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Ricordate? Un giovane rom senza patente alla guida di un suv investì volontariamente e uccise un vigile urbano di Milano.
Era il 12 gennaio del 2012. Poche settimane fa il ragazzo è stato condannato a 15 anni di reclusione, una pene lieve se paragonata ai 26 chiesti dall’accusa. Lo sconto è stato motivato dai giudici così: «È cresciuto in un contesto di vita familiare caratterizzato dalla commissione di illeciti da parte degli adulti di riferimento e in una sostanziale assenza di scolarizzazione ». Noi titolammo, sintetizzando la questione: «Se il killer è rom, l’omicidio è meno grave», perché ci era parso che tra le righe si dicesse chiaramente che era stata riconosciuta un’attenuante specifica caratteristica di quella etnia.
Bene, la ministra alle Pari opportunità, Josefa Idem, ha fatto fare dal suo dirigente un esposto all’Ordine dei giornalisti considerando la nostra sintesi offensiva dei rom. Punite quei razzisti, chiede la signora, politicamente corretta con noi del Giornale quando si tratta di rom assassini, ma molto scorretta in quanto a etica personale. Già, perché è lei quella che ha fatto la furba per non pagare l’Imu, inventandosi finte residenze in palestra e non solo. Visto che anche io, alla pari dei rom, voglio godere di pari opportunità, le chiedo, signora: a chi mi rivolgo per non avere al governo un ministro evasore visto che io l’Imu l’ho pagata? Alessandro Sallusti, 22 giugno 2013
…….L’antico detto secondo il quale “fai come dico io e non fare come faccio io” è sempre in voga, spercie quando si dvee gustificare se stessi o i propri amici. E comunque il caso della Idem non è isolato e purtroppo non riguarda solo chi sta in alto, ma anche e spesso chi sta in basso.
La rapidità con cui è fallito il progetto di Scelta civica è sorprendente quasi quanto la velocità con cui si sta dissolvendo la speranza del Movimento 5 Stelle. Eppure, con tutte le loro diversità, si tratta delle due facce che la rivolta contro il sistema dei partiti aveva assunto alle elezioni di febbraio; dei vincitori (Grillo) e degli sconfitti (Monti) della cosiddetta «antipolitica». Sembra oggi di assistere alla nemesi storica dei due partitoni che, seppure ammaccati e logori, sono sopravvissuti all’assalto e si preparano a dare loro le carte di una possibile Terza Repubblica.
Ma mentre la crisi dei grillini avviene sotto gli occhi del pubblico come in una telenovela sudamericana, quella del partito di Monti si è avviluppata invece in bizantinismi incomprensibili, in una litigiosità tra correnti e personalità che stride con la modestia dei numeri e ricorda le battute sulla scissione dell’atomo. Non ci addentreremo dunque nelle ragioni per cui Monti e Casini stanno per divorziare (anche se in realtà il loro è piuttosto un matrimonio rato e non consumato, e in quanto tale spera di ottenere un più discreto annullamento). Ma è interessante capire che cosa è andato storto, perché tre milioni di italiani, e non i più impulsivi o disinformati tra gli elettori, avevano dato fiducia a Scelta civica nelle urne. Consegnandole un risultato che, seppure non un successo, era pur sempre una base accettabile per contare qualcosa.
Gli avversari dicono che il tentativo di Monti è fallito perché «tecnocratico». Ma è più probabile che abbia invece pagato proprio un eccesso di politicismo. La sua decisione di candidarsi alle elezioni è stata l’opposto di una scelta tecnocratica: ha chiesto all’elettorato il mandato a governare. Il Professore sarebbe stato più furbo, ma non più corretto, se avesse aspettato in panchina un pareggio elettorale per poter tornare a fare l’arbitro. Però Monti è entrato in campo portandosi addosso la soma della vecchia politica. In primo luogo accettando il ruolo di possibile stampella di una vittoria mutilata della sinistra. Chi ha rifiutato il governo di Bersani e Vendola ha dunque rifiutato anche lui, e questo ha chiuso a chiave il forziere dei voti moderati, così riconsegnati al redivivo Berlusconi. Il secondo handicap, forse anche più esiziale, è stato l’alleanza elettorale con i frammenti più vetusti del big bang della Seconda Repubblica, che ha spogliato Scelta civica di ogni credibilità come fulcro di un radicale rinnovamento del sistema.
