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Pochi istanti fa il presidente del Consiglio Letta, dopo aver sciolto la riserva nelle mani del Presidente della Repubblica, ha dato lettura della lista dei ministri del nuovo governo che vweda la luce dopo ben due mesi dalle elezioni e dopo le traversie che hanno caratterrizato l’inmsediamento delle Camere e la (ri)elezione del Presidente della Repubblica. Il governo avrà un solo vice presidente, l’on. Alfano, segretario del PDL che sarà anche ministro dell’interno. Nel governo ci sono esponenti del PD, del PDL, di Scelta Civica, dell’UDC che sono le forze politiche che sosterranno il governo e alcuni indipendenti, tra cui il Prefetto Cancellieri ministro della Giustizia e il direttore di Bankitalia, Saccomanni ministro dell’Economia. Diventa ministro l’on. De Girolamo, del PDL, che forse consola il mancato inserimento nel govenro del marito, l’on. Boccia, che però è del PD. La speranza di tutti è che il governo si avvi subito inmare aperto e da subito assuma le iniziative a sostegno dell’economia e per la riforma delle istituzioni.
Il voto del 24 febbraio è ormai un ricordo lontano. Due mesi sono passati e le stanze di Palazzo Chigi non sono ancora occupate da un nuovo premier. È stato necessario chiedere al presidente Napolitano di restare al suo posto per arginare una crisi distruttiva che stava travolgendo l’istituzione più importante della Repubblica. È partito così il tentativo di dare al Paese un esecutivo di unità tra le diverse forze politiche. Solo un carico di risentimenti, faziosità e ostinazione ideologica aveva impedito di metterlo in campo subito dopo un risultato elettorale senza vincitori.
La sferzata del presidente della Repubblica, con il suo atto d’accusa in Parlamento, ha fatto superare il primo scoglio: il vicesegretario del Pd Enrico Letta è a un passo dal varo di un governo di coalizione sostenuto da Pd, Pdl e Scelta civica. I dirigenti del Partito democratico, impegnati in una guerra fratricida che ha avuto vittime illustri come Romano Prodi e Franco Marini, hanno messo la sordina ai veti e all’ostilità radicata a collaborare con il partito di Berlusconi. C’è un via libera sofferto e svogliato, pieno di timori per la reazione della mitica base e del popolo della Rete. Tanti retropensieri che proiettano ombre sulla durata del governo.
Sull’altro fronte il Pdl ha posto condizioni, sul programma economico e sulla partecipazione di ministri osteggiati dal mondo del Pd, che stanno complicando la chiusura della trattativa, fino al rischio di fallimento.
È come se i partiti non capissero che c’è un punto decisivo che, prima di ogni altra cosa, devono sciogliere: chiarire a se stessi e al Paese che il governo che sta nascendo non è un’alleanza con la pistola alla tempia, a cui partecipano solo per l’ultimatum del Quirinale. Se non hanno fiducia loro in quello che stanno facendo come potranno sostenere la prova nel Parlamento delle mille opposizioni? E soprattutto: se non credono alla possibilità di poter fare insieme qualcosa di utile come possono pensare che il Paese e i cittadini li sosterranno? Hanno il dovere di essere ambiziosi, di dimostrare che il governo che sta per nascere non è senza padri e, dunque, esposto alla tempesta di voti parlamentari che lo butterebbero giù in poco tempo.
Il compito principale è nelle mani del presidente del Consiglio incaricato. Molto dipende dalla sua capacità di fare le scelte giuste sul programma e sulla qualità dei ministri. Enrico Letta ha riconosciuto onestamente in passato un suo difetto: cercare di mediare sempre, anche troppo. Dialogare è giusto, soprattutto in una situazione difficile, ma troppe mediazioni possono portare a risultati deludenti.
Non ci si può accontentare di un governo di serie B. Letta presenti, come è nelle sue prerogative, una compagine ministeriale di alto profilo, senza cedere alla tentazione delle seconde file per evitare tensioni. E metta sul tavolo un pacchetto di misure immediate che diano il senso della svolta: provvedimenti fiscali anti recessione, azzeramento del finanziamento ai partiti, dimezzamento dei parlamentari, nuova legge elettorale. Perché un governo che nasca già debole, che così venga vissuto dai cittadini e dai mercati, è il contrario di quello che serve.Luciano Fontana, Il Corriere della Sera, 27 aprile 2013
L’indicazione di Enrico Letta come possibile nuovo presidente del Consiglio sancisce il carattere politico, non «tecnico» o minimalista del governo che si sta formando per impulso del Quirinale. L’interminabile vacanza di una campagna elettorale rissosa, inconcludente, vuota, incapace di scegliere, potrebbe finalmente concludersi. Abbiamo trascorso mesi da incubo: mentre la politica era prigioniera della sua immobilità, immersa nei suoi temporeggiamenti puerili, la società italiana retrocedeva ogni giorno. La crisi non ha perso tempo, i partiti ne hanno perso sin troppo. Chi nel Pd voleva nascondersi dietro l’indistinto di un governo «tecnico» solo per fingere di aver imparato la brusca lezione impartita da Giorgio Napolitano davanti alle Camere, sarà costretto a ricredersi perché un governo affidato al suo vicesegretario non è un esecutivo incolore cui concedere un credito «obtorto collo». E nel Pdl dovranno dimostrare che la disponibilità a un governo di larghe intese non era solo una trovata propagandistica per mettere in difficoltà un avversario frastornato e drammaticamente diviso al proprio interno, ma un impegno vero, costante nel tempo e non vulnerabile alle incostanze degli umori e dei malumori.
