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AMBIZIONE E DIFFICILE REALTA’, di Massimo Franco

Pubblicato il 26 agosto, 2015 in Politica | No Comments »

Liquidare «il ventennio» passato come un rosario di occasioni perdute dall’Italia significa stilare un verbale del declino difficilmente contestabile: anche se si dimentica l’ingresso del nostro Paese nel sistema della moneta unica, e le speranze che l’euro creò. Il problema è che nel bilancio fatto ieri da Matteo Renzi al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini, e poi a Pesaro con l’annuncio dell’abolizione di Imu e Tasi nel 2016, risuona anche un’eco del passato. L’impressione è che il presente venga esaltato in modo eccessivo. L’idea di uno spartiacque virtuoso, rivoluzionario, appartiene ad una narrativa magari comprensibile ma controversa. È vero che per il presidente del Consiglio si trattava di tornare sulla scena dopo settimane difficili; di riaffermare un protagonismo marcato in vista di scadenze istituzionali cruciali come la riforma del Senato, e di una legge di Stabilità insidiata dalla crisi finanziaria cinese.

Proprio il contorno di incertezza, però, tende a schiacciare l’esecutivo sulle esperienze deprecate dalle quali si vuole distanziare.
È condivisibile l’analisi sull’eccesso di ideologia che tuttora permea il sistema. E l’espressione «provincialismo della paura» rende bene il modo in cui alcune forze politiche fomentano la xenofobia e il timore dei cambiamenti. Rimane però
il sospetto che il governo descriva in maniera efficace
i problemi, ma fatichi a risolverli. Per quanto sia difficile contestare la tesi del premier secondo la quale «veti e controveti» hanno bloccato il Paese, c’è da chiedersi se oggi la situazione sia così diversa. S ul Senato è lo stesso Pd di cui Renzi è segretario a seminare resistenze e incognite destinate a pesare sul merito della riforma e perfino sulla tenuta della maggioranza. Né convince del tutto la contrapposizione tra i «cattivi» che vogliono ancora l’elezione diretta dei senatori e i «buoni» che puntano a svuotarlo attraverso la riforma.

L’idea di affidare la modernità del Senato a un listino scelto dai Consigli regionali, grumi di una spesa pubblica irresponsabile e spesso di un malgoverno ai limiti dei codici, come ammette la stessa Consulta, è per lo meno opinabile. Quanto all’agenda delle priorità economiche, per il momento non è sempre decifrabile. Non solo. Quando il premier parla di abolizione delle tasse sulla casa e più in generale di abbassamento del carico fiscale, viene subito da pensare come saranno compensati.
I margini di manovra che l’Europa dovrebbe concedere all’Italia rimangono aleatori. La tentazione di sfondare il tetto del patto di Stabilità è evidente. Riflette uno scetticismo di fondo sulle politiche rigoriste dell’Ue, che anche ieri Renzi non ha nascosto; e che, va detto, trova più di una giustificazione. La prospettiva di uno strappo appare, tuttavia, altamente rischiosa. Tradisce la preoccupazione di chi si è dato obiettivi molto ambiziosi, e capisce quanto siano sfuggenti.

Il pericolo vero, per Palazzo Chigi e per l’Italia, è un limbo nel quale si sarebbe costretti a galleggiare perché il ritorno indietro comporterebbe solo una regressione; ma il futuro per ora si configura segnato da incertezze assai poco rassicuranti. Nell’abbozzo di una politica post ideologica che Renzi offre, si indovina lo sforzo di superare questo stallo; di individuare il nucleo di un nuovo modello. Riaffiora l’embrione di una formazione che non parli solo alla sinistra, e anzi si guardi da una certa sinistra passatista.
Si tratta di una sfida che comporterà rotture e traumi, dei quali già si intravedono i prodromi. Rimane da capire se il Renzi di oggi abbia la stessa forza, la stessa aura di vincente e le stesse alleanze di un anno fa: non solo per sostenerla ma per vincerla.Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2015