L’errore nelle alleanze è stato così grave da aver prodotto effetti anche dopo il voto. Ciò che in natura non può stare assieme, prima o poi si divide. Quello che sta accadendo è la riprova che Monti e Casini non potevano e non dovevano stare insieme. ANTONIO POLITO, Il Corriere della Sera, 22 giugno 2013
Tutto come previsto. Ora tra la vita e la morte politica di Silvio Berlusconi c’è solo un passo, una sentenza della Cassazione.
È quella sul processo diritti Mediaset che dovrà confermare o no, entro l’autunno, la condanna a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici inflitta in secondo grado al leader del Pdl.
come chiesto dalla difesa – sostenendo che un Consiglio dei ministri convocato d’urgenza (su pressione dell’Europa) dall’allora premier Silvio Berlusconi non poteva valere come legittimo impedimento a partecipare a un’udienza (che i giudici svolsero senza l’imputato).
In sintesi: dei giudici che decidono che cosa è utile, necessario per un governo e quindi per il Paese. Un’arrogante interferenza di un potere dello Stato (la magistratura) nei confronti di un altro potere (l’esecutivo), ultimo atto di una persecuzione formale e sostanziale iniziata all’indomani della famosa discesa in campo. Tra pochi mesi, quindi, il leader del Pdl perderà l’agibilità politica. Non uso il condizionale perché sono sicuro che la sentenza di morte è in realtà già scritta. Non c’è motivo perché la casta dei magistrati, se lasciata libera di scorrazzare, si fermi sul più bello. So che non pochi, dentro il Pdl e nella corte, consigliano Berlusconi di stare fermo immobile perché in qualche modo le cose ancora si possono aggiustare. Sono le famose colombe, le stesse che garantivano il buon esito della sentenza di ieri. Io non sono contrario alle mediazioni, ma ai fallimenti sì. Colomba è colui che fa la spola portando avanti e indietro un ramoscello di pace. Mi pare che le nostre colombe invece partano col ramoscello e tornino regolarmente a zampe vuote. Cioè sono inutili, direi dannose come i piccioni.
Berlusconi se la cava alla grande quando dà retta solo a se stesso, al massimo all’umore del suo elettorato. E non credo proprio che gli elettori del Pdl siano felici di vederlo uscire di scena silente e umiliato. Perché è chiaro che, via lui, il Pdl si scioglierà come neve al sole. E non è un mistero che già qualcuno dei colonnelli per salvarsi si stia spalmando crema protettiva gentilmente offerta da finti amici (la stessa usata da Fini al tempo del tentato golpe).
Tre mesi. Questo il tempo per stanare il presidente Napolitano, duro nel sostenere il governo di larghe intese ma ambiguo nel garantire l’agibilità politica di uno dei due soci. Non so se la sentenza di ieri inciderà sulla tenuta del governo (Berlusconi dice di no). Ma so che andare a braccetto e spianare la strada a chi ti vuole morto non è da colombe. O è da fessi o da doppiogiochisti. Alessandro Ssallusti, 20 giugno 2013
……..Non ci sembra che siano alternative, nè che quanto sostiene Sallusti sulla sentenza già scritta dalla Cassazione sia campato in aria. Potremmo limitarci a sottolineare che quel che accade oggi è la conseguenza delle incertezze degli anni trascorsi dinanzi al problema giustizia e alla necessità di riformarla, senza che si sia mai tentato davvero di farlo. Ma diserteremmo dinanzi al problema che realisticamente evidenzia la prosa scarna ma efficace di Sallusti: il rischio che certa magistratura possa di fatto dettare le regole del gioco per i prossimi decenni e che nei prossimi decenni quel che resta della destra italiana ( bella o brutta che sia, fallace o meno che possa essere stata a parere di Antonio Polito in un suo recente saggio sui fallimenti della destra italiana negli ultimi cent’anni) sia costretta a fare tappezzeria e i suoi esponenti – colombe o falchi – ad accontetarsi del ruolo di maggiordomi, è talmente alto e sopratutto inaccettabile, tanto da indurci a considerare unica alternativa ciò che sotto sotto Sallusti propone: far saltare il tavolo e giocare il tutto per tutto delle elezioni anticipate, con tutti i rischi che ciò comporta. Ma dinanzi all’inelluttabile, occorre far di ragion virtù. Del resto l’alternativa è vedere che le cosiddette colombe, con l’aggiunta dei falchi che a loro volta, per salvarsi il c…o, si trasformeranno anch’essi in colombe, piangeranno lacrime di coccodrillo nel mentre si appresteranno a riciclarsi nel panorama che verrà. E’ un film già visto, purtroppo, e tante volte, nel corso della breve storia del nostro Paese, dal postunità a tangentopoli. Con buona pace di Berlusocni che ha trasformato tanti asini in cavalli e li ha issati sugli scranni più alti della Repubblica, come neppure Caligola aveva fatto che senatore ne fece solo uno. g.