I due partiti maggiori che si accingono a formare un governo presieduto da Letta stanno compiendo un atto coraggioso. Sanno di avere a che fare con l’ansia dei rispettivi elettorati, che vivono talvolta con comprensibile dolore la coabitazione governativa con avversari lontani e ostili. Sanno che per loro questa è l’ultima chiamata. Sanno che non possono fallire. Sanno che dovranno pagare un conto salatissimo, se in tempi brevissimi non sapranno fronteggiare gli effetti di una crisi economica devastante, liberare l’economia italiana dalla morsa di un Fisco insopportabilmente esoso, tutelare con maggior vigore le fasce più deboli della società. Sanno che stavolta nessuno li perdonerà o avrà per loro indulgenza se il Parlamento non avvierà sul serio e nei tempi costituzionalmente più brevi la riforma delle istituzioni, e non solo la legge elettorale da tutti vilipesa ma che nessuno è stato in grado di modificare in un anno e passa di sconcertante paralisi. Sanno che si giocheranno ogni residuo credito se non abbatteranno i costi della politica, dall’abolizione non più rimandabile delle Province fino al drastico ridimensionamento del finanziamento ai partiti. Sanno che non ci saranno tempi supplementari: o si dimostreranno seri, oppure il verdetto dell’opinione pubblica sarà stavolta implacabile.
Per questo il coinvolgimento non svogliato dei partiti, a cominciare da quello del premier Letta, figura interamente politica, può essere un vantaggio e non una pillola amara da ingoiare recalcitranti e malmostosi. Può offrire una motivazione in più a fare le cose urgenti e indispensabili, con convinzione e senza paralizzanti riserve mentali. Un governo vero, dove si vince o si perde. Tutti, senza distinzioni.Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 25 aprile 2013
……Ieri sera da Bruno Vespa, Giuliano Ferrara l’ha detto chiaro e tondo: ora non sono più tollerabili giochi o giochini, da parte di tutti, senza eccezioni. Se il governo del Presidente non nasce, l’alternativa sono le urne. Con tutto ciò che questo comporta e le conseguenze che ne possono derivare. In Friuli l’altro ieri il 50% degli elettori ha disertato le urne, l’altra metà si è divisa tra centrosinistra e centrodestra, con un arretramento sostanziale dei grillini. Risultati che riflettono una volta di più il marasma e l’incertezza. C’è ancora qualcuno che a dispetto delle necessità del Paese vuole aumentare il marasma e incentivare l’incertezza? Si accomodi, ma si assume gravi e forse irreparabili responsabilità. E’ il momento di passare dalle parole ai fatti: non si può predicare di giorno il bene comune e di notte disfare la tela che Napolitano, inneggiato da tutti, ha tessuto sotto gli occhi e con il consenso di tutti. Per una volta tutti, ma proprio tutti, mettano da parte la fazioni e facciano davvero l’interesse di 60 milioni di italiani. E se è possibile, tutti, ma proprio tutti, cessino di rubare……. anche le uova di cioccolato. g.
Oggi che l’espressione «uomo del secolo scorso» suona quasi come un insulto, bisogna onorarla in Giorgio Napolitano, nato nel 1925, appena sette anni dopo la fine della Grande Guerra, e appena chiamato ad altri sette anni di servizio alla Repubblica, che gli auguriamo duri fino al 2020. Perché è vero che i giovani sono il nerbo di una nazione, ma ci sono momenti in cui anche loro hanno bisogno della lezione dei padri della patria.
Questo è stato, una lezione di virtù repubblicana, il discorso breve, severo, ma intriso di commozione personale, con cui Napolitano non ha parlato al Paese, ma in nome del Paese. Ai parlamentari ha detto: la politica non è uno stato di guerra di tutti contro tutti, è un modo di governare la cosa pubblica; come tutti gli italiani, sono stanco di ricordarvelo; voi non rappresentate qui le vostre fazioni, e nemmeno i vostri elettorati, ma la nazione intera.