…….Massimo FRANCO è un giornalista molto “franco” ma contenuto nelle analisi e nei giudizi. Come in questo editoriale che pur con parole “dolci” stronca l’ennesima manifestazione di invereconda annuncite di Renzi….dal 2016 taglierà TASI e IMU, cioè qualcosa come 24 miliardi di tasse sinora incassate dai Comuni….bene, scrive Franco, ma, ironizza, sia pure con garbo lo stesso giornalista, lì dove si domanda da dove Renzi troverà i fondi per sostituire queste mancate entrate. Non lo dice sottolinea Franco e così evidenzia la colpa maggiore di Renzi, cioè fare la diagnosi, che tutti, dico tutti, sono in grado di fare ma evita di indicare la terapia. Così come quando fa ricadere le colpe dei danni presenti al passato e all’eccesso di ideologia, dimentico che le risse del presente non sono meno gravide di problemi come nel passato e che in fondo se ad un eccesso di ideologia si contrappone un eccesso di qualunquismo a buon mercato il risultato è analogo. Ma la stroncatura più feroce Franco la riserva alla riforma del Senato: individuare i futuri senatori non eletti tra i consiglieri regionali che sono l’esempio peggiore della peggiore classe dirigente di questo Paese è la scelta di chi fa finta di voler cambiare ma in verità non cambia nulla. g.

RENZI, LO STALLO E TRE VIE D’USCITA, di Antonio Polito

Pubblicato il 13 agosto, 2015 in Politica | No Comments »

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (Ansa/Ferrari)

Chi nasce tondo non può morire quadrato, dice il proverbio. Nessuna meraviglia quindi se il Senato, privo fin dall’inizio di una maggioranza politica, sembra tornato a essere la Fossa delle Marianne della legislatura. Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Non li ha per la riforma costituzionale che abolirebbe il Senato elettivo (prima o poi devono essere 161, ed è risaputo che i capponi non votano per il Natale); ma potrebbero mancargli anche ogni volta che la minoranza pd decide di scavarsi una trincea identitaria. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo. Finora ha praticato il divide et impera, ha assecondato la frantumazione delle forze parlamentari, ha osservato benevolmente il via vai di fuoriusciti e scissionisti, convinto che più nani ci sono in giro più lui giganteggia. La nuova legge elettorale, l’Italicum, codifica anche per il futuro questa aritmetica, togliendo valore alle coalizioni. Ma ora Renzi, al giro di boa della legislatura, deve provare a riattaccare qualche coccio, a coalizzare un arco di forze che vada oltre la sua maggioranza; perché questa, da sola, è oggi minoranza al Senato.

Le vie che Renzi può seguire sono tre. La prima è la più pragmatica. Consiste nello strappare un numero consistente di senatori pd al fronte del dissenso. Ma devono essere molti. Se Renzi non riesce almeno a dimezzare il gruppo Gotor-Chiti, gli «aiutini» esterni su cui conta potrebbero non essere sufficienti. La scissione di Verdini, che è sembrata più concessa che subita da Berlusconi, può essere un veicolo per nuovi soccorsi sottobanco, ma entro certi limiti. Pareggiare così 24/26 voti contrari nel Pd non è possibile. Staccarne 10/12 non è affatto facile. In più l’operazione si baserebbe troppo sui trasformisti, base fragile per governare.

La seconda via è quella di uno scambio politico alla luce del sole. La minoranza pd voterebbe anche domattina il Senato non elettivo se fosse garantita da una legge elettorale con il premio alla coalizione invece che alla lista. Sarebbe la sua assicurazione sulla vita, in caso di scissione. Forza Italia ne ha a sua volta bisogno per allearsi con Salvini. E ai centristi, se vogliono davvero andare alle elezioni col Pd, servirà comunque una lista, non potendo confluirvi. Molti renziani la considererebbero una resa senza condizioni; ma se Renzi accettasse pubblicamente di ritoccare l’Italicum la partita politica cambierebbe in un istante. Non è escluso che nel prossimo dibattito in Senato sulla riforma costituzionale spunti qualche ordine del giorno che chieda al governo di farlo.

La terza via, la più impervia ma anche la più ambiziosa, sarebbe tornare al punto da cui è partita la legislatura, e cioè a un patto tra il Pd e Berlusconi. Non potrebbe essere una riedizione del Nazareno, accordo troppo oscuro e ambiguo, e comunque fallito con l’elezione di Mattarella, uomo che non l’avrebbe garantito. Oggi molti ne parlano, sia nel Pd che in Forza Italia, come di un accordo di coalizione che dia stabilità al governo; anche se nessuno sa che cosa esattamente sia, e ognuno aggiunge sempre nuovi ingredienti alla trattativa, come la giustizia. È perfino riapparso Gianni Letta, con un mezzo mandato a trattare, di cui ha fatto ampio uso nella vicenda Rai.