ROMA – Quattro-cinque euro annui in meno sulla bolletta della luce del 2013, il doppio l’anno prossimo. Tanto dovrebbe valere per le famiglie italiane (che ogni anno pagano in media 511 euro di luce) la riduzione, pari a 550 milioni, del prezzo dell’energia elettrica, deliberata dal governo Letta nel decreto «Fare».
Il condizionale è d’obbligo, visto che ieri i tecnici dei ministeri competenti erano ancora al lavoro per «cifrare» il decreto e nelle ultime ore è circolata l’indiscrezione di 150 milioni di euro, di cui ora dispone l’Erario, provenienti dalla cosiddetta componente A2 della bolletta (oneri per la messa in sicurezza del nucleare), e che potrebbero essere destinati al taglio delle bollette. Se queste risorse fossero risorse aggiuntive, genererebbero un ulteriore sconto quest’anno di due euro, ma potrebbero anche essere soltanto sostitutive di qualche altra voce.Fonte ANSA, 18 GIGUNO 2013
……………Insomma il decreto del “fare” ha partorito per gli italiani l’ennesimo topolino o, se si vuole, l’ennesima presa in giro. Letta, nella conferenza stampa di presentazione del decreto legge, annunciava, tutto giulivo, che le bollette della luce sarebbero state diminuite nell’anno 2013. A conti fatti si tratta di 5 euro all’anno, che potrebbero salire a 7 ma non di più. Cioè quanto gli italiani di buona volontà fanno cadere nel cestino delle offerte durante la messa domenicale. Quindi una elemosina all’anno quella del governo delle larghe intese a fronte delle esosissime tasse che gli italiani pagano per mantenere in vita un sistema che fa acqua da tutte le parti. g.
Ma in Italia esistono ancora i partiti? Dietro le etichette sopravvissute alla tempesta del voto, all’elezione del presidente della Repubblica e alla nascita di un governo vissuto come una camicia di forza è rimasto un vuoto politico, organizzativo e di leadership che ha pochi precedenti nella storia della Repubblica. Un deserto che va dalla formazione di Vendola all’ex destra di An, dal Pd a ciò che resta del Pdl. Per non parlare di Scelta Civica svanita nel nulla e della Lega sconfitta e messa alle corde perfino da Umberto Bossi.
Se dai partiti si passa a quello che orgogliosamente si considera un «movimento di cittadini» il panorama non cambia: dopo il successo del 24 febbraio i 5 Stelle hanno vissuto una serie interminabile di abbandoni, processi ai dissidenti, liti su soldi e scontrini. Ora siamo all’atto finale: tanti eletti sono pronti ad abbandonare il gruppo mettendo in discussione la figura di Grillo, trasformatosi da trascinatore dell’Italia ribelle in capo autoritario e bizzoso.
Ma è quello che accade nel Pd e nel Popolo della Libertà che deve più preoccupare. Il Paese ha bisogno di un’alleanza di governo che duri il tempo necessario a promuovere le misure contro la crisi. Riforme radicali per liberare le risorse utili alla crescita, promuovere l’innovazione, creare opportunità di lavoro per i giovani, rendere efficiente la pubblica amministrazione, cambiare le istituzioni e la legge elettorale. Compito al limite dell’impossibile.