Il presidente, pur sempre esplicito, non aveva mai parlato così fuori dai denti. Ha indicato le cause del misero stato attuale nella «lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità» dei partiti. Ha indicato nella «imperdonabile» mancata riforma del Porcellum la causa dell’ingovernabilità, e nella gara per la conquista del suo «abnorme premio» il miraggio che ha incantato il Pd di Bersani, «vincitore che ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza» (del resto anche il vincitore precedente, che nel 2008 aveva ottenuto una ben più solida maggioranza, se l’era vista evaporare nel giro di due anni). Ha poi ricordato al Movimento 5 Stelle che la via del cambiamento non è nella contrapposizione tra Parlamento e Paese, e che tutti i partiti e i movimenti politici sono comunque vincolati «all’imperativo costituzionale del metodo democratico» (frase, almeno quella, che i parlamentari grillini avrebbero fatto bene ad applaudire).
Soprattutto Napolitano ha spiegato a tutti, specialmente ai tanti nuovi deputati che in queste settimane hanno più volte dimostrato di non saperlo e a chi li aizza dall’esterno, che la politica democratica consiste nel fare i conti con la realtà del risultato elettorale, e che non se ne può più di questa «sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze»; perché nessun partito ha vinto le elezioni, e d’altra parte in tutti i Paesi d’Europa governano delle coalizioni, talvolta anche tra forze in competizione, o perfino avverse tra di loro. A meno di non voler «prendere atto della ingovernabilità». Ma, alzando la voce, a questo punto Giorgio Napolitano ha aggiunto la frase chiave del discorso: «Non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come presidente della Repubblica».
Napolitano formerà dunque un governo. Spetterà alle Camere dargli la fiducia. «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato – ha concluso – non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese». Stavolta dispone di un’arma più forte della moral suasion , e la userà. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 23 aprile 2013
…….Ieri il Presidente Napolitano, nel suo discorso alle Camere ma sopratutto al Paese, ha duramenbte sferzato la classe politica, tutta, senza esclusioni, che lo ha appaludito, ricevendone da Napolitano una dura rampogna: non pensiate che l’applauso alle mie parole, ha sottolineato il Presidente, cosituisca una ammenda per voi. Anzi… Anzi se non opererete, da ora in poi, nel solco degli interessi nazionali ne trarrò le conseguenze dinanzi al Paese. La casta avrà capito il monito di Nappolitano? Ci basteranno poche ore per accertarlo. Nel frattempo Napolitano si guadagna, egli solo, la medaglia di patriota. g.
Nell’arco di due mesi due eventi di portata storica mai accaduti prima: a febbraio un Papa dimissionario e ora un Presidente che succede a se stesso. Ci sarebbe anche il terzo evento: la protesta rabbiosa e antidemocratica dei grillini, in piazza Montecitorio, alla proclamazione, scatenata dal commento «Questo è un golpe», lanciato da Grillo in marcia su Roma.
Napolitano, già il primo ex comunista a salire al Colle, da ieri detiene un altro primato: un Presidente della Repubblica bis. Aveva detto che sarebbe stata una «soluzione pasticciata» la sua permanenza al Quirinale ma alle richieste di Bersani, Berlusconi e Monti non ha potuto dire no. Una soluzione che, già un anno fa, dalle colonne di questo giornale, consideravamo come l’unica possibile perché Re Giorgio oltre che una figura istituzionale di alto profilo, dentro e fuori l’Italia, è un politico capace di tenere insieme il sistema partitico italiano, passato dal bipolarismo al tripolarismo con l’ingresso in campo dei pentastelluti che stentano a trasformarsi da movimento di lotta a movimento di governo. Un mandato che non rientrava nei progetti ma che il «migliorista» ha accettato con generosità, senso di responsabilità, spirito di sacrificio, attaccamento alla cultura democratica per salvare il Paese, per far uscire dal terribile stallo la sua Italia in piena crisi istituzionale ed economica. Napolitano, punto di equilibrio per tutti, salva così anche il Pd, «un» partito che non c’è più e che in tre giorni di elezioni del Presidente ha sacrificato due vittime, Marini e Prodi, e perso il segretario Bersani. Un partito in frantumi che si avvia al congresso e su cui Grillo, candidando Rodotà (preferito anche dal futuro leader della sinistra, ma non grande elettore, Fabrizio Barca) ha lanciato un’opa.
Grande sconfitta è donna Clio. La nostra first lady è sempre stata la più contraria al prolungamento della missione al Colle di Re Giorgio. Dopo sette anni vissuti al massimo voleva «godersi» il marito ed evitargli altre preoccupazioni… Non è mancanza d’amore, gentile donna Clio, ma più di lei è l’Italia ad aver bisogno di suo marito, il Presidente della Repubblica bis Giorgio Napolitano. Sarina Biraghi, 21 aprile 2013, Il tempo.