Si tratterebbe in ogni caso di un vero e proprio riallineamento del sistema politico, perché staccherebbe Berlusconi dalla destra di Salvini e porterebbe il Pd a una scissione con la sinistra. Forse una rotta troppo ambiziosa per chi naviga a vista. Ma Renzi è incline alla mossa del cavallo, e qualcosa dovrà pure tentarla. Non è un caso se si è tenuto finora nel manico la carta del rimpasto di governo, atteso da mesi. Non si sa mai. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 13 agosto 2015

….Diceva Andreotti, parlando di sè, che lui era si un nano ma in giro non vedeva poi tanti giganti.  Forse è quel che pensa di se Renzi, e forse ciò lo induce a ritenere che egli possa essere invincibile. Allora val la pena di ricordare che ai tempi di Andreotti, secoli fa in politica, pur non essendoci giganti in circolazione,  anche Andreotti, vecchia volpe, finì in pellicceria, come gli aveva pronosticato un altro non “nano” della politica, cioè Craxi, anche lui, a ragione, considerato invincibile e poi costretto dagli eventi e da una vera e propria azione di guerra a deporre le armi. E non solo. g.

LE PAROLE SUL SUD CHE NESSUNO DICE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 9 agosto, 2015 in Economia, Politica | No Comments »

«Lo Stato non è solo le sue risorse economiche, i finanziamenti pubblici. Lo Stato è anche la legge e i diritti eguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro. Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia se lo ricordassero e ce lo ricordassero più spesso. E che dunque, ad esempio, fossero loro per primi, i loro deputati, le loro assemblee locali, a chiederci sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso. Che contro tutti questi ci chiedessero, loro, più severità, più intransigenza. Perché invece ciò non accade ormai se non rarissime volte?

Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco colpevolmente il silenzio e il disinteresse del resto del Paese? Non è da qui che bisogna allora ricominciare?».

Sono queste le parole che mi sarebbe piaciuto sentir dire da Matteo Renzi venerdì scorso alla direzione del Pd, parlando delle condizioni del Sud, al posto del «rottamare i piagnistei» e dello «zero chiacchiere» con cui invece ha condito il suo discorso. L a rottura decisa rispetto al passato di cui il nostro Paese ha bisogno dovrebbe essere, infatti, anche una rottura nel linguaggio. E non già, come si capisce, verso il basso, verso i tweet e gli hashtag , bensì verso l’alto, verso la dimensione in cui si esprimono per l’appunto quelle visioni generali nuove e audaci di cui abbiamo bisogno. Di cui ha bisogno in modo tutto speciale il Mezzogiorno.

L’inizio del cui declino attuale coincide con l’inizio della crisi che dagli anni Novanta del secolo scorso – combinando elementi nazionali e internazionali, assommando il post-sessantottismo ai più vari diktat dell’Europa di Bruxelles – va disintegrando lo Stato italiano storico, formatosi con il Risorgimento e durato fin verso la fine della Prima Repubblica. È la crisi che da oltre un ventennio va mangiandosi tutte le strutture amministrative del nostro vecchio Stato, tutti i suoi abituali ambiti d’azione di un tempo (dall’istruzione al controllo sugli enti locali, alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), per effetto del trionfo delle retoriche (e delle prassi) decentralizzatrici, sindacal-partecipative, democraticistiche, antimeritocratiche. È la crisi che ha inghiottito anche tutte le culture politiche del Novecento italiano, tutte le loro premesse storico-ideali, nonché naturalmente tutti i partiti che esse avevano prodotto. Ed è infine la crisi che ha spinto ad accettare il dogma della privatizzazione, l’«andare sul mercato», di quasi tutte le reti nazionali di servizi (dalla rete ferroviaria e delle stazioni, alle Poste, agli aeroporti, alle autostrade) con il loro crollo qualitativo per il pubblico indifferenziato e il loro riorientamento classista a favore di chi può spendere; che ha spinto a considerare inammissibile qualunque ruolo sociale o economico diretto dello Stato, o quasi.

È in tutti questi modi che nell’ultimo venticinquennio quello che ho chiamato lo Stato italiano classico è andato decomponendosi.

