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IL GOVERNO E LE RIFORME: IL CORAGGIO DI DECIDERE

Pubblicato il 6 giugno, 2013 in Politica | No Comments »

«E il governatore si rivolse di nuovo a loro, dicendo: «Quale dei due volete che vi liberi?». E quelli dissero: «Barabba». E Pilato a loro: «Che farò dunque di Gesù detto Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso». Sono quasi duemila anni che il Vangelo ricorda alle classi dirigenti che non si può governare coi sondaggi. E che Sua Maestà il Popolo, che di tanto in tanto viene invocato come un idolo e ipocritamente confuso con la democrazia, può sbagliare. E di grosso.

Spiegava Marshall Mc- Luhan che «difendere i sondaggi affermando che sono un modo per “consultare la saggezza collettiva” equivale a dire di poter estrarre la radice quadrata di uno spazzolino da denti di color rosa». Parole sante. Non sempre le emozioni, e più ancora le ondate popolari, sono sagge. Anzi.

C’è quindi qualcosa di storto nell’affanno con cui tanti leader politici, dopo avere smesso per anni di parlare con i loro elettori e soprattutto ascoltare le loro ragioni fino a creare quel distacco crescente tra il Palazzo e la società, si precipitano a precisare che su ogni cosa sarà «sentita la base». Ed ecco che c’è chi sta appeso ai cinguettii stizzosi di Twitter, chi agli sfoghi su Facebook, chi agli umori di un blog o di un rilevamento d’opinione. Come se da lì potesse levarsi finalmente una stella polare che indichi il percorso ai viandanti incerti.

L’ultimo, con l’impegno a «sentire tutti gli iscritti» sulla legge elettorale, è stato Guglielmo Epifani. Ma prima di lui Giuseppe Fioroni aveva già chiesto «un referendum consultivo di tutti i circoli pd». E il ministro Gaetano Quagliariello aveva assicurato «entro l’estate l’avvio di una consultazione popolare per coinvolgere i cittadini nel processo costituente sulle riforme». E i capigruppo della maggioranza varato una mozione che plaude alla «volontà del governo d’estendere il dibattito sulle riforme alle diverse componenti della società civile, anche attraverso il ricorso a una procedura di consultazione pubblica». E il titolare della pubblica amministrazione D’Alia lanciato «la consultazione online per chiedere ai cittadini di fare le loro proposte su 100 procedure da semplificare».

Per non dire di Silvio Berlusconi, che come nessuno conosce la pancia della propria gente, e che ad esempio dopo aver annunciato la scelta di «andare in maniera decisa verso il nucleare» definito «indispensabile», bloccò tutto dopo Fukushima perché aveva «spaventato gli italiani, come dimostrano anche i nostri sondaggi». O di Beppe Grillo che invoca referendum a raffica perché convinto della funzione salvifica del voto del popolo buono e sapiente.

Sia chiaro: la voce dei cittadini va sentita sempre. Online, nelle piazze, nei caffè, nelle sezioni… E ripetiamo: se i partiti e i leader politici avessero voluto e saputo ascoltare in questi anni l’insofferenza che saliva dalla pubblica opinione oggi non sarebbero così trafelati nello sforzo spaventato di ricomporre la frattura. Ma una vera classe dirigente, come dice la parola stessa, deve sapersi assumere le proprie responsabilità e mettersi alla guida dei processi storici. Anche a costo, talvolta, di fare scelte al momento impopolari. Se pensa che siano giuste. Sennò, se si accoda via via agli umori (per di più dettati da passioni partigiane) è una classe «accodante». È il succo della democrazia: chi viene eletto è eletto per fare delle scelte. Spiegarle. Difenderle. Se sono buone, il tempo gli darà ragione. A seguire i venti si possono vincere le elezioni, ma non guidare un Paese. Men che meno sotto i nuvoloni neri. Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 6 giugno 2013

………………….Abbiamo sempre pensato che governare è decidere. Anche a costo di risultare impopolare e crearsi nemici e magari odi perenni. Ma è così. Nè portrebbe essere diversamente. Divero invece è lo stare all’opposizione. Chi si oppone non ha neppure bisogno di spiegare il perchè, si oppone e basta. E la differneza tra chi governa e chi siede all’opposizione è tutta lì: decidere. Ovviamente si presuppone che la decisione sia mirata al bene collettivo e alle ragioni del benessere comune, al perseguimento di validi obiettivi di natura collettiva. Ma ciò è naturale che sia quando si opera in regime di democrazia e di libertà, cioè dove il popolo ha diritto e dovere di controllo e attraverso il voto  scofessare e modificare  scelte sbagliate. Qundi coglie nel segno Stella, ingiustamente definito “tumore” della democrazia per aver svelato, insieme al suo collega Rizzo,  piccoli e grandi  abusi della classe politica- tutta!- e coglie nel segno anche quando sostiene che il popolo non può essere quello della rete o dei tanti e diversi blog che affollano la rete, così tanti che finisconmo ciascuno pe rappresentare talvolta solo chi vi scrive. Perciò nè i sondaggi, cui si affidano un pò tutti, ciascuno facendo proprio ciò che meglio corrisponde ai propri “desiderata”, nè le consultazioni online – come quella, sommamente ridicola, di Grillo in occasione della elezioni del presidente della Repubblica- possono dirsi o rivedicasrsi il ruolo di vioce del popolo che ne ha una sola: il voto. g.

FINANZIAMENTO PUBBLICO AI PARTITI: IL TAGLIO CON TRUFFA

Pubblicato il 1 giugno, 2013 in Politica | No Comments »

Il taglio dei finanziamenti ai partiti è una beffa che ci costa 300 milioni: ai  230 milioni di fondi in vigore fino al 2016 vanno aggiunti 3 milioni per gli spot. Più l’affitto che diventa gratuito!

Finanziamenti ai partiti, stop che ci costerà 300 milioni

La grande ipocrisia è divenuta disegno di legge. Il consiglio dei ministri guidato da Enrico Letta ieri ha approvato un testo che scrive al suo primo articolo «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Un’affermazione che già in sé è inutile, quando non falsa. Il finanziamento pubblico dei partiti è stato abolito da venti anni con un referendum, e in effetti non c’era più. Fino al 2012 era in vigore una legge per rimborsare a forfait le spese elettorali per le politiche, le europee e le regionali con un fisso che era arrivato a 182  milioni di euro l’anno. L’anno scorso, in mezzo a mille polemiche e con Beppe Grillo che stava già impazzando, i partiti hanno cambiato quella legge, dimezzandone la portata: 91 milioni di euro l’anno. Questa cifra era in gran parte (63,7 milioni di euro) il solito rimborso a forfait delle spese elettorali, e per 23,7 milioni una forma di “cofinanziamento” delle risorse private che i partiti sarebbero riusciti a racimolare: 0,50 euro pubblico ogni euro privato raccolto fino a quel tetto massimo. Una formula nuova, di cui sapremo poco o nulla perché di fatto non verrà applicata. Con la nuova legge voluta da Letta che pomposamente abolisce quello che formalmente non c’è, ai partiti andranno ora finanziamenti pubblici per la prima volta di  91 milioni nel 2013; 54,6 milioni  nel 2014; 45,5 milioni  nel 2015 e 36,4 milioni   nel 2016. Detto in poche parole: la legge che inizia con «è abolito il finanziamento pubblico» assicura per la prima volta dopo 20 anni un finanziamento pubblico e dichiarato ai partiti di 227,5 milioni di euro da oggi alla fine del 2016.