….. …..Per Giorgio Napolitano non abbiamo mai provato grande simpatia. Per via del suo passato di comunista ortodosso, sin nel midollo, tanto da aver giustificato tra l’altro la invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e anche quella di Praga del 1968. Però non abbiamo mai dubitato delle sue capacità politiche e del suo sapersi muovere all’interno delle Istituzioni repubblicane, tutte, sino alla più alta, scalate non sempre per via delle sue capacità, talvolta per via del suo sapersi immergere all’occorrenza. Così avvenne nel 2006, all’indomani della vittoria elettorale di Prodi. Non era Napolitano il candidato della allora maggioranza alla Presidenza della Repubblica ma lo era Massimo D’Alema. Vinse Napolitano, eletto dalla sinistra con il voto bianco del centrodestra. Nei sette anni da allora trascorsi non si può negare che Napolitano, a capovolgere i dubbi per via del suo passato, ha dimostrato di essere, pur non rinnegando la sua cultura, un Uomo di Stato, capace di superare le fazioni per essere uomo di unità. Nel corso di questi sette anni non sono mancate ragioni di critiche al suo operato ma mai nessuno ha potuto mettere in dubbio la lealtà dei suoi comportamenti, anche quando ha prodotto scelte non sempre condivise o condivisibili, come nel caso del governo Monti. Ieri però Napolitano si è guadagnato la medaglia di patriota. Ha accettato di essere rieletto alla Presidenza della Repubblica benché la sua età lo avesse indotto a rifiutare con forza tale evenienza quando gli era stata prospettata. Ma dinanzi alla clamorosa sconfitta della politica dei partiti, che annaspava tra squallide faide interne e pur legittime voglie di rivincita, Napolitano ha fatto violenza a se stesso ed ha accettato di essere rieletto, sia per superare lo stallo determinato dalla totale inconsistenza dei partiti, sia per offrire ai partiti una seconda chance per trovare e varare provvedimenti, economici e istituzionali, per tirare fuori l’Italia dalle secche in cui si è impantanata. Se e quanto i partiti sapranno cogliere questa opportunità lo vedremo nei prossimi giorni. Ma oggi non possiamo non dare atto a Napolitano di aver compiuto un vero, grande, straordinario atto d’amore per l’Italia. Grazie, Presidente. g.
I parlamentari che fra meno di due settimane dovranno scegliere il prossimo presidente della Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano esserlo altrettanto di quella principale. La posta in gioco principale non è, detto con tutto il rispetto, il destino personale di Bersani o di Berlusconi. E nemmeno la scelta fra un governo di tregua e le elezioni. La posta in gioco principale è il destino della Repubblica. Parole grosse, certamente, che richiedono una spiegazione. Che sia in gioco il destino della Repubblica dipende dal fatto che la concomitanza di tre crisi (economica, politica, istituzionale) fa della Presidenza l’unico possibile «luogo» di difesa e di (parziale) stabilizzazione della democrazia rappresentativa. Un ruolo altamente politico, politicissimo, che va molto al di là della pura funzione di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non dalla volontà di chicchessia. Un ruolo non previsto in questi termini dalla Carta del 1948, checché ne dicano certi costituzionalisti esperti nel gioco delle tre carte, che inventano sempre nuovi argomenti ad hoc per dimostrare che nulla è mai cambiato.
Tutti oggi si concentrano, comprensibilmente, sullo stallo politico prodotto dalla mancanza di una maggioranza parlamentare. Ma questo è forse il minore dei nostri guai. Chi pensa che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire tante pseudo-certezze. Non si tiene conto di quanto sia ormai profonda la crisi dello Stato: come testimonia la condizione in cui versa l’amministrazione pubblica (che dello Stato, qui come altrove, è il cuore). Né si tiene conto del fatto che la fragilità della classe politica parlamentare non ha facili soluzioni. Se anche dalle prossime elezioni dovesse uscire una maggioranza di governo, quella fragilità non verrebbe meno. Perché ha a che fare con la debolezza e la precarietà dei rapporti fra i partiti e gli elettori. Voto di protesta, frammentazione politica e etero-direzione (gruppi extrapolitici di varia natura che impongono le proprie scelte a una classe partitica priva di forza e di autorevolezza proprie) ne sono la conseguenza.
In queste condizioni, sulle spalle del presidente della Repubblica, grazie alla durata del suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al carisma che circonda l’istituzione della Presidenza (un carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano decisive.
Non si tratta, moralisticamente, di deprecare il fatto che i politici badano, anche nella scelta di un Presidente, ai propri interessi di breve termine. È così, è un fatto. Deprecarlo è come prendersela con la legge di gravità perché ci impedisce di librarci nell’aria. Si tratta però di pretendere la consapevolezza che l’inevitabile perseguimento degli interessi di breve termine, partigiani, delle varie forze politiche, debba conciliarsi con il carattere strategico (per la sorte della Repubblica) della elezione del nuovo Presidente.
Nelle circostanze presenti, significa evitare che si realizzi l’uno o l’altro di due scenari, entrambi potenzialmente esiziali. Lo scenario A (da evitare) è quello di un accordo al ribasso: si sceglie una figura di scarsa rilevanza, in grado di svolgere solo un ruolo notarile, una figura che non riuscirebbe a entrare in sintonia con l’opinione pubblica, ad acquistare quella popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone.