Ora, il problema del Mezzogiorno, la «questione meridionale», era precisamente la questione di quello Stato, la principale sfida alla sua esistenza, il massimo dei suoi problemi storici, a cominciare da quello del consenso. E infatti fino a venticinque anni fa, fin quando quello Stato è esistito, il Mezzogiorno è stato sempre sentito dalle classi dirigenti italiane come un ineludibile banco di prova. Dalle classi dirigenti e, si può ben dire, dall’intera cultura storica e politica nazionale; la quale ha sempre considerato necessario per il progresso del Mezzogiorno due cose: da un lato l’apertura di un forte conflitto sociale e politico all’interno della stessa società meridionale (condizione resa a suo tempo finalmente possibile dall’avvento della democrazia repubblicana), dall’altro l’intervento deciso in tale conflitto di un attore esterno a fianco dei «buoni» contro i «cattivi»: fossero gli operai del Nord alleati immaginari dei contadini del Sud, fosse un’altrettanto immaginaria piccola imprenditoria antinotabilare, ma alla fine sempre e soprattutto lo Stato. Lo Stato i cui protagonisti politici del Novecento, in un modo o nell’altro, non a caso ebbero tutti dietro quella cultura storica e politica che ho appena detto: Mussolini il meridionalismo vociano e nittiano, il popolare trentino De Gasperi l’ispirazione del siciliano Sturzo, il comunista piemontese Togliatti la lezione del sardo Antonio Gramsci.

Il Mezzogiorno è precipitato nell’irrilevanza, si è avvitato nella decrescita, è scomparso come «questione», nel momento in cui si è dissolto questo complesso nodo storico al cui centro c’era lo Stato nazionale italiano: perché innanzi tutto si è dissolto questo Stato e per effetto di una tale dissoluzione.

Ho però l’impressione che per tutti questi discorsi il nostro presidente del Consiglio non abbia molto interesse. Che sia assai lontana dal suo pensiero l’idea che per raddrizzare le sorti del Mezzogiorno la prima cosa da fare sia, come io invece credo, riprendere in mano, ricostruire, dove occorra accrescere, la macchina dello Stato, ristabilire il significato culturale e politico dei suoi tradizionali ambiti d’azione, la sua efficienza, la sua capacità di controllo e d’intervento capillare, anche la sua forza repressiva. A Matteo Renzi, piace di più immaginare che costruire l’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, questo sì cambierà le cose (ma perché non le ha cambiate la costruzione dell’autostrada? Perché?). Ai miei occhi è la prova che di quella parte del Paese che governa egli non conosce molto, forse non l’ha mai neppure troppo frequentata. Se avesse visto di persona, infatti, anche una sola volta, come gli abitanti e le autorità dell’intera costa che da Maratea va fino a Pizzo hanno ridotto quei luoghi, gli sarebbe venuto almeno il sospetto, sono sicuro, che il suo Frecciarossa non servirà assolutamente a nulla. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 9 agosto 2015

RENZI: IL BARZELLETTIERE D’ITALIA, di Vittorio Feltri

Pubblicato il 8 agosto, 2015 in Politica | No Comments »

A suo modo Matteo Renzi è un genio. Nessuno è più bravo di lui a raccontare barzellette, nemmeno Silvio Berlusconi che, nel ramo, ha esperienza pluriennale. Il Cavaliere la butta sul pecoreccio e strappa qualche risata; il giovin premier, invece, va sul fiscale ed è sempre un irresistibile comico anche quando vorrebbe essere serio. È un attore e un esattore formidabile.

Da un anno e mezzo circa proferisce bischerate con toni da profeta, seduce il proprio cerchio tragico (Maria Elena Boschi e fritole varie), lo carica a salve e un giorno sì e l’altro pure organizza spettacoli pirotecnici qua e là con l’intento – probabile – di prendere in giro gli italiani. I quali all’inizio ne godevano, persuasi che a Roma, via Arno, fosse giunto il difensore dei portafogli nazionali. Adesso, quando il premierino apre bocca, non si odono più applausi, bensì sonori pernacchi.

È il destino che tocca agli imbonitori, anche i più abili. Ecco perché Renzi non cessa più di rilanciare: se prima annunciava tre riforme, ora ne annuncia dieci; se appena giunto a Palazzo Chigi giurava di elargire tot miliardi per promuovere la ripresa economica, adesso assicura di averne pronti il doppio per superare la crisi. Il ragazzo non finisce più di stupire e, di conseguenza, di deludere. Chi lo sente parlare non si incanta: scuote la testa. Non gli crede più nessuno, forse neanche sua moglie.

