvicendati nella “difesa2, spesso d’ufficio, di Belrusconi. Anche perchè la Armeni senza giri di parole issa sul banco degli imputati, anzi delle imputate, le tre giudici che pur di condannare Berlusconi, si sono a loro volta issate sul cielo della difesa della etica e della morale pubblica, pretendendo di stabilire per legge se una donna, più donne, tante donne, possano o meno avere il diritto di fare del proprio corpo ciò che vogliono. Sia chiaro, non condividiamo del tutto le tesi della Armeni, ma ci pare che in un Paese dove il femminismo è stata più che una moda e che in questi giorni, nel bel mezzo di un gran can can, sta varando una legge che punisce la violenza contro le donne (e quella contro gli uomini da parte delle donne a quando?) è una sopresa che un Tribunale al di là di ogni altra questione si sia posto il problema di stabilire cosa una o più donmne possano fare nel proprio spazio personale del proprio corpo. C’è del fondamentalismo esasperato in questa sentenza, al di là delle colpe, ove davvero ci siano, dell’imputato al quale peraltro è stato riservato un trattamento al quale manca solo la condanna all’evirazione da eseguire sulla pubblica piazza con tanto di constatazione formale dell’avenuto taglio dell’arnese oggetto corpo del reato. Ovviamente a cura delle donne.g.
SPIATI I CONTI CORRENTI: SARANNO PUNITI SOLO GLI ONESTI
Pubblicato il 23 giugno, 2013 in Economia, Politica | No Comments »
Spazi di libertà che se ne vanno. Da domani sarà operativo il SID, il nuovo sistema di anagrafe tributaria dei conti correnti.
Non si sa quanto sia voluta la scelta di un nome minaccioso (qualcuno si ricorderà che era la vecchia sigla dei Servizi Segreti italiani) ma di certo fa tremare perché tutti i dati del proprio conto corrente finiranno retroattivamente, a partire dal 2011, nelle mani di Attilio Befera. «Ma come?» Dirà qualcuno «Male non fare, paura non avere! Chi è in regola non deve temere nulla». Ahimè no, perché la storia della fiscalità italiana è costellata di vessazioni perpetrate proprio ai danni dell’onesto contribuente.
Le armi del grande evasore si chiamano Svizzera, Singapore, Cayman. I metodi di pagamento del malvivente non sono mai l’assegno o il bonifico. I grandi indagati per tangenti erano sempre stati pescati con il conto a Montecarlo o con i lingotti nell’imbottitura del puf, non si ricordano alle cronache malfattori col conto risparmio. Se ci fosse tuttavia la certezza di un utilizzo leale da parte dello Stato per combattere la famigerata evasione, la cosa potrebbe trovare giustificazione ma non è questo il caso per due motivi principali: innanzitutto un nuovo patto col contribuente fatto di punizioni esemplari e di controlli ferrei dovrebbe accompagnarsi ad una sostanziosa riduzione delle aliquote. Il concetto è difficile da digerire per l’onesto che paga tutto e che pensa che come lo può fare lui lo dovrebbero fare anche gli altri, tuttavia occorre sforzarsi e ragionare sui numeri: oggi il rapporto tra tasse incassate e Pil è ai vertici mondiali. Questo significa che se magicamente, mantenendo le aliquote attuali, tutti pagassero il dovuto, la pressione fiscale in Italia lo renderebbe il Paese più tassato del mondo di molti punti percentuali. Anche la vecchia storia del «se tutti pagassero le tasse le aliquote sarebbero più basse» è una solenne bugia perché mai ad un aumento della proporzione del gettito si è accompagnato un calo delle aliquote. Né mai succederà, tenuti presente i nostri impegni di bilancio. E qui arriviamo al secondo punto.
Ci ricordiamo le parole di Prodi che promise che «chi già pagava tutto non doveva temere nulla» salvo poi seppellirlo di gabelle? E soprattutto di Monti che disse che per una tassa «generalizzata» sul patrimonio occorrevano strumenti di accertamento che al momento non c’erano? Ebbene, dato che delle buone intenzioni dello Stato abbiamo imparato da tempo a diffidare e che governi di ogni colore hanno sempre calpestato i diritti dei cittadini con tasse irragionevoli e addirittura retroattive, non si può non pensare che si stia preparando l’ennesima tonnara per macellare il contribuente, magari in nome dell’Europa. Una trappola che incenerisce anche gli ultimi barlumi di privacy e che rischia di colpire ancora una volta gli onesti, lasciando gli evasori del tutto indenni al riparo dei loro conti esteri e schermati. Paradossalmente l’unica difesa del contribuente sarebbe la crisi, come dimostrato dalla recessione provocata dagli inasprimenti di Monti. Spiati, vessati e a rischio fallimento: non esattamente le migliori condizioni per un rilancio economico. Il Giornale, 23 giugno 2013
………………..Tutti, da destra a sinistra, avevano assicurato che sarebbe stato posto un freno all’invasione barbarica di Equitalia nella privacy degli italiani. Infatti da domani Equitalia e i suoi sceriffi di Nottingham potranno contare i peli dei contribuenti italiani, naturalmente di quelli onesti, che le tasse le pagano dal primo all’ultimo centesimo. Gli altri, i milioni che già sfuggono al fisco, continueranno a farlo tranquillamente, perchè l’Himmler di Equitalia avrà altro di cui occuparsi.