Lo scenario B (anch’esso da evitare) è quello della scelta di una persona, magari anche dotata di un certo prestigio personale di partenza ma che, per le modalità della sua elezione, appaia all’opinione pubblica, come il Presidente di una sola parte. Il che accadrebbe oggi (il pericolo non è ancora del tutto rientrato) se un partito come il Pd, reduce da una non-vittoria elettorale, si eleggesse qualcuno di sua scelta acchiappando voti grillini in libera uscita. Quel Presidente sarebbe, fin dall’inizio del suo mandato, un’anatra zoppa. Ogni sua mossa verrebbe interpretata alla luce di quel vizio d’origine, sarebbe accompagnata da cori (applausi e fischi) da stadio. Le tante decisioni difficili e sofferte che dovrebbe prendere, nel corso del suo settennato, stante la persistente fragilità della classe politica parlamentare, avrebbero sempre l’effetto di dividere e mai di unire il Paese. Aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica.
Uomo o donna che sia, il prossimo Presidente non potrà essere né una mezza figura né un’anatra zoppa. Perché dovrà unire (come è riuscito a Giorgio Napolitano), in tempi cupissimi per la nostra democrazia, la funzione del garante di tutti e le qualità politiche ormai richieste a un Presidente. Per questo è così strategica la sua scelta.
Naturalmente, sarebbe anche tempo di capire che, se si vorrà mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e responsabilità mediante la sua elezione diretta. Ma questo passo, così logico e così necessario, richiederà alle classi dirigenti del Paese molta più energia morale e intellettuale, e molta più forza, di quelle oggi disponibili. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 10 aprile 2013
………………….Ci sembra che la conclusione del “ragionamento” di Panebianco, oltre che la necessità di evitare nella elezione del nuovo Capo dello Stato i due scenari delineati dallo stesso Panebianco, sia, in prospettiva, la parte più importante: bisogna che ad eleggere il Capo dello Stato siano gli elettori, cosicchè da sottrarlo alle alchinie di partito e dal rischio che ogni volta si paventino i due scenari- A e B - prospettati da Panebianco. E’ ciò che sostiene il centrodestra, almeno a parole: il fatto che ora se ne faccia portavoce un politologo non certo di destra come Panebianco è un fatto da evidenziare. Ciò significa che la elezione diretta del Capo dello Stato, come avviene in tante democrazie occidentali, dagli USA alla Francia, non è più un tabù e non è solo un obiettivo del centro destra. Di oggi e di ieri. Negli anni ‘70 del secolo scorso a farsi portavoce di questa richiesta era il MSI e tanto bastava per rendere la proposta non accettabile dall’allora arco costituzionale che la considerava eversiva. Ma anche allora, in quegli anni turbolenti, ci fu anche chi da “sinistra” sostenne la stessa cosa. Chi ricorda Randolfo Pacciardi, uomo delle Istituzioni, ministro, ex partigiano, ex azionista, poi repubblicano, espulso dal PRI di Ugo La Malfa e quindi fondatore del Movimento “Nuova Repubblica”? Pochi lo ricordano anche perchè nella parte finale della sua vita politica le sue scelte furono oggetto di furibonde polemiche e di accuse al limite del ridicolo e del grottesco: fascista! E ciò solo perchè Pacciardi, sulla cui etica democratica non potevano esserci dubbi, con il suo Movimento si schierò apertamente a favore della trasformazione della nostra Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale. Sono passati da allora quattro decenni, un tempo enorme per la politica e per la vita del Paese, sono morte la prima e la seconda repubblica e alll’alba della nascita, forse, della terza, si ripropone il dilemma di un quarantennio fa: può restare in piedi l’impalcatura istituzionale nata dalla guerra e ormai sporofondata nella più totale incapacità di rispondere alle esigenze del mondo moderno, o non è giunto il momento di cambiare e di cambiare innazitutto il modello di Repubblica? Noi la pensavamo così ieri, la pensiamo ancor di più così oggi. Che sia la volta buona? Dipenderà solo dai partiti e dai loro personali egoismi se anche questa volta non si vorrà prendere il treno della storia e della modernità. g.
Immaginiamo per un momento di vivere in un Paese con una classe politica seria, preoccupata delle difficoltà che ci tormentano da un tempo ormai lunghissimo. Questa classe politica avrebbe preso atto immediatamente che dalle urne del 24 febbraio non era uscito un vincitore capace di formare subito un governo e che il vero trionfatore (il movimento di Grillo) non aveva alcuna intenzione di fare accordi con gli altri partiti. Avrebbe imboccato la strada faticosa del dialogo tra le altre forze politiche (sinistra, centrodestra e montiani) per un’intesa che mettesse da parte le ostilità e la propaganda. Un accordo con pochi punti di programma per tirare fuori l’Italia dalla crisi. Non è impossibile, è successo in Paesi come la Germania e l’Olanda che hanno avuto leader politici consapevoli del proprio ruolo. Un mese e mezzo è invece passato da quel voto e nulla è accaduto. Siamo nel pieno di una commedia all’italiana che una volta divertiva e ora solo preoccupa l’opinione pubblica.