A quei 227,5 milioni di euro se ne aggiungeranno altri sempre a carico delle finanze pubbliche. Una piccola cifra inserita nel disegno di legge: 3 milioni di euro fra il 2014 e il 2016 per regalare ai partiti spot gratuiti da un minuto sulle reti Rai. E fanno già 230,5 milioni di finanziamento pubblico garantito. Poi sarà dato loro in ogni capoluogo di provincia ogni locale pubblico richiesto (prima era solo una facoltà) per «lo svolgimento delle attività politiche, nonché la tenuta di riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche» o gratuitamente o a «canoni di locazione tariffari agevolati».  Dunque, in ogni città ci sono italiani che perdono la casa e il lavoro e non sanno dove andare a dormire, spesso occupando le cantine delle case popolari. Prima che a loro ora si penserà ai partiti politici (a livello nazionale sono una decina almeno le sigle) che avranno diritto a locali assicurati in 118 città: quindi almeno 1.200 sedi trovate dallo Stato per loro. Un costo enorme, e non quantificato: ma sarà finanziamento pubblico pure questo, e a volere stare stretti vale almeno 6 milioni di euro l’anno (300 euro al mese per sede), 18 milioni da aggiungere, e fanno 248,5.

Terzo finanziamento pubblico: quello a carico della fiscalità generale. E qui raggiungiamo le vette dell’ipocrisia. Con il ddl ogni persona fisica potrà detrarre il 52% (quindi a costo dello stato) per ogni finanziamento fra 50 e 5 mila euro annui e il 26% fra 5.001 e 20 mila euro annui. Non solo: con un tetto di 500 euro si potrà detrarre anche il 52% della spesa “per l’iscrizione a scuole o corsi di formazione politica promossi e organizzati dai partiti”. Le persone giuridiche – le società che finanziano i partiti – possono detrarre il 26% per importi compresi fra 50 e 100 mila euro. Quale è l’ipocrisia? Solo un anno fa gli stessi sostenitori del governo Letta di oggi si erano scandalizzati in Parlamento per la disparità di condizioni sulle detrazioni fra partiti (i cui contributi oggi sono detraibili al 24%) e Onlus (i cui contributi sono detraibili al 19%). E avevano stabilito di parificarli tutti e due dal 2014 al 26%. Ora i partiti raddoppiano il vantaggio (52%) tanto per dimostrare che sono più eguali degli altri. E in effetti uguali non sono: i partiti politici occupano lo Stato, le Onlus invece sostituiscono lo Stato quando non riesce più a farcela. Quanto vale questa somma? Cifre non ce ne sono nel ddl, ma se consideriamo i 23,7 milioni di euro l’anno previsti dalla legge in vigore come metà dei contributi privati (soprattutto di eletti e iscritti) ricevuti dai partiti, il costo per le finanze pubbliche  sarebbe di 14 milioni di euro l’anno. In tre anni siamo già a 290,5 milioni di euro di finanziamento pubblico ai partiti garantito dalla legge che abolisce il finanziamento pubblico: quasi 100 milioni di euro l’anno, più di quelli di oggi.

Oltre a quei fondi a partire dal 2014 (e dal 2017 in via esclusiva) ci saranno anche i contributi volontari dei cittadini, che potranno destinare ai partiti il 2 per mille della propria dichiarazione dei redditi annuale. Qui le cifre sono impossibili da prevedere. Il governo ieri è sembrato essersi inventato questo nuovo sistema. Invece è preso pari pari dalla legge n.2 del 1997, firmata da Romano Prodi: quella sul 4 per mille ai partiti. Il meccanismo è identico a quello di allora, che fu il più clamoroso flop della storia dei partiti: scelse il 4 per mille solo lo 0,5% dei contribuenti, e l’incasso fu di 2 milioni di euro. I partiti si anticiparono 55 milioni, avrebbero dovuto restituirne 53, e naturalmente non lo fecero. Cambiarono la legge, e si inventarono quella sui rimborsi elettorali. Perché fece flop? Banale: sarebbe stato incostituzionale potere scrivere nel 740 il partito a cui devolvere i soldi, perché il voto è segreto. E non si può nemmeno oggi. Ma chiedere a un elettore di Fratelli di Italia di dare i suoi soldi a Sel, è obiettivamente difficile. Sarà un flop al 100% e dopo avere dato 100 milioni di finanziamento pubblico all’anno ai partiti, dal 2017 ci si inventerà un nuovo modo per continuare a darli.

Questa legge ipocrita e inutile per altro regala ai partiti locali e spot in Rai a patto che il governo (lo fa dettagliatamente nell’articolo 8) metta il naso in casa loro decidendo le regole della democrazia interna. Se non obbedisci, niente spot. Questo non solo è ingiusto, ma sicuramente anticostituzionale. E non vale la pena discuterne… Franco Bechis, Libero, 1° giugno 2013

……………..Lasciamo il commento, amaro!, a chi ci legge. g.

CHE MOSCERIA SENZA SILVIO (BERLUSCONI), di Marcello Veneziani

Pubblicato il 29 maggio, 2013 in Politica | No Comments »

Va bene, Cinque stelle si è ridotto a Due stelle e mezzo. Certo, è tornato a galla, benché malconcio, il bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, l’interregno tecnico-grillino è in ritirata, il governo se ne giova. D’accordo, a questa tornata amministrativa è cresciuta l’area del non voto, Toro Astenuto ha trionfato alla grande. Ma vogliamo dire una cosa? Da vent’anni o quasi, ogni volta che non è in gioco direttamente o simbolicamente Berlusconi, il centrodestra annaspa, s’ammoscia, perde colpi. Coi candidati il più delle volte insegue con affanno i rivali, con le liste arranca, con i programmi non ingrana. Se non è in gioco il Cavaliere, fa risultati deludenti. Eppure l’area moderata antisinistra, conservatrice, mezza cattolica, mezza liberale, mezza destrorsa, forse è maggioritaria nel Paese. Questo non è un elogio di Berlusconi, ma una preoccupata fotografia del suo regno. Senza Berlusconi il centrodestra è una mucillagine, poca roba, nessuna identità o progetto forte, non leader o sindaci svettanti né una classe dirigente affidabile e popolare. La soluzione non può essere Berlusconi forever, meno male che Silvio c’è, dopo di lui il diluvio o il pediluvio, comunque appiedati. Si deve puntare su uomini, proposte, idee e non confidare solo nell’immortalità di Berlusconi e nell’accanimento terapeutico di giudici e nemici che gli allunga la vita politica e gli allarga il consenso. Che dite di fare un pensierino adulto e non aspettare che poi arrivi Padre Silvio a salvare baracca e burattini? Marcello Veneziani, 29 maggio 2013.