Negli ultimi giorni è stato colto da delirio di onnipotenza. Serve un medico del pronto soccorso: qualcuno abbia il coraggio di farlo intervenire d’urgenza. Il povero Matteo ha addirittura garantito che verserà 100 miliardi per avviare i motori avariati del Mezzogiorno. Cento miliardi? Sissignori. Egli afferma di averli lì in un cassetto, a disposizione dei terroni. Sogna.

I suoi stessi collaboratori lo guardano con sospetto e si domandano: forse necessita di un periodo di riposo? Il potere gli ha dato alla testa? I timori crescono di settimana in settimana. Difatti, ogni dichiarazione solenne fatta dal presidentino concorre a rafforzare l’ipotesi che egli sia scoppiato, come quei ciclisti che, a due chilometri dal gran premio della montagna, si accasciano incapaci di muovere un muscolo. La benzina è finita.

Renzi ha esaurito le balle. Ne ha raccontate troppe.

Afferma di stanziare 12 miliardi per la banda larga, che è come l’Araba Fenice; tutti ne blaterano e nessuno sa cosa sia. A un dato momento si sbilanciò: riformo la scuola e assumo 300mila insegnanti. Obiezione: dove li metti e con quale denaro li retribuisci? Risposta: vabbé, facciamo che ne prendo 100mila, poi vedremo. Quanto alla riforma dell’istruzione, si segnala che essa è leggermente peggiorativa rispetto all’esistente sistema scolastico. Converrebbe ripescare l’impianto studiato da Giovanni Gentile, però Matteo ignora di che si tratti.

Ignora un altro dettaglio: i soldi per pagare la realizzazione dei progetti non ci sono. Allora? Egli non si scompone: li ricaviamo dalla spending review. La mena da mesi e mesi con i tagli e non ne ha fatto neanche mezzo, se si esclude il licenziamento di Carlo Cottarelli, l’uomo delle forbici. Nonostante ciò, insiste: abolisco la tassa sulla prima casa. Idea ottima. Ma il mancato introito come fai a compensarlo? «Provvederemo».

Oggi scopriamo che il premier sgancerà un miliardo e 300 milioni per l’emergenza frane. Già. Con i quattrini che non ha, egli è persuaso di evitare le calamità naturali. Neanche fosse Dio.

Una curiosità, presidente: i debiti miliardari della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese li ha saldati? Un pochino. Ma non aveva garantito che sarebbero stati liquidati un anno fa? Campa cavallo. Concludiamo in bellezza: il bicameralismo perfetto è ancora in piedi, il Senato

invecchia ma non muore; le Province teoricamente sono chiuse, però continuano a costare come quando erano aperte. La riforma della Rai è abortita e ci becchiamo Monica Maggioni, che ha sderenato Rainews. E le unioni civili? Rimangono disunite. Caro Renzi, torni in Toscana e la porti un bacione a Firenze e uno alla Fiorentina, che almeno sta vincendo in attesa del campionato. Vittorio Feltri, 8 agosto 2015

IL POTERE DIRETTO DEL LEADER, di Michele Ainis

Pubblicato il 7 agosto, 2015 in Politica | No Comments »

L’ Italia cambia pelle, anche se gli italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale, sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche, sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi I ha superato la boa dei 500 giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di commercio, le Province. E ai piani alti del sistema la legge elettorale, il Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è una parola d’ordine che riassume l’epopea riformatrice?

Le paroline sono tre: verticalizzazione, unificazione, personalizzazione. Nelle scuole comanderà un superdirigente, con poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act , allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). C osì l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.

Anche perché tutte le istituzioni collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli comunali, oscurati dall’autorità del sindaco. Vale per il Consiglio dei ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in conferenza stampa. E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari. Che in questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa in tre, il Partito democratico ospita due truppe armate l’una contro l’altra, i 5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei gruppi parlamentari parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti, qui, si faranno alla fine.
Ma la concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’ Italicum : al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione postuma a Mosca e a Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: «Il profeta, che tanti invocano, non c’è». Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 7 agosto 2015

…..La democrazia o è collegiale o non è…perciò la deriva oligarchica della democrazia, pronosticata da Mosca e da Pareto, non può che dar luogo alla soppressione stessa della democrazia.  E poichè indietro non si può tornare, con buona pace di tutti i Renzi del mondo, la democrazia, cioè la gestione collegiale della politica,   alla lunga,  vincerà la sfida con chi sogna la deriva oligarchica, cioè il potere unico e diretto di un capo chiunque esso sia.