Un numero incredibile di giorni è stato perso da Pier Luigi Bersani nell’ostinato tentativo di convincere qualche parlamentare grillino a dargli il via libera in Parlamento. Tra le pagine più umilianti della sinistra italiana resterà certamente l’incontro con i due capigruppo del Movimento 5 Stelle, con la supplica a trovare un accordo respinta con supponenza. Bersani è tornato a mani vuote dal capo dello Stato, il suo preincarico è svanito. Si è ritirato in un silenzio misterioso ma il suo circolo magico non trova di meglio da fare che alimentare una guerra fratricida con Matteo Renzi, l’unico leader in cui gli elettori della sinistra sembrano conservare ancora fiducia.
Lo spettacolo offerto dal movimento grillino e dal suo leader è per alcuni aspetti ancora più preoccupante. Dalla messa in scena dell’«uomo mascherato» (l’ex comico che si traveste per sfuggire ai giornalisti) alle continue minacce di espulsione per chi ha un’opinione diversa da Grillo e Casaleggio. Dalle prestazioni parlamentari in stile «dilettanti allo sbaraglio» alle scampagnate con il trolley per destinazioni sconosciute dove ricevere il verbo del capo. Il voto di protesta degli italiani che hanno scelto M5S meritava tutto questo?
Di quello che resta dell’alleanza centrista c’è poco da dire: tanta litigiosità interna e scarsa rilevanza. Il Pdl infine, anzi Silvio Berlusconi, perché del partito si sono perse le tracce. Dal suo ritiro di Arcore arrivano segnali contraddittori: un giorno si suona la carica del ritorno al voto, un altro si chiede a un Pd riluttante di garantire l’elezione di un presidente della Repubblica espressione dei moderati e la formazione di un governo di larga coalizione.
Per non farci mancare nulla abbiamo anche avuto saggi che non dimostrano un briciolo di saggezza, parlando a ruota libera. La scena politica è sempre più dominata dai blitz telefonici della dissacrante trasmissione radiofonica La Zanzara e dalle imitazioni di Crozza.
Restano poco più di dieci giorni per mettere fine al più incredibile dopo voto della storia repubblicana. I partiti e i loro leader possono ancora dimostrare che sono in grado di trovare un’intesa sul nome del nuovo capo dello Stato, che sarà eletto dal 18 aprile. Una personalità che rappresenti l’unità nazionale e sia dotata di forza politica e credibilità internazionale. Una scelta unitaria che può aprire la strada a un governo che si concentri sull’emergenza economica e sociale, realizzi finalmente le riforme per la moralizzazione della politica e dei suoi costi, vari una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere i parlamentari e l’esecutivo.
Lo chiamino come vogliono: governo di larghe intese, di scopo, istituzionale, di tregua. La cosa importante è che definisca un programma limitato ma incisivo e che abbia la durata sufficiente per realizzarlo. Alle domande contenute nel voto di protesta non si risponde scimmiottando o inseguendo gli umori alterni dei nuovi eletti a Cinque Stelle ma mettendo in campo misure efficaci per aiutare le imprese che chiudono e gli italiani che perdono il posto di lavoro. Senza ostilità preconcette e complessi di superiorità di cui non si sente davvero il bisogno. da Il Corriere della Sera, 7 aprile 2013
Cari Amici,
come ho annunciato in Piazza del Popolo, la nostra mobilitazione nelle piazze, nelle istituzioni e nei media continua.
Sabato 13 aprile ci ritroveremo a Bari, alle 16, in Piazza della Libertà. Sarà una nuova occasione di incontro tra noi che ci darà la possibilità di far sentire la nostra voce a ridosso dell’inizio delle votazioni parlamentari per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
La nostra posizione è chiara e nota a tutti. La prima preoccupazione è per lo stato dell’economia, per le imprese, per i lavoratori in difficoltà e per le famiglie. Per prendere le misure necessarie e urgenti per uscire da una austerità rovinosa e per far capire in Europa e ai mercati che l’Italia c’è, abbiamo dichiarato di essere disponibili a far nascere un governo di coalizione guidato da un rappresentante del Partito Democratico.
Abbiamo anche sostenuto con forza che, di fronte alla tripartizione paritaria dei voti uscita dalle elezioni, è impensabile che la sinistra si appropri di tutte le cariche istituzionali. Anche in questo caso ci siamo resi disponibili ad una scelta comune, perché il Presidente della Repubblica deve rappresentare un fattore di unità e di garanzia per tutti e non un ulteriore elemento di divisione.