Il Partito democratico è invece ancora immerso in una resa dei conti interni senza fine. È arduo seguire la scomposizione delle vecchie correnti e la nascita delle nuove, decifrare il dibattito sulla scelta del segretario e sul metodo per eleggerlo. C’è un unico punto certo: rendere più complicata la corsa di Matteo Renzi, leader popolare ma alieno alle liturgie degli ex comunisti. Si avverte l’assenza di una linea politica comune, la tentazione di buttare a mare le larghe intese per tornare ai lidi tranquilli di un’identità di sinistra rafforzata dall’iniezione di grillini dissidenti.
Ancora più indecifrabile è il confronto in corso nel Pdl. Da un anno si litiga sul ritorno a Forza Italia, una questione irrilevante dopo l’addio dei politici provenienti da An. Ci si accapiglia tra falchi e colombe filogovernative senza rispondere alle vere domande: come sopravviverà il partito senza la leadership (scossa dalle inchieste e calante nella presa elettorale) di Silvio Berlusconi? Quali dirigenti saranno in grado di interpretare le aspirazioni di un elettorato moderato in fuga verso l’astensione? E come potrà convivere il populismo movimentista con il progetto di una forza legata ai popolari europei?
Partiti seri, consapevoli della sfiducia totale del Paese approfitterebbero dell’attuale tregua per ripensare se stessi, ricostruire la credibilità perduta, promuovere nuove classi dirigenti. Invece non sanno neppure riconoscere che sono loro i malati gravi, scaricano sull’esecutivo tensioni e movimenti scomposti. La speranza di una «democrazia normale», con due poli (progressista e conservatore) che competono per conquistare il consenso degli elettori è sempre più lontana. Luciano Fontana, Il Corriere della Sera, 16 giugno 2013
…………………..Non nutra speranza l’autore di questo editoriale: i partiti, quel che resta di ciò che essi furono nel passato, nel bene e nel male, i protagonisti della rinascita nazionale, della trasformazione di un Paese demolito, non solo materialmente, dalla guerra al Paese che si rimboccava le maniche, ricostruiva il futuro, conquistava obiettivi e guardava lontano, quei partiti non esistono più e non esisteranno più neppure nel futuro. Tutti, nessuno escluso, sono ormai conventicole che si rinchiudono in se stesse allo scopo, neppure tanto nascosto, di eternare ciascuno la propria la classe dirigente costruita non come nel passato, attraverso la selezione dal basso, ma attraverso cooptazioni e chiamate dall’alto. Anche per i livelli più bassi dell’apparato, e ciò è caratteristica sia dei piccoli, sia dei grandi partiti, dal Pd al PDL. In quest’ultimo, poi cresce, ad onta dell’uragano che sempre più si avvicina, una nuova classe di “ras” che considerano i territori come conquiste da trattare come personali capisaldi da affidare ai peggiori figuri che abbiano la caratteristica d essere assolutamente imbecilli. Di questo passo è ovvio che si scade nel nulla e si aggrava la malattia di cui i partiti sono affetti: la miopia, anzi la più totale cecità. Tanto da non accorgersi di essere sempre più impopolari e sempre più individuati come le vere calamità dell’attuale situazione socio-economica-politica-morale e quindi come l’emblema di ciò che deve essere rimosso, spazzato via. Come potrà avvenire la rimozione è difficile pronosticarlo: ma avverrà. g.
Due colleghi di Panorama, il direttore Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura di Palermo, quella di Ingroia per intenderci.
Quel Pm e quel giudice che hanno chiesto e concesso le manette dovrebbero leggere, per poi ingoiarlo, chiedere scusa e dimettersi, il documento con cui il Csm ha messo ieri sotto accusa il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. C’è da rabbrividire, in confronto l’inchiesta di Panorama è stata una carezza. Messineo, secondo i colleghi del Csm è uomo debole, succube del sottoposto Ingroia che lo manovrava a suo piacimento. Si parla di fughe di notizie pilotate, di intercettazioni imbarazzanti su Messineo che Ingroia ha imboscato, di tempo speso a inseguire teoremi politici a scapito della lotta alla mafia, tanto da fare fallire la cattura del nuovo capo dei capi Matteo Messina Denaro.
È anni che noi del Giornale sosteniamo la tesi della giustizia politicizzata a Palermo (e non solo) e per questo siamo stati oggetto di ogni genere di angherie: campagne mediatiche per delegittimarci da parte della cricca di colleghi (Travaglio e soci) che ha tenuto bordone a questa sorta di associazione segreta e deviata, condanne a risarcimenti milionari e più di recente alla galera.
Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Qualcuno ci restituirà soldi ed onore? C’era, e c’è tuttora, uno Stato nello Stato che non si capisce a chi risponde. A Palermo, come a Milano e Napoli, le procure e i tribunali sono fuori controllo, che è altra cosa da una sana indipendenza. Molti Pm hanno goduto, e godono, di protezioni politiche e mediatiche che li hanno fatti apparire come eroi del diritto e unici paladini della Costituzione quando in realtà si tratta solo di servitori dello Stato infedeli al servizio di chi, dentro e fuori il Paese, vuole sovvertire la volontà popolare. Di loro ci mettono solo megalomania e spocchia figlie di un’impunità totale che hanno ottenuto con il ricatto e l’inganno. Pensavano di mettere le mani pure sul Quirinale, coinvolgendo Napolitano in una delle tante patacche spacciate per verità giudiziarie. Hanno esagerato e ora pagano. Spero che questo da oggi accada anche di fronte ai loro soprusi nei confronti di comuni cittadini e di chi ha osato, come noi e i colleghi di Panorama, svelare i loro altarini e criticare il loro modesto lavoro.Alessandro Sallusti, 14 giugno 2013
…….Parole coraggiose quelle di Sallusti, spiace, però, che la politica, da destra a sinistra abbia fatto finta di niente. E ciò è sufficiente a farci inquietare ancor di più. g.
La decisione, comunicata dal portavoce del governo ellenico, Simos Kedikoglou, rientra nell’ ambito del programma delle privatizzazioni delle aziende a partecipazione statale concordato con la troika. Resteranno a casa i circa 2.800 dipendenti. Sospese, dalla mezzanotte, le trasmissioni della tv e della radio. La Ert sarà sostituita “da una struttura moderna ma non di proprietà dello Stato”, che operareà con personale ridotto. I lavoratori della Ert riceveranno un indennizzo.
Kedikoglou ha spiegato che “in un momento in cui al popolo greco vengono imposti sacrifici non ci possono essere entità intoccabili che possono restare intatte quando si applicano tagli ovunque”. E la Ert è un caso particolare di “sacche di opacità e incredibile spreco di denaro pubblico. Costa da tre a sette volte le altre tv e ha da quattro a sei volte il personale di altre strutture con ascolti ridotti”. Proprio per questa ragione il governo di Atene ha deciso di chiudere le trasmissioni, azzerare tutto e ripartire.
……Pensate per un attimo se al posto di “greca” ci fosse stato scritto “italiana”: che festa. Finalmente tutti a casa i super pagati giornalisti, conduttori, ballerini e ballarò di ogni genere, a incomiciare da Fazio per finire alla Clerici, costretti da ora in poi a guadagnarsi il pane come ciascuno di noi, poveri mortali, costretti a sorbirseli mentre versano lacrime di coccodrillo sui poveri italiani e loro appena possono se la spassano sulle meravigliose spiagge e sulle montagne innevate di mezzo mondo. Purtroppo la notizia non riguarda gli sperperi italiani che alla faccia di tutte le promesse del mondo rimangono esattamente come erano un paio di anni fa…purtroppo la RAI italiana continua ad essere come l’acquedotto pugliese che nella sua storia ha dato più da mangiare che da bere, parola dell’indimenticabile Montanelli. g.
Ma il Pd non era moribondo? Eppure ha stravinto le amministrative. Ma Grillo non rappresentava il futuro radioso e un nuovo modo di far politica? Il suo ciclo appare già finito? E il Pdl delle rimonte impossibili? Si è afflosciato miseramente. Aggiungete l’eclissi di Sel, l’agonia della Lega, per non parlare di Scelta Civica di Monti (a proposito, esiste ancora?), la misera fine di Fini, di Pietro, di Rifondazione comunista e vi accorgerete di quella che è la nuova realtà della politica italiana: il comportamento dell’elettorato non è più prevedibile.
O meglio, non può più essere analizzato attraverso i vecchi parametri, che limitavano l’erraticità e il voto trasversale ai partiti estremi, mentre il 60/70% era saldamente ancorato ai partiti moderati di destra e di sinistra.