……..Tutto vero, quando Berlusconi non c’è (in lista),  il centro destra, anzi, per dir meglio, il PDL annaspa e affoga, salvo che in qualche sporadico angolo del Paese. Ma la cosa, cioè la questione, pare non interessare nè preoccupare la classe dirigente pidiellina che poi è quella che si identifica con gli eletti,  perchè gli altri, i non eletti,  poco contano e  quindi, a parere dei primi, cioè degli eletti, non hanno nè il dovere, figuriamoci il diritto, di preocuparsi. Ci pare di poter dire, quindi, e  a ragion  veduta,  che quelli che dovrebbero preoccuparsi si limitano a tirar a campare (seguendo l’insegnamento andreottiano) e al più a intonare la canzone (di Iva Zanicchi, ci sembra di ricordare): finchè la barca va, lasciala andare…..con tutto quel che segue. g.

REQUIEM PER LA DESTRA?

Pubblicato il 25 maggio, 2013 in Politica | No Comments »

Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso. Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destra”, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012). La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra. All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena. I numeri fuoriusciti dall’ordalia delle urne – Fratelli d’Italia 1,95 per cento; la Destra 0,64 per cento; Futuro e libertà 0,46 per cento; Forza Nuova 0,26 per cento; CasaPound Italia 0,14 per cento; Fiamma tricolore 0,13 per cento – ci dicono al dunque che i vari affluenti della destra italiana sono oggi rappresentati da una decina di Parlamentari (nove FdI; due finiani uno dei quali, Benedetto Della Vedova, viene dal Partito radicale). E’ un dato di grande interesse politico, poiché segnala la quasi sopraggiunta estinzione di un equivoco storico nato nel 1995 a Fiuggi, quando l’Msi si è suicidato nel letto di Procuste di An senza neppure la forza di elaborare il proprio lutto. Molte delle prefiche di allora versarono lacrime d’occasione senza aver ancora compreso di candidarsi, in quel preciso momento, al ruolo di esecutrici testamentarie del mondo che veniva da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi. Ma questa è una tragicommedia già ampiamente vivisezionata (ce ne siamo occupati nel 2007 con “Il passo delle oche”, Einaudi).

La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo. Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni” (noreporter.org). Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male.

La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigente”: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra” hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce. A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile. Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica. Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica. Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune. Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra. Che fai, mi cacci? C’è stato un momento nel quale la così detta destra finiana, già contrafforte malgré soi del neonato Popolo della libertà, ha dato l’impressione di volersi sottrarre a una subalternità non più tollerabile nei confronti di Silvio Berlusconi. Nel 2010, sorretto dalle speranze variopinte dei mezzi d’informazione persuasi dell’imminente trapasso del berlusconismo, Gianfranco Fini si è intestato la battaglia del patricida. Accusato d’infedeltà e ingratitudine dai pretoriani del Cavaliere (molti dei quali provenienti dalle file di Alleanza nazionale), Fini ha dato l’impressione di voler costruire una destra di stampo europeo, un po’ neogollista (tendenza Chirac), un po’ troppo giovanilistica, con punte di radicalismo sociale (la battaglia per il riconoscimento dello ius soli agli extracomunitari, una certa improntitudine sulle questioni di natura bioetica) e non senza occhieggiamenti verso il così detto establishment editorial-finanziario dichiaratamente ostile a Berlusconi. Malgrado i notevoli chiaroscuri biografici dell’allora presidente della Camera, compresa la brutta storia della casa di Montecarlo appartenente alla Fondazione di An e assegnata per vie tortuose al cognato di Fini, la sola volontà di rompere con il patriarca di Arcore sembrava trovare un promettente riscontro nei sondaggi. Uno psichismo diffusamente compiacente verso l’impresa finiana ha insinuato nei protagonisti della rottura la certezza di poter vincere per vie parlamentari, infliggendo una sfiducia brutale al governo Berlusconi. All’immediato fallimento dell’espediente tattico, non è seguita una fase di riorganizzazione politica e di ridefinizione culturale autentica. Semplicemente, Fini e i suoi hanno immaginato di dover soltanto rinviare il tempo della vendemmia. Negli interstizi dell’attesa è emerso il vuoto della proposta di Futuro e libertà: tagliati i ponti con il passato prossimo (del passato remoto è inutile qui parlare ancora), a Fini è riuscita più congeniale l’eliminazione diretta della parola “destra” dal proprio arsenale retorico. La sua offerta si è richiamata anzi all’esigenza di rompere del tutto con categorie che a suo dire erano ormai deprivate di senso: la dialettica destra/sinistra è così uscita dal cono di luce del delfino almirantiano, ma senza che a questa eliminazione sommaria corrispondessero un disegno dai contorni precisi, una base identitaria, una prospettiva intorno alla quale conservare, rendere coeso e incrementare l’insieme dei consensi e delle aspettative ingenerate. Il risultato di questa meccanica è stato l’avvicinamento “destinale” a Pier Ferdinando Casini e della sua Unione di centro, cui è seguita l’accettazione acritica del tecno-governo di Mario Monti con l’intermittente consiglio/sostegno di Luca Cordero di Montezemolo. L’entente, come noto, è sbocciata nella formazione di liste sorelle (unitaria per il Senato) che sono apparse come la sommatoria di calcoli, debolezze e vanità comuni. Gli elettori ne hanno fatto giustizia, consegnando Fini e i suoi consiglieri al limbo degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta. A distanza di tre anni dalla nascita dei primi focolai di dissenso nel Popolo della libertà, è difficile che l’azzardo di Fini possa essere rubricato sotto la categoria della destra in rivolta contro l’assimilazione violenta alla compagine berlusconiana. Se innegabile era la tendenza livellatrice e monocratica esibita dall’allora premier, altrettanto manifesta è stata poi la natura personalistica, politicistica e velleitaria di Futuro e libertà. Di là dalla rimasticazione episodica degli slogan futuristi primonovecento, di là dalla improvvisata modernolatria dei pochi (e presto abbandonati) intellettuali alla corte di Fini, non è stato possibile individuare alcun nucleo politico o ideale degno di sopravvivere alla fragorosa condanna elettorale. Ma il danno d’immagine, per un mondo che almeno nei presupposti e nelle provenienze individuali non è possibile disgiungere dall’archetipo post fascista, quello è chiaro e distinto. E sarà durevole. Che fai, mi riprendi? Gli altri gruppi della così detta destra italiana, accomunati senz’altro da un livore furibondo nei confronti del loro ex sovrano Gianfranco Fini, sono nati o sono cresciuti ora in conflitto ora in rapporto di vassallaggio con Berlusconi. La Destra di Storace è stata allestita come controparte identitaria anti finiana, ma al tempo stesso si è più volte proposta come un cuneo di ribellione conficcato ai fianchi del Cavaliere. Salvo poi ripiegare appena possibile, calendario elettorale alla mano, nella più confortevole ombra di Arcore. Le immagini di Daniela Santanchè nella sua versione paleo berlusconiana, poi storaciana (la “destra con la bava alla bocca” che non accetta di stare sdraiata) e infine nuovamente, appassionatamente accanto al capo del Pdl, ci danno la misura delle oscillazioni mostrate dalla classe dirigente post fascista. In questo quadro, Storace si è impegnato a impersonare un ruolo di vaga ed equivoca testimonianza identitaria non poi così dissimile rispetto a quello svolto dall’estrema sinistra post bertinottiana (con conseguenze simmetricamente funeste).

Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre. In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi. Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane. Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, né per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio.

Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia. Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa. Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunché da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl. Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia? E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri. Che fai, mi ignori? Se la caduta delle destre istituzionali dipende in larga parte dal fatto che, sequestrate dai loro piccoli cacicchi vanitosi e imbelli, non erano più “di destra” in senso tradizionale da circa vent’anni, il “sonno” delle destre radicali extraparlamentari trova una sua ragione nella quasi totale assenza di leadership carismatiche e messaggi auscultabili all’esterno della claustrofobica catacomba neofascista. In questa congiuntura il brodo di coltura antisistemico italiano è stato fecondato dalla proposta millenaristico-settaria che il comico Beppe Grillo ha condiviso con il guru dell’e-commerce Gianroberto Casaleggio. Un lavoro scientifico, il loro, che per la verità è cominciato da diversi anni e che si è talmente rafforzato da attirare come un magnete perfino le limature di ferro dello scontento estremista, sia di destra sia di sinistra. Nel frattempo i cuori neri si baloccavano con le loro solite, logore liturgie intonate al culto della sconfitta neofascista e con l’immancabile rivalità fra consanguinei. Fatta eccezione per il movimentismo di CasaPound, reso popolare dal recupero del migliore dannunzianesimo ma viziato spesso da pulsioni avanguardistiche inconcludenti, non c’era una sola buona ragione per la quale le destre anti sistemiche dovessero presentarsi alle elezioni immaginando di non venirne malamente sbertucciate. Requiem o palingenesi? In natura nulla va perduto, è così perfino nell’Italia a sovranità limitata, assoggettata alla germanizzazione del suo sistema economico-finanziario e appetita dal capitalismo apolide responsabile della crisi internazionale. Dunque anche per la destra c’è speranza. Non è possibile qui aggettivare oltremisura la destra di riferimento, ma certo è che per rinascere bisogna essere stati qualcosa nel passato. E’ a una destra tradizionale che si può o si deve guardare, nel senso più alto, nobile e purtroppo negletto dalla maggior parte delle formazioni esistenti: ogni altro tentativo e ogni altra variante essendo falliti alla prova dei fatti recenti. Il grillismo è un fenomeno di falsa rottura transeunte ed è destinato prima o poi a liberare energie insospettabili, dopo aver caoticamente rilegittimato alcune idee e istanze di sovranità politica e culturale tipicamente di destra. Chi un domani sappia saldare questo accumulatore di energia con un circuito elitario, nel quale le nuove personalità di riferimento siano realmente formate lungo linee di vetta metapolitiche (frutto di una disciplina perfino interiore, siamo portati a dire), potrà modellare un corpo adatto al manifestarsi di una “destra eterna” che attende la sua prossima incarnazione. Quando il sole avrà estinto l’ultima pozzanghera. Alessandro Giuli, Foglio, 25 maggio 2013

…………….Terribile quanto assolutamente esatto ritratto dello “stato” oggi della Destra italiana. Giuli, autore di altre inchieste sulla Destra, non dà scampo ai rappresentanti  della Destra post missina, tutti, nessuno escluso, da Fini a Gasparri, passando per i  tanti altri che nel ventennio berlusconiano hanno occupato posti di rilievo nelle struttre di partito e in quelle di governo,  hanno da di sè cattiva, anzi orrenda prova. Sinchè si era all’opposizione, magari agitando nelle aule parlamentari il cappio per gli avversari, erano in grado di apparire (non di essere!) “protagonIsti”, ma quando si è passati dall’altra parte, tutti,  nessuno escluso,  hanno mostrato i loro limiti, non solo politici, ma spesso etici e morali. Sino alla dissoluzione di un patrominio umano che aveva attraversato, quasi indenne, l’oceano delle difficoltà e dei pericoli e delle persecuzioni degli anni 70 e 80 del secolo scorso. Fini è stato di certo il maggior responsabile, quello che si è mostrato e dimostrato di gran lunga il meno capace di interpretare i sogni e le speranze della Destra,  solo innamorato di se stesso e solo preoccupato del suo personale interesse,  dello sfacelo della Destra, ma gli altri non lo sono stati di meno. Risultato è quello che Giuli definisce “requiem per la destra” punto e basta e al quale abbiamo aggiunto di nostro il punto interrogativo. Perchè osiamo sperare che la storia della Destra italiana, inopportunamente legata al postfascismo e che invece affonda le sue radici nella fase postunitaria del nostro Paese, non si sia conclusa e che possa avere e vivere una nuova età. Ciò che scrive Giuli, il quadro che delinea della Destra oggi,  non lascia ben sperare, anche  perchè il Paese affonda nelle vischiosità di proposte politiche legate esclusivamente all’immediato, cioè, per dirla fuor dai denti, agli obiettivi provvisori e perciò stesso assai limitati dei gestori attuali dei partiti. E anche perchè gli appelli, come quello da poco lanciato da Marcello Veneziani, qualificato intellettuale d’aria, di un “ritorno ad Itaca”,  sembrano cadere nell’indifferenza  più impenetrabile  delle varie frange, del tutto inconsistenti e quindi marginali, in cui è ora diviso ciò che resta della Destra, sopratutto o forse solo quella  elettorale.   Ma non si può e non si deve disperare che in Italia possa ritornare ad  avere cittadinanza e rappresentaza la Destra,  quella vera e anticas, con i suoi Valori e i suoi programmi. g.

DESTRA CERCASI…DISPERATAMENTE

Pubblicato il 23 maggio, 2013 in Politica | No Comments »

Ma insomma la destra, che fine ha fatto? Inutile cercarla dalle parti del governo: nè, un ministro, né un vice, e nemmeno un sottosegretario appartengono a quel mondo che solo nella passata legislatura aveva un centinaio di parlamentari nelle coorti dei berluscones. Altrettanto inutile inseguirla nei meandri dei moderato-conservatori.

Ci sono, è vero, tracce sparse in Parlamento o in qualche Consiglio regionale sotto questa o quella sigla: ma in generale quella costituency che fino a ieri compulsava fiera le tabelle elettorali ora le guarda con il crescente terrore di finire ammucchiata nella mesta e indistinta categoria “altri”. E allora? Beh, diciamo che, non potendo più contare su una rappresentanza politica propria e riconoscibile, ci sono alcuni milioni di elettori che si sono intruppati sotto le insegne del Cavaliere.

Al momento sembrano destinate a restarci. Perché ci si trovano bene. Praticamente tutti i report, infatti, e ultimo quello stilato dall’istituto di ricerche sociopolitiche di Arnaldo Ferrari Nasi, dicono due cose. Primo, gli elettori di destra non vedono un leader con le stimmate del loro mondo nel quale riconoscersi.