Gli elettori mostrano di apprezzare la nostra proposta, al punto tale che se si rivotasse saremmo in grado, secondo gli ultimi sondaggi, di prevalere sia alla Camera che al Senato. Ciononostante il ricorso alle urne entro giugno non rappresenta la nostra prima scelta perché noi sappiamo bene che la cosa più urgente è far uscire il Paese dalla crisi nel tempo più breve possibile. Noi riteniamo quindi prioritario ed anzi, indispensabile, dare vita subito a un governo stabile e forte. Soltanto se il Partito Democratico dirà “no” a questa soluzione, si dovrà ricorrere alle elezioni anticipate.
Insisterò su questo e su molto altro sabato 13 aprile a Bari, in quella piazza dove siamo già stati e che mi è cara anche per il suo nome: Piazza della Libertà!
Non chiedo nulla per me, nè ruoli istituzionali nè ruoli di governo. Chiedo solo di poter continuare a svolgere il compito che mi è stato affidato ancora una volta dai nostri elettori e cioè quello di tenere unito il centro-destra e di contribuire a far uscire il nostro Paese da questa crisi che è la più grave dal dopoguerra ad oggi.
L’altra sera ad Arcore, circondato dai suoi uomini, il Cavaliere ha invertito l’ordine dei fattori e ha reimpostato, ancora una volta, la tattica dei timidi negoziati con il Pd e con Pier Luigi Bersani. “E’ dal governo che si deve partire”, ha detto Berlusconi preoccupato, “il presidente della Repubblica viene dopo”. E dietro questa novità improvvisa, che ribalta la pur debole strategia adottata fino a ieri, s’indovina un sentimento di inquietudine o forse un’epifania, una rivelazione, la terribile certezza di avere sbagliato a insistere perché prima di tutto si discutesse di chi debba andare a fare il capo dello stato. Insomma il Cavaliere e la sua corte ora hanno l’impressione fondata di essere intrappolati in una meccanica perversa che comunque vada esclude Berlusconi dalla scelta del prossimo presidente della Repubblica per consegnarlo inerme a quella tenaglia politico-giudiziaria che secondo l’avvocato Niccolò Ghedini si stringe “nel giro di qualche mese”. Tra il 20 e il 21 aprile si conclude il processo Ruby con la possibile condanna per prostituzione minorile, poi arriva il turno del processo d’Appello per frode fiscale a Milano e infine, tra settembre e dicembre, la sentenza di Cassazione a Roma sul caso Mediaset.
“Vogliono stapparlo come una bottiglia di champagne”, dice Fabrizio Cicchitto, che da vecchio socialista craxiano ha una certa esperienza in tema di martirio politico e giudiziario. “Tuttavia – dice l’ex capogruppo del Pdl alla Camera – perché lo schema sanguinolento si chiuda, perché sia conclamato il caso psichiatrico di questa sinistra fuori controllo, ci vuole prima un nuovo presidente della Repubblica incline alla pulizia etnica, alla rimozione fisica del puzzone di Arcore”. Così Antonio Polito, l’editorialista del Corriere della Sera, vede una specie di “progetto di ingegneria istituzionale” per la decapitazione del centrodestra “che, eliminato Berlusconi, potrà anche sopravvivere, avere una sua dignità, essere riconosciuto e accettato. Ma prima bisogna fare fuori Berlusconi”. E il Pd – spiega Polito – “è come se si fosse messo in trappola, perché le sue azioni, anche involontarie, portano a questo esito cruento. Bersani ha interpretato le ultime elezioni come un enorme spostamento a sinistra del suo elettorato, per lui è stato come se il Pd fosse stato punito nelle urne per essersi mostrato tiepido con Berlusconi, per aver governato nella strana maggioranza che sosteneva Monti. Nel Pd adesso pensano che il loro elettorato voglia soprattutto chiudere i conti per sempre con Berlusconi, che Beppe Grillo sia un fenomeno di sinistra, una roba loro, ma non è così, gli italiani vogliono soprattutto stabilità al governo e riforme”. Martedì sera, a “Porta a Porta”, l’ex capogruppo del Pd Dario Franceschini lo ha praticamente ammesso, lui che al Quirinale vorrebbe un democristiano selvatico e morbido come Franco Marini: “Abbiamo sbagliato, abbiamo coltivato la presunzione di poterci scegliere l’avversario”. Come dire: un peccato ideologico che oggi stiamo perpetuando.