IL TRAGICO COSTO DEL CONSENSO

Pubblicato il 6 agosto, 2015 in Economia, Politica | No Comments »

Con molta buona volontà è possibile abbozzare un sorriso quando il presidente del consiglio – contraddicendo il Fondo Monetario Internazionale – annunzia che la ripresa è cominciata. Con qualche sforzo in più possiamo anche rallegrarci alla lettura dei dati sul Pil o sui nuovi contratti di lavoro anche se le percentuali ricordano quelle dei prefissi telefonici. Poi, però, la Svimez ha pubblicato l’ultimo rapporto sul Mezzogiorno nel quale si mostra come il sottosviluppo delle regioni meridionali sia ormai un dato strutturale e che la patologica disoccupazione non sia un fenomeno congiunturale ma una tragica e permanente caratteristica. Infine, ogni voglia di sorridere scompare quando le analisi Svimez dimostrano come la crescita del Mezzogiorno tra il 2000 ed il 2013 sia stata la metà di quella greca, di un paese, cioè, considerato il più disastrato dell’ Ue. Sperare che sole, mare e turismo possano invertire la tendenza è illudersi. Sembra passato un secolo dagli anni non lontani in cui molti ritenevano che, magari in tempi non così brevi, come affermavano gli economisti della Cassa per il Mezzogiorno ed i cosiddetti «meridionalisti di Stato» , il divario tra Nord e Sud sarebbe stato superato. Rincorrendo questo obiettivo – o sogno – è stata impiegata una quantità di risorse inimmaginabili. Denari in gran parte dilapidati perché spesso serviti per costruire il consenso ed alimentare ceti sociali improduttivi.

I canali nei quali gli enormi capitali destinati allo sviluppo sono stati dispersi sono innumerevoli: opere pubbliche inutili, costose e spesso neppure terminate, moltiplicazione di impieghi improduttivi, creazione di apparati politici ed amministrativi funzionali solo alla riproduzione di un ceto politico largamente parassitario. Per non parlare di una endemica e pervasiva corruzione. Il processo di sviluppo del Mezzogiorno, dovendo contrastare le tendenze del mercato, non poteva che essere pilotato politicamente dallo Stato e, soprattutto, dalle sue articolazioni locali (Regioni, Province, Comuni, credito pubblico, ecc. ). Il problema è che la logica con cui l’azione politica si è mossa soprattutto negli ultimi venti anni – senza apprezzabili differenze di schieramento o di regione – è stata fortemente autoreferenziale e lontana da qualsiasi strategia di sviluppo. Obiettivo costante è stato, invece, la costruzione del consenso ed attraverso questa l’autoriproduzione degli apparati. Anche il confronto politico ed il comportamento dei candidati in occasione delle ultime regionali in Puglia e Campania ha mostrato chiaramente la persistenza di questa logica. Se, come è stato spesso scritto, la politica è servizio, possiamo affermare che nel Mezzogiorno abbiamo il personale di servizio più caro e peggiore di Europa. G. Amendola, Il Corriere del Mezzogiorno, 6 agosto 2015

RIFORMA DELLA SCUOLA: UNA LEGGE, 25 MILA PAROLE, di Michele Ainis

Pubblicato il 26 giugno, 2015 in Politica | No Comments »

Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (Benvegnù-Guaitoli) Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini che sulla riforma non ha messo becco.

Che c’è in comune fra la Buona Scuola e l’Italicum ? E fra quest’ultimo e il Jobs act, la legge Delrio sulle Province, quella di Stabilità? Semplice: sono tutte figlie d’un maxiemendamento, sul quale cade poi come una scure il voto di fiducia. E almeno in questo, Renzi non si distingue dai suoi predecessori. Hanno maxiemendato Prodi (cui si deve il record di 1.365 commi stipati in un solo articolo di legge), Berlusconi, Monti, Letta. Sempre aggiungendo al testo un’invocazione amorosa al Parlamento, che Renzi ha ripetuto 30 volte (in media ogni 12 giorni) durante il suo primo anno di governo. «Ti fidi di me, mi vuoi ancora bene? Dimmelo di nuovo, giurami fiducia».