Cancellato Gianfranco Fini – che invece per anni li aveva fatti sognare portando fin nella stanza dei bottoni governativa una classe dirigente nata e cresciuta nel mito dell’Msi, di Almirante e dell’opposizione perpetua intesa come orgogliosa non commistione – adesso sugli epigoni di quella stagione: da La Russa a Storace, da Gasparri a Matteoli, si è posata la polvere del deja vu: la più ostica da mandare via. Secondo, gli elettori di destra stanno con Berlusconi perché lo considerano l’unico in grado di battere l’avversario di sempre, l’odiata sinistra. Tutti gli altri sono cloni per di più sono in odore di centrismo. Una specie di marchio d’infamia.

Messa così, sembra che per chi votava An (il simbolo della Destra di Storace sulla scheda elettorale c’è; quello di Fratelli d’Italia pure), si spalanchi la voragine del destino che ha contraddistinto nella prima Repubblica il Psi: diaspora o annientamento. Al tempo stesso, però, è difficile credere che milioni di elettori con un fortissimo tratto identitario si rassegnino ad ammainare ogni loro bandiera.

Anche perché sono tanti i pezzi di ex apparato che non si rassegnano alla pensione. E infatti le iniziative si moltiplicano. Fli ha chiuso i battenti ma Roberto Menia si è accollato il compito di cucire i pezzettini sparsi per l’Italia: è andato in Sicilia per una iniziativa con Domenico Nania, ex vicepresidente del Senato. A Roma, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli hanno riunito i loro aficionados di Azione popolare: c’erano anche Gennaro Malgieri e Landolfi. A metà giugno, a riunirsi saranno i Fratelli d’Italia di La Russa. A luglio è prevista la convention di Storace.

Nel frattempo, l’europarlamentare ex finiano Potito Salatto ha creato, con Salvatore Tatarella, l’associazione “Popolari italiani per l’Europa”. Dietro parecchie di queste sortite, seguendo lo spartito di una regia felpata e accorta, c’è l’ex ministro Andrea Ronchi, uno dei pochi (meglio: l’unico) che parla con tutti e con il quale tutti parlano. E poi c’è la partita romana: la più importante di tutte.


Già, perché per il Campidoglio è in pista Gianni Alemanno, l’unico esponente di destra che guida una amministrazione di grande prestigio e visibilità. Se dovesse essere rieletto, diventerebbe inevitabilmente lui il riferimento della destra sparsa e smarrita. Si vedrà.

L’impresa di riunire ciò che la vicenda politica ha sparpagliato è difficilissima, forse impossibile. Bisogna individuare una piattaforma di valori e di credibili parole d’ordine. Serve tenacia e lungimiranza. Serve pragmatismo. «Se a un uomo di destra glielo togli, non gli resta niente» amava dire Pinuccio Tatarella, la mente più lucida di quel mondo, la cui prematura scomparsa ha reso orfani tanti.

……………E’ vero, Destra cercasi disperatamente. Dopo l’appello di Marcello Veneziani di un “ritorno ad Itaca” per ripartire,  si avverte sempre di più voglia di Destra. Quella vera, quella delle battaglie e delle passioni di un tempo che fu, quella dei Valori e della fede. Sembra scomparsa, o al massimo mimetizzata altrove. Invece occorre che riaffiori da dov’è e ritorni alla battaglia a viso aperto. Che siano 5,cinquecento, o cinque milioni, ci sono tanti italiani che ne sono rimasti orfani e che non si rassegano ad essere rappresentati da partiti, formazioni, associazioni che in luogo dei suoi Valori innalzano vessili che contraffaggono i suoi per ineseguire altro. Torniano ad Itaca purchè si riprenda il cammino. g.


UN’AMBIZIONE TROPPO TIMIDA

Pubblicato il 23 maggio, 2013 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

Serve ancora a qualcosa l’Italia? E a che cosa? Può ancora immaginare in quanto Nazione di avere una vocazione, un destino, suoi propri? E qual è il suo ruolo, se ce n’è uno, in relazione agli altri Paesi del mondo?

Tra i molti nodi che oggi stanno venendo al pettine c’è anche questo. Un nodo creatosi, a ben vedere, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sul cui significato di cesura non metabolizzata si apre, non a caso, con alcune acute osservazioni, il bel libro di Giuliano Amato e di Andrea Graziosi Grandi illusioni (Il Mulino) appena andato in libreria. Fino a quella data le classi dirigenti della Penisola – di estrazione invariabilmente borghese, con qualche rarissima eccezione sia pure assai significativa come nel caso del fascismo con Mussolini e pochi altri – furono tutte convinte che lo Stato nazionale fosse sorto con una «missione». Quella di riportare l’Italia al centro dello sviluppo storico, di farne in vario modo una «potenza» in grado di rivaleggiare con le altre del continente, di restaurarne l’antico prestigio civile e culturale, di elevare le sue plebi alla dignità di «popolo». Declinata in senso nazional-liberale prima, e nazional-fascista poi, questa convinzione fece naufragio nella catastrofe del 1943-45. All’indomani, la Repubblica dei partiti si trovò più o meno d’accordo nel fondare la civitas democratica, ma – animata com’era da visioni storiche tra loro diversissime, e sotto il peso del disastro appena passato – non poté porsi la questione della nazione. (Anche se questa, in modo perlopiù tacito, era ancora ben presente e talora visibile negli uomini e nelle idee dei partiti di quella stessa Repubblica).

Ingabbiati nel doppio bipolarismo Est-Ovest e comunisti-democristiani, decidemmo quindi – prima a maggioranza, ma in seguito alla caduta del muro di Berlino praticamente all’unanimità – che il nostro solo destino erano l’Occidente e l’Europa. Che il nostro orizzonte era assorbito per intero da quelle due dimensioni. Che la nostra storia finiva lì. Oggi ci accorgiamo che siamo stati un po’ troppo sbrigativi. Che in un’Europa che è ancora (e chissà ancora per quanto) un’Europa degli Stati, cioè delle sovranità, la nostra sovranità non è meno importante delle altre. Ma che se essa vuole contare qualcosa, se vuole essere forza e sostanza di un vero soggetto politico, deve fondarsi necessariamente su un’idea d’Italia. Cioè sul presupposto che questo Paese abbia un insieme di retaggi, di qualità, di vocazioni e di aspirazioni peculiarmente suoi, e che precisamente queste peculiarità esso sia chiamato in qualche modo a riunire e a esprimere entro la moderna forma dello Stato nazionale.