La meccanica che descrive Polito è quella scivolosa del grillage giudiziario del Cavaliere, quella che porta all’inseguimento maldestro del Movimento cinque stelle, all’abbraccio non ricambiato con Grillo, e infine, dunque, all’individuazione di una larga, larghissima, maggioranza per portare al Quirinale l’esecutore, o meglio, come si usa dire in questi giorni, il “facilitatore” della sentenza berlusconicida: Romano Prodi, o forse i professori Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà o comunque un profilo simile, un presidente della Repubblica, e capo del Csm, “incline al massacro”, come dice la ruvida e appassionata Daniela Santanchè, o come dice invece Alessandro Gilioli, la firma dell’Espresso, giornalista integralmente antiberlusconiano: “Una figura diversa da D’Alema, da Violante o da Napolitano stesso. Un presidente che non coltivi più rapporti ambigui con il Caimano”. Dunque se adesso Grillo non sbaglia tutto – cosa possibile, visto che i candidati del Movimento 5 stelle al Quirinale sono Imposimato, Boccassini e Settis cioè persone che persino il Pd potrebbe non votare – la strada è spianata. E Gilioli spiega cosa significa avere Zagrebelsky o Rodotà al Quirinale: “E’ l’occasione storica per mettere fine a un vulnus ventennale della democrazia, a Berlusconi. A quella che proprio Zagrebelsky chiamò profeticamente nel 1994 – nel libro ‘I misteri di Forza Italia’ – ‘la formula del potere perpetuo, aggiungendo queste parole: ‘Se questo progetto andrà in porto sarà per l’acquiescenza e la cecità degli altri’”. Insomma per sconfiggere Berlusconi “non c’è bisogno della Boccassini. Basta Zagrebelsky. A scrutinio segreto è molto probabile che trenta o quaranta deputati di Grillo lo votino”. Salvatore Merlo, Il Foglio quotidiano, 4 aprile 2013
……………Questa la strategia dei nemici giurati di Berlusconi ma più ampiamente della nostra democrazia, che si vuole trasformare, in barba alla storia recente e ai valori perenni della democrazia senza aggettivi, in democrazia popolare. Nella quale ogni dissenso veniva stroncato e ogni dissidente conosceva la strada dell’ostracismo, della persecuzione, del gulag, prima morale poi materiale. Riusciranno gli ultimi epigoni di un totalitarismo di stampo bolscevico, sconfitto dalla storia e dal Cavaliere religioso, Papa Giovanni Poalo II, che impugnò la spada della resurrezione dei popoli dell’est, a resuscitarlo attraverso la sconfitta, o, peggio, la “morte” del Cavaliere laico Silvio Berlusconi? Tutto dipenderà dalla capacità di quanti, pur all’interno del PD, sopratutto gli ex democristiani che qualcosa del passato avranno conservato ma anche gli ex o post comunisti che dalla caduta dell’impero del male anche loro qualcosa hanno appreso, riusciranno ad impedire che questo obiettivo venga colto. Nel nome della libertà, innazitutto. g.
Un manipolo di saggi in un mare di non saggezza potrà fare ben poco. Neanche il clima pasquale è riuscito a spegnere la rissosità e i contrasti nei partiti politici che, diciamolo chiaramente, sono gli unici responsabili di questa situazione. Bersani si è intestardito a voler formare il governo, senza numeri e con il veto nei confronti di Berlusconi. Il Cavaliere, più comprensibilmente, ha cercato di massimizzare la sua posizione entrando nella maggioranza o tornando alle urne. Grillo, come da copione del suo Movimento, ha scommesso sul caos.
Il presidente Napolitano, all’epilogo del settennato, si è ritrovato a gestire una crisi politica ingestibile malgrado il tentativo di moral suasion dopo le consultazioni al limite del ridicolo intraprese dal segretario Pd che avrebbe ascoltato anche la bocciofila di Bettola, essendo introvabile la casalinga di Voghera. E allora, per arrivare al fatidico 15 maggio, ecco il coniglio dal cilindro quirinalesco: una commissione (in emergenza, l’escamotage più italiano che ci sia) di saggi scelti secondo il mai superato manuale Cencelli con compito ricognitivo e limiti temporali.
Ma il lunedì dell’Angelo è servito per mettere il «pantheon dei saggi» che, ricordiamo, non comprende donne (solitamente frivole e incapaci?), nel tritacarne dei partiti. Berlusconi tace, ma Alfano torna a chiedere a Napolitano poiché «la casa brucia», nuove consultazioni e voto subito; per Grillo l’idea è un errore e definisce il team «le badanti della democrazia»; Bersani non pervenuto (in compenso parla il fratello: «Pier Luigi diventerà premier in un’altra vita») ma fa un’apertura Franceschini dicendo che il Pd «deve togliersi un po’ d’aria di superiorità e parlare con Pdl e Lega». Come dire, confronto o larghe intese non sono necessariamente sinonimo di «inciucio, ma semplicemente di governabilità, necessaria di fronte l’emergenza sociale di un Paese schiacciato dalla crisi su cui stanno per abbattersi Iva, Tares e Imu.
E mentre la Merkel non tradisce il percorso termale di Ischia, lo Spiegel ci dà lezione scrivendo che «la classe politica italiana ha perduto la capacità del compromesso, elemento centrale di ogni democrazia» ovvero, «l’intera classe politica è in bancarotta e devono intervenire dieci anziani signori». Per favore, fateci scendere da questo carosello. Sarina Biraghi, Il Tempo, 2 aprile 2013