È la legge non scritta della Seconda Repubblica: se vuoi incassare una riforma, devi violentarne la forma. Nel caso della scuola, questa maschera deforme comprende 209 commi, che s’allungano per 25 mila parole. Neppure Samuel Beckett, con le sue frasi che riempivano una pagina, avrebbe osato tanto. Si dirà: una legge non è un romanzo, dobbiamo misurarne la sostanza, non lo stile.

Vero, ma fino a un certo punto. Intanto, sui contenuti la riforma è in chiaroscuro, altrimenti non avrebbe innescato una valanga di proteste. Restano elementi critici sull’offerta formativa, sui poteri del preside-sceriffo (decide lui chi assumere), sul finanziamento alle scuole private (vietato dalla Costituzione). Dopo di che non mancano i progressi: maggiore autonomia, stabilizzazione dei precari, aiuti alle scuole disagiate, processi di valutazione dei dirigenti e dei docenti . Restano chiaroscuri anche sul maxiemendamento, rispetto al testo originario. Quanto al piano d’assunzioni, per esempio, è in chiaro il reclutamento degli idonei usciti dall’ultimo concorso, è in scuro il rinvio della pianta organica al 2016.

Niente di nuovo, succede con ogni maxiemendamento. Perché il suo primo effetto è di trasformare il Parlamento in organo consultivo del governo: quest’ultimo ascolta quanto hanno da dire gli onorevoli colleghi, leggiucchia le loro proposte di modifica, poi sceglie petalo da petalo, e li incarta in una rosa che ha per spina la fiducia. Sequestrando la libertà dei parlamentari, messi davanti a un prendere (la legge) o lasciare (la poltrona). Sommando su di sé il potere esecutivo e quello legislativo, specie se il testo contiene 9 deleghe al governo, come accade per la Buona Scuola. E sfidando infine il paradosso, la contorsione logica. Il maxiemendamento, difatti, è un autoemendamento, quando interviene su un progetto confezionato dallo stesso Consiglio dei ministri. Mentre emenda, il governo fa ammenda. Ma l’ammenda non corregge i difetti originari: viceversa li moltiplica, giacché converte l’atto normativo in arzigogolo, che poi ciascuno interpreterà come gli pare, come gli fa più comodo.

Così, fra questi 209 commi che si succedono senza uno straccio di titolo per orientarne la lettura, fa capolino il comma 49, che introduce la lettera b-bis . Seguito a debita distanza dal comma 166, che a sua volta aggiunge il comma 2- octies . Mentre il comma 178 si divide in 9 lettere; la lettera b in 8 punti; il punto 3 in 4 sottopunti. Senza dire del comma 74, a proposito degli insegnanti di sostegno: un delirio di rinvii normativi, 23 numeri in 84 parole. Sarà per questo che l’Italia è fanalino di coda nella classifica che misura la qualità della legislazione, 63 gradini in giù rispetto alla Germania. Sarà per questo che l’indice Doing Business 2015 ci situa al 56º posto, dietro a tutte le principali economie. Con leggi così l’imprenditore, il lavoratore, e da domani pure lo studente, rimangono giocoforza ostaggio del burocrate. Il maxiemendamento è un campo di concentramento. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 giugno 2015

TROPPI SILENZI SULL’ASTENSIONE, di Michele Ainis

Pubblicato il 18 giugno, 2015 in Politica | No Comments »

Uno vince, l’altro perde. Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.

Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.

La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza. E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.

C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.

Un’idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum. L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 18 giugno 2015

I FANTASISTI DELLA SCAPPATOIA, di Michele Ainis

Pubblicato il 10 giugno, 2015 in Politica | No Comments »

In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, i prescritti. Succede con le regole del gioco democratico. Talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo professori. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo.

Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: viene «sospeso di diritto». Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio «accerta» la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’ interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lorsignori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?

Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto «nei», Montecitorio ha scritto «dai». La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?

Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa.

Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica. Michele Ainis,Il Corriere della Sera, 10 giugno 2015

REGIONALI: ECCO CHI HA VINTO E CHI HA PERSO.