Immaginare ed elaborare un’idea d’Italia corrispondente ai bisogni dell’ora è oggi il compito storicamente più urgente della politica italiana. Essa deve mostrarsi capace di additare un senso e un cammino complessivi alla nostra presenza sulla scena storica. Solo in tal modo la politica stessa sarà in grado di riscoprire e rinvigorire la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità, sperando così di ritrovare un rapporto con il Paese capace di animarlo e motivarlo di nuovo.
Solo così riusciremo a riprenderci, a ricominciare. Sono ormai anni che le energie della società italiana appaiono paralizzate, i suoi animal spirits bloccati. Che il Paese è immerso in una crisi di sfiducia nelle proprie forze, in una sorta di apatia, di sfibramento psicologico, che minacciano di divenire una cupa rassegnazione. L’economia con ciò ha molto a che fare. È difficile infatti che a qualcuno venga in mente d’investire in un Paese che non sa quello che è, né ciò che vuol essere. È difficile che qualcuno avvii qualcosa d’importante e a lungo termine in un Paese che non ha idea di che cosa esiste a fare, che non guarda al proprio passato come al trampolino per un avvenire. Nella dimensione esclusiva dell’oggi, infatti, al massimo si sopravvive: per esistere con pienezza di vita bisogna, invece, sapere da dove si viene e dove si va. Ma la politica solamente può e deve dirlo. Come essa ha fatto altre volte nel nostro passato, quando si è dimostrata capace di mobilitare risorse, di sollecitare energie, di concepire vasti disegni. E ogni volta, non a caso, ritornando a quel nesso profondo, all’origine della nostra storia unitaria, che lega indissolubilmente lo Stato nazionale italiano a un’idea d’Italia. Senza la quale neppure il primo, alla lunga, riesce ad esistere. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 23 maggio 2013

BASSO MERITO, ZERO AMBIZIONI

Pubblicato il 21 maggio, 2013 in Costume, Cultura, Economia, Politica | No Comments »

C’è stato un tempo felice in cui tutto il corpo sociale viveva di impulsi politici. Dalla fine della guerra fino al crollo della Prima Repubblica la vita di tutti era segnata dal primato della politica: dal primato delle grandi ideologie dell’epoca (comunismo, liberismo, corporativismo, dottrina cattolica); dal primato della dialettica fra i sistemi geopolitici (mondo occidentale, mondo arretrato, Paesi cosiddetti non allineati); dal primato anche quotidiano di scontri sociali e mobilitazioni di classe. Tutto era politica.
Ma, al di là della forte ruvidezza conflittuale di quegli anni, la politica non ci dispiaceva, perché ci trasmetteva un messaggio comune: crescete, andate avanti, salite la scala sociale, diventate altro da quello che siete. Ci spingevano a tale dinamica coloro che esaltavano le lotte operaie come coloro che coltivavano l’ampliamento del ceto medio; coloro che speravano nella potenza politica dei braccianti come coloro che trasformavano i braccianti in coltivatori diretti, cioè in piccoli imprenditori; coloro che spingevano per dare spazio a più ampie generazioni studentesche come coloro che coltivavano le alte professionalità industriali; coloro che predicavano il politeismo dei consumi come coloro che richiamavano alla sobrietà dei comportamenti. Gli obiettivi e i conflitti della politica erano tanti, ma l’anima era unica: «Crescete e salite i gradini della scala sociale». Ed era verosimilmente per questo incitamento alla mobilità che la politica piaceva.
Oggi è quasi disprezzata. I giornali sono pieni di possibili spiegazioni: la politica è estranea ai bisogni della gente; i politici fanno casta e se ne approfittano; sotto i partiti ci sono interessi inconfessabili; non c’è più una dinamica di rappresentanza democratica. Spiegazioni plausibili, ma è possibile che la cattiva fama della politica derivi dal fatto che essa non spinge più a crescere e salire, ma a far restare tutti ai gradini bassi in una filosofia di eguaglianza che si collega all’idea di una comune cittadinanza che rischia di diventare populismo, obbedendo alla logica di «invidia e livellamento» di cui lo stesso Marx aveva timore.
Guai a diventare «qualcuno», per la politica attuale. Dobbiamo restare cittadini a pari e basso merito, collocazione corroborata da giudizi morali tanto gridati quanto semplicistici. Non sorprende che i due terzi dei nostri giovani parlamentari siano «programmaticamente» cittadini a basso merito che si proclamano eticamente superiori. E se c’è «qualcuno» che vuole o tenta di essere protagonista, è rapidamente cecchinato. Il messaggio profondo della politica oggi sta proprio nel diffondere, anzi imporre, l’appiattimento al basso della cultura collettiva, della dinamica sociale. Ed è colpa ben più grave dei vizi di casta, perché inquina la chimica intima della società, ne riduce le dinamiche in avanti e le speranze.
Per questo bisognerà cominciare a difendersi dalla politica; diffidando di come oggi il suo primato sia diventato regressivo e non propulsivo. Forse il meglio è altrove, nella dinamica sociale, dove ancora vive un po’ della voglia di crescere e salire che ci avevano dato i politici di prima, che tutto erano meno che dei semplici cittadini a basso merito.
Giuseppe De Rita, Il Corriere della Sera, 21 maggio 2013

UN ARMISTIZIO INDISPENSABILE

Pubblicato il 19 maggio, 2013 in Politica | No Comments »

Può essere il governo Letta lo strumento per chiudere venti anni di una «guerra civile» come ha auspicato due giorni fa Berlusconi? Ci sono ostacoli pesanti. Ma anche qualche motivo di speranza. Gli ostacoli sono di due tipi. Alcuni hanno a che fare con la congiuntura politica, altri con certe caratteristiche del Paese.

La coincidenza fra la nascita del governo e l’arrivo a sentenza dei processi a Berlusconi ha subito colpito l’esecutivo accrescendo le fibrillazioni all’interno dei due alleati/nemici che lo sostengono, Pdl e Pd. C’è poi, anche a prescindere dai processi, la crisi del Pd: le sue convulsioni si scaricano (dichiarazione del Pd Zanda sulla ineleggibilità di Berlusconi) e continueranno ogni giorno a scaricarsi sul governo. Né si sa ancora se il traghettatore Epifani potrà scongiurare il rischio scissione. Poiché è evidente che una parte di quel partito anela solo a cambiare cavallo e ad abbracciare i 5 Stelle. Se la crisi del Pd si aggravasse ulteriormente, il governo Letta finirebbe in malo modo e la previsione di Beppe Grillo avrebbe qualche chance di diventare realtà: il futuro bipolarismo potrebbe vedere da una parte il centrodestra e dall’altra i 5 Stelle. Tutto meno che uno scenario di pacificazione.

Oltre a ragioni contingenti ci sono anche ragioni più profonde che hanno fin qui reso la lotta politica in Italia (rovesciando la formula di Clausewitz) «la continuazione della guerra con altri mezzi», una guerra civile fredda. Non è detto che quando Berlusconi lascerà il campo, il conflitto fra destra e sinistra in Italia potrà assumere toni e modi meno esasperati, propri della normale dialettica democratica. Può essere che berlusconismo e antiberlusconismo siano stati fin qui, almeno in parte, uno schermo che ci ha nascosto una faccia del problema. Grattando la superficie, dietro il «Berlusconi sì/Berlusconi no» su cui siamo inchiodati da venti anni, possiamo scoprire i solchi che dividono alcune «tribù sociali» italiane. Si considerino i due grandi blocchi del lavoro dipendente (soprattutto pubblico) e del lavoro autonomo. Prima dell’ingresso in scena di Grillo, questi due blocchi sono stati soprattutto serbatoi di voti, rispettivamente, della sinistra e della destra. L’ostilità che li divide è antica. Per tanti lavoratori dipendenti il lavoro autonomo è sinonimo di evasione fiscale e i lavoratori autonomi sono, in gran parte, «ladri». Sono tanti quelli che descrivono gli autonomi (per lo più elettori di destra) come un branco di approfittatori e disonesti. I lavoratori autonomi, a loro volta, pensano ogni male di tanti impiegati pubblici (per lo più, elettori di sinistra): parassiti e mangiatori a ufo.