Ora invece l’elettorato è diventato iperliquido, oscilla bruscamente da un fronte all’altro alla ricerca di un Partito o di un leader che lo rappresenti, con fiammate improvvise per alcune figure e altrettanto repentini abbandoni.
Gli zoccoli duri del centrodestra e del centrosinistra ormai sono ridotti a circa il 20% ognuno, con una differenza importante: quello del centrosinistra, che ha ereditato la struttura partitica del vecchio Pci, è stabile e fedele. Marino a Roma non ha vinto perchè bravo, ma perché, a fronte di un astensionismo record, quel misero 20% diventa sufficiente per vincere, anzi per stravincere, le elezioni.
E il centrodestra? Il centrodestra non è mai diventato un vero partito, non si è mai riganizzato capillarmente sul territorio, punta tutto, da sempre, sul voto d’opinione moderato, sulla regolarità delle classi medie, che, però, in un’Italia in crisi appaiono meno motivate, se non amareggiate, sfiduciate e dinque tendono a disertare le urne. Tanto più che il centrodestra appare ancora – anzi, sempre di più – dipendete dalla straordinaria capacità di mobilitazione di Silvio Berlusconi: quando il Cav si impegna in prima persona il centrodestra rimonta (vedi il voto di febbraio) o perde dignitosamente, quando se ne sta in disparte crolla fragorosamente.
E questo è molto preoccupante per il Pdl e in genere per i moderati italiani che rischiano di rimanere senza rappresentanza quando Berlusconi, che non è più un ragazzino, deciderà o sarà indotto a ritirarsi dalla politica. Dietro di lui c’è il nulla.
Ecco perché, paradossalmente, il Pd, per quanto arruginito, poco credibile e cigolante, ha davanti a sé un futuro più radioso del Pdl, che continua a non capire, a non prevedere, a non programmare. Che disastro. Marcello Foa, 12 giugno 2013
.….Purtroppo questa “opinione” di Marcello Foa, giornalista ed opinionista di “destra” non è lontana dal vero. Sempre più si conferma che il PDL e il centrodestra si è appiattito su Berlusconi che sopperisced con la sua leadership alle carenze vistose di un partito la cui classe dirigente, quella degli eletti in primo luogo, è frutto non di esperienzas e capacità, ma solo di “scelt” dall’alto che non reggono sal confronto elettrorale quando Berlusconi non c’è. Del resto questa oipnione di Foa coincide perfettamente con quella oggi espressa in una intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno da Marcello Veneziani, indiscutibilmente ultima espressione dell’intellettualià di destra che sempre più si fa latitante nel Paese e nella cultur italiana. Anche Veneziani sostiene che il partito creato da Berlusconi vive solo della luce riflessa del suo leader la cui “scomparsa” determinerebbe la scomparsa del partito. Occorre correre ai ripari. Ma non sembra che nel PDL e nella sua mediocre classe dirigente si abbia contezza sino in fondo di ciò che c’è dietro l’angolo. g.
Si può anche fare l’elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui vota solo il 48,6 per cento dell’elettorato. E dunque, è giusto affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un’Italia più «americana» perché si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta, significa sottovalutare la frattura che si è consumata.
Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un’era è finita. In realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l’asse fra Pdl e Lega: a Roma il Carroccio non c’è, eppure il centrosinistra trionfa nell’oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l’idea che se Silvio Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse l’ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al primo turno, l’incognita è il non voto.
Collegarlo all’assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta: l’astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna risposta, anzi. L’unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a carico del Cavaliere.
Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito sull’«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze estese al Sel e a volte con una strizzata d’occhio ai grillini, dice che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare l’impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.
Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare all’incasso elettorale non diminuiscono. Ma c’è voglia di stabilità, e di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di allontanarlo; e di far perdere all’Italia tempo prezioso. Massimo Franco, 11 giugno 2013
Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell’Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti – la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell’Unione.
Il rischio – oltre a quello dell’astensione – è che a Strasburgo sbarchino le forze dell’euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.
Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d’Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità – uno dei grandi tabù francesi – a condizione che l’Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.
Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all’integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell’impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.
È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l’Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all’Elba, quando il sogno era già tramontato. Massimo Nava, 8 giugno 2013