Pubblicato il 2 giugno, 2015 in Politica | No Comments »

Per l’istituto Cattaneo Pd perde oltre 2 milioni di voti rispetto 2014. Calo anche per M5s e Fi

La proliferazione delle liste, la molteplicità delle alleanze nelle diverse regioni, rendono difficile uno studio dei flussi elettorali rispetto alle elezioni regionali del 2010. Gli analisti sono propensi a dire che in queste amministrative l’elemento locale ha pesato maggiormente rispetto a quello nazionale. Due elementi sembrano tuttavia comuni a tutte e sette le regioni: l’astensionismo e il peso che la crisi economica ha avuto nelle scelte. Che l’astensionismo abbia fatto da padrone, lo dimostra il dato generale (ha votato il 53,90% rispetto al 64,13% del 2010), omogeneo in tutte le regioni; e lo certificano alcuni dati esemplari. In Veneto Luca Zaia nel 2010 vinse con 1.528.382 voti (contro i 738.763 di Bortolussi), e quest’anno si ferma a quota 1.107.145 (502.841 quelli di Moretti). In Campania Vincenzo De Luca ha vinto con 985.962 voti, e cinque anni fa con 1.258.787 voti aveva perso contro Stefano Caldoro. L’astensionismo, spiega il prof Roberto D’Alimonte, direttore del Cise della Luiss, “e’ una tendenza che va avanti da anni, ed è composto da due componenti distinte: una quota è strutturale, e cresce anche per l’invecchiamento della popolazione; l’altra quota di elettori va e viene a seconda delle circostanze”. Per questa seconda componente, in questa tornata “può aver pesato anche il fatto che fosse il primo ponte estivo”, a cui vanno ad aggiungersi altri elementi come “una insoddisfacente offerta politica nelle sette Regioni, dove l’aspetto locale ha prevalso su quello nazionale”. Inoltre sull’astensionismo, “ha inciso anche la crisi economica, che ha però in parte premiato anche i partiti di opposizione radicale come Lega e M5s”. L’Istituto Cattaneo di Bologna ha fatto un raffronto tra i voti ottenuti dai quattro principali partiti (Pd, M5s, Lega e Fi) rispetto alle Politiche del 2013 e alle Europee del 2014: ebbene, solo il Carroccio avanza, e gli altri tre arretrano. Il Pd ha perso in tutto 2.143.003 voti sul 2014 e 1.083.557 sul 2013. M5s cala del 60% rispetto alle politiche del 2013, ma anche rispetto alle europee del 2014 (-40,4%): in valore assoluto, meno 1.956.613 voti e meno 893.541. In calo anche Fi che sul 2013 e sul 2014 cede 1.929.827 voti e 840.148. La Lega ha un vero balzo di 402.584 rispetto a due anni fa, e di 256.803 sull’anno scorso. Il dato è confermato da Swg che in uno studio, regione per regione, che i flussi elettorali della Lega sono ovunque solo in entrata, riuscendo a rubare voti sia anche a Pd e M5s e non solo a Fi. Per esempio in Liguria il più 14,7% è arrivato prendendo voti da Pd (1,3%), M5s (2,3%), da Fi (4%) oltre che dall’astensione (6,3%). D’Alimonte invita alla cautela: “è difficile fare un confronto, perché c’è stata una proliferazione di liste civiche che ha tolto voti soprattutto a Pd e Fi”. In Campania, per esempio, sia De Luca che Caldoro erano sostenuti da ben 10 liste; ma anche in Puglia Michele Emiliano aveva due liste del Presidente (155.840 voti l’una e 68.366 l’altra) e altre due civiche. E liste del Presidente o civiche correvano in tutte le Regioni sia nel centrosinistra che nel centrodestra “Occorrerà costruire dei blocchi di liste civiche appartenenti alle varie aree politiche, per poter fare un confronto”. Per D’Alimonte M5s, pur avendo perso voti sul 2013 e il 2014, ha avuto un buon risultato. “Alle amministrative – spiega – M5s non ha speranza di vincere, e nonostante ciò ha dovunque sfiorato o superato il 20%, senza che Grillo facesse campagna elettorale. Significa che ormai c’è una componente di elettorato fidelizzata, anche se la polemica sugli “impresentabili” ha aiutato il Movimento”. FONTE ANSA, 2 GIUGNO 2015