Sono stereotipi antichi. Ma il bipolarismo li ha esasperati collegando più strettamente di quanto non avvenisse nella Prima Repubblica – dove la divisione era attutita grazie all’interclassismo democristiano – le due opposte tribù (dipendenti pubblici/autonomi) ai due opposti schieramenti politici.

Se poi a questa contrapposizione, di interessi e ideologica, fra gruppi occupazionali, sommiamo le divisioni regionali (Nord/Sud) ecco comporsi un quadro di ostilità incrociate, radicate e, a tratti, anche feroci. Queste divisioni, se la politica non riuscirà a rimuovere certi fattori che alimentano le tensioni, continueranno a esasperare la lotta politica in Italia. Con o senza Berlusconi.

C’è però anche qualche elemento di speranza. Dipende, paradossalmente, proprio dalla gravità della crisi, dal fatto che siamo in presenza di una emergenza economica e politica molto grave. Sono le situazioni di emergenza quelle che a volte suscitano energie inaspettate. Soprattutto, sono quelle situazioni che spingono talvolta gli uomini di governo a rischiare, a impegnarsi in azioni innovative, azioni che non intraprenderebbero in tempi normali. Essi potrebbero fare leva su alcuni punti di forza del Paese. Il quadro non è solo a tinte scure. C’è, per cominciare, il tessuto della provincia italiana, soprattutto in certe zone. Molto meno disgregato di ciò che appare se si osserva solo la vita pubblica delle grandi città. Ci sono risorse, anche di coesione sociale, che la crisi non è ancora riuscita a intaccare e che una politica saggia può valorizzare e utilizzare.

Ma si pensi anche alla divisione, sopra richiamata, fra lavoro dipendente pubblico e lavoro autonomo. La politica, con le mosse giuste, può renderla meno esasperata. Occorre una fiscalità meno vessatoria e una riduzione del carico burocratico per venire incontro alle esigenze del lavoro autonomo. E occorre intervenire sulla macchina dello Stato anche per consentire alla parte di dipendenti pubblici che aspira a lavorare in modo decoroso la possibilità di farlo. È difficile ma non impossibile. Per riuscirci bisogna mettere alla frusta quell’alta dirigenza che è stata corresponsabile, insieme alla politica, dei malanni che affliggono l’amministrazione. Se non lo si fa in una situazione di emergenza quando sarà mai possibile? E occorre infine che la politica trovi il coraggio per fare le necessarie innovazioni istituzionali e mettere così in sicurezza la democrazia. Le forze che vi si oppongono sono potenti.

C’è in questo Paese una radicata e diffusa cultura politica per la quale cambiare la Costituzione è sinonimo di «golpe», di svolta autoritaria e reazionaria. Quel fine giurista che è Gustavo Zagrebelsky (vedi la sua intervista di ieri a la Repubblica ) è forse il più autorevole portavoce di quella tendenza. Pensare, come egli pensa, che riformare seriamente la Costituzione (per esempio, in senso presidenziale) significhi «normalizzare» l’Italia al servizio di non meglio specificate oligarchie, comporta la richiesta che nulla di serio si faccia per salvare la democrazia italiana. Significa, se quella tendenza conservatrice prevalesse, condannare il Paese alla paralisi e a un declino politico garantito. Pochi, nel mondo, scommetterebbero sull’Italia. Siamo tenuti a farlo noi. Angelo Panebianco, 19 maggio 2013, Il Corriere della Sera

LETTERA APERTA DI MARCELLO VENEZIANI AI PM DI MILANO

Pubblicato il 15 maggio, 2013 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Egregi magistrati di Milano, posso dirvi la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, senza che mi picchiate con le vostre armi legali? Dirò semplicemente quel che vedo con i miei occhi. Ho provato vergogna per il processo Ruby. Vergogna per la Giustizia, per la Magistratura, per l’Italia.


Premetto. Sono nato e cresciuto in una cultura col forte senso dello Stato e della dignità delle istituzioni, il culto della Magistratura e il rispetto della legge. Ho tifato a suo tempo per Mani Pulite. E dall’altra parte sono stufo di vedere la politica dividersi sulle vicende private di Berlusconi, vorrei occuparmi d’altro e difatti non mi occupo quasi mai di giustizia e processi al Cavaliere.

Vorrei che tornassimo a occuparci di politica e di italiani, spero che si chiuda al più presto questa stagione balorda con i suoi protagonisti. Sulla vicenda Ruby mi sono fatto un’idea sgradevole della comitiva di cui si è circondato Berlusconi, non mi piaceva la mescolanza di luoghi e persone tra ruoli pubblici e feste private, statisti e papponi. Reputo deprimente quel gineceo sultanesco di sgallettate, arrampicatrici da spettacolo, mezze troiette, che ruotava intorno ad Arcore. Di tutto quel capitolo la cosa che reputo politicamente rilevante ed eticamente condannabile è l’elezione di Nicole Minetti a un incarico pubblico. Se serviva a ristorare la vita privata di Berlusconi sarebbe stato giusto che se ne fosse accollato lui, come per le olgettine, l’onere di stipendiarla. Noi che c’entriamo, le istituzioni che c’entrano, la politica che c’entra.
Da tutte queste premesse si capisce che non ho nessuna simpatia per quel mondo e i suoi protagonisti. Ma trovo sconcertante che fior di magistrati antimafia debbano spendere il loro tempo, i nostri soldi, la giustizia, per accertare se durante le cene ci siano stati toccamenti o meno delle suddette sgallettate; se ci sia stato puttanesimo dilettantistico o professionale nelle sullodate squinzie. Tutto per misurare il grado di coinvolgimento personale, erotico, economico dell’ex premier nella vicenda. Potrei cavarmela dicendo che c’è sempre stato il lato B del potere, in politica e non solo, se penso pure a certi nostri regnanti della grande industria che navigavano tra coca e prostituzione. In passato citai testimonianze assolutamente attendibili sulla vita privata del primo re d’Italia, del tutto analoga anzi peggiore rispetto a quella di B. Si potrebbe dire la stessa cosa del più amato presidente degli Stati Uniti, e di fior di premier, leader e sovrani di mezza Europa. La magistratura non si è mai occupata di queste puttanate. De minimis non curat praetor, dicevano i romani: e se non se ne cura la pretura, figuriamoci un tribunale. E la politica è troppo importante per interdirla nel nome delle suddette puttanate o di fatti che potremmo definire bordel-line.
Potrei aggiungere la classica argomentazione che, come è risaputo, in questo processo non c’è una parte lesa, anzi tutte le parti, eccetto l’utilizzatore finale, ci hanno guadagnato e hanno agito in piena libertà e consapevolezza. Non c’è stata costrizione né raggiro né violenza, né può esserci la prova di qualunque atto sessuale compiuto con minori. Se non ci sono testimoni e i due presunti attori negano che vi sia stato qualunque atto sessuale, a cosa vi attaccate, chi è la vittima, di che cosa stiamo parlando? In realtà stiamo parlando di un clima godereccio, di corpi procaci e anziani arrapati, di canti, cene, forse qualche palpatina, con animazione nelle braghe di qualcuno. Sociologia del malcostume, non criminalità organizzata.
Ma si può, in un Paese devastato dalla criminalità e dall’illegalità, dove i reati restano quasi tutti impuniti e i detenuti restano in attesa di giudizio svariati anni; in un Paese piegato sulla sua crisi, che patisce il crollo delle sue imprese e la disoccupazione, che sta male mentre la politica sta avvitata su se stessa in fragilissimo equilibrio; si può – dicevo – perdere giorni, mesi, anni e mettere a repentaglio il precario assetto presente per questi stupidi festini e questi più stupidi, ipotetici toccamenti; dividere un paese, mortificare una classe dirigente, spaccare la politica, rischiare di far collassare definitivamente il paese, solo per «fargliela pagare» a quello lì che odiate; che – da voi massacrato – vi attacca da mattina a sera e per difendersi mobilita un partito con milioni di votanti, a scendere in piazza in suo sostegno? Ma vi rendete conto del danno incalcolabile che state facendo all’immagine, al corpo, alla salute e all’anima di questo Paese? Avete amplificato un risvolto privato che per carità di patria e pubblica decenza avremmo dovuto abbandonare alle piccole debolezze del genere umano. È stato invece un danno prolungato nel tempo: quanto è costato a noi italiani quel braccio di ferro su queste vicende quando B. era alla guida del governo? Quante energie sono state distratte e sottratte al governo del Paese, quante risorse si sono sprecate, quanti atti sono stati compiuti per difendersi da questo castello di accuse? Avete alimentato il conflitto a fuoco tra la magistratura e la politica e siete corresponsabili, con i promotori, delle marce parlamentari davanti ai tribunali; e messo in mezzo, tra i due poteri in lotta, l’esecutivo è finito in croce. Se fossi un vostro collega magistrato mi sentirei discreditato e offeso da questi processi. Ora mi auguro che qualcuno dal vostro organo di autogoverno, dalle istituzioni, perfino da sinistra, vi dica che così si uccide la Magistratura, la Democrazia e l’Italia. Naturalmente non solo ad opera dei tribunali, diciamo nel vostro gergo: concorso in strage. Quelle arringhe e quelle perizie surreali sui toccamenti hanno fatto toccare il fondo alla Giustizia italiana.
Come vedete, non ho tirato in ballo le favole di Ruby e su Ruby a cui non do credito, non ho tirato in ballo nemmeno la magistratura politicizzata e non ho sfoderato tutte le incongruenze, i misteri, le fughe di notizie o le notizie fuggite, che ci sono state. E non ho fatto nemmeno ironia su alcune gaffe (mi limito solo a ricordare che il Marocco è più a occidente dell’Italia; la furbizia di Ruby sarebbe orientale se lei fosse davvero egiziana come Mubarak).

Mi auguro che rispondiate come vi ho scritto io, a viso aperto, esprimendo una libera e argomentata opinione con le parole e non con le pistole giudiziarie. Io ho provato a dirlo con tutta la franchezza possibile, nel rispetto delle istituzioni, per amor patrio, deprecando gli errori, rispettando gli erranti. Chiedo solo il senso della realtà, l’umile senso della realtà. La verità, vi prego, solo la verità.  Marcello Veneziani, Il Giornale, 15 maggio 2013

.……………..Concordiamo pienamente con quanto scrive Veneziani. Ma ci sarà qualcuno che gli risponderà?Se ce ne fosse uno oggi, ce ne sarebbe stato uno, almeno uno, ieri,  che si sarebbe preoccupato che vizi privati – che tutti abbiamo -  fossero confusi con pubbliche virtù – che non tutti possediamo- a danno della immagine, pubblica e di certo più importante dei vizi privati, del nostro Paese. Come dar torto, quindi,  a Berlusconi quando chiosa: povera Italia? g.

BERLUSCONI CONDANNATO A MORTE, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 14 maggio, 2013 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Ergastolo. Non potendo chiedere quello fisico, la Boccassini ci prova con quello politico: interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre alla condanna a sei anni, è infatti la richiesta fatta dalla pm milanese nei confronti di Silvio Berlusconi. C’è del marcio in tutto questo, tanta è la sproporzione tra la debolezza degli indizi raccolti a sostegno del teorema accusatorio e la pena richiesta.

Ergastolo politico per due reati (concussione e sfruttamento della prostituzione) che ancora oggi restano senza vittime. Nega di esserlo Ruby («non ho mai avuto rapporti sessuali con Berlusconi»), negano i funzionari della Questura di Milano («non siamo stati condizionati o intimiditi dalla telefonata di Berlusconi la sera dell’arresto di Ruby»).

La Boccassini ieri ha definito Ruby esempio di «furbizia orientale», concentrando in questa frase l’essenza del processo: un pregiudizio geopolitico e un falso, essendo il Marocco, Paese d’origine della ragazza, a Occidente. Pregiudizi e falsi, conditi con intrusioni nelle vite degli altri da fare invidia alle peggiori dittature. Spiare, intercettare non per cercare la prova schiacciante di un reato ma per costruire il reato. Senza approdare a nulla, perché un rapporto sessuale negato dalle parti interessate non potrà mai essere dimostrato anche se avvenuto. Sulle dicerie, sulle vanterie telefoniche o sulle invidie delle amiche si possono scrivere pagine di gossip, non sentenze giudiziarie. Altrimenti mezzo Paese dovrebbe finire al gabbio.

La Boccassini è convinta, direi ossessionata, che ad Arcore si sia fatto del sesso. Non ci sono prove, semmai è stato dimostrato il contrario, ma vado oltre. Credo che anche la signora Ilda abbia fatto e magari faccia tutt’ora sesso a casa sua. Non ci interessa con chi, come e quanto. Non ci interessa se lei o i suoi partner nell’accoppiamento siano sinceri o interessati, quali siano i loro giochini erotici, se al risveglio la signora trovi o no un regalino inaspettato sul comodino, se il suo partner abbia o no commentato le sue performances con amici e colleghi, magari aggiungendo un tocco di fantasia. Ci interessa che se nessuno dei due lamenta abusi o forzature, le loro prodezze erotiche non entrino mai in un’aula di tribunale. A tutela della loro dignità e del nostro buongusto. Dalla guerra alla mafia alla caccia, senza esito, degli spermatozoi di Berlusconi: quella che si vanta di essere allieva di Falcone e Borsellino ha trascinato la giustizia al suo punto più basso e umiliante per tutti. Perché processare uno stile di vita non è l’anticamera del regime. È regime. Alessandro Sallusti, 14 maggio 2013