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GRAZIE A FINI, UNA LEGGINA PER SALVARSI LA PAGA E’ L’ULTIMA FURBATA DELLA CASTA

Pubblicato il 10 giugno, 2012 in Il territorio, Notizie locali, Politica | No Comments »

Grazie a Fini, aumentano i deputati che possono essere assenti giustificati: così evitano i tagli alla diaria

Leggina per salvarsi la paga L’ultima furbata della Casta

Hanno tirato la cinghia sotto il pressing dei media e dell’opinione pubblica, ma a un certo punto non ce l’hanno più fatta. I deputati hanno chiesto e ottenuto dal presidente della Camera Gianfranco Fini un ammorbidimento delle regole che portano a togliere loro una quota della diaria (3.500 euro al mese) per ogni seduta di aula in cui  non partecipano ad almeno un terzo delle votazioni o per le sedute di commissione in cui non siano riusciti a fare rilevare la loro presenza (o attraverso la tessera digitale o firmando un registro). Lo sconto che il preside ha concesso alla sua scolaresca è stato approvato a metà marzo lontano dai riflettori, ma questa settimana è stato pubblicato nel bollettino sommario degli organi collegiali che riporta tutte le riunioni del collegio dei questori e dell’ufficio di presidenza della Camera dei deputati.

Proprio qui alla presenza di Fini è stato approvato questo sostanziale sconto ai monelli che bigiano scuola (anche chi preferisce non perdere tempo in lavori parlamentari spesso inconcludenti e dedicarsi alla propria e più redditizia professione). Con un mini regolamento sono state definite le cause di assenza che possono ogni mese essere giustificate dal collegio dei Questori. Le prime sono banali, e varrebbero per qualsiasi altro lavoratore: “si può ritenere giustificabili i deputati risultati assenti per ricovero ospedaliero ovvero per malattia certificata da un medico dell’azienda sanitaria locale di appartenenza o da una struttura sanitaria pubblica. Potrebbero altresì essere giustificati i deputati assenti per motivi di lutto di congiunti e, per un numero massimo di tre giorni al mese, per assenza ai familiari permanentemente invalidi”. Poi si passa al vero e proprio condono che salva le trattenute dei rimborsi della diaria: “Inoltre, tenendo conto di una esigenza rappresentata dai gruppi parlamentari, si propone di incrementare il numero dei deputati giustificabili da parte dei gruppi medesimi, in ragione della loro consistenza numerica”.

Cosa significa? Che i vari gruppi avevano un numero limitato di parlamentari nelle proprie fila che potevano essere giustificati a prescindere per le proprie assenze, percependo quindi la diaria anche se non partecipavano ai lavori. Di solito si tratta dei leader dei partiti politici: usano questo vantaggio Pierluigi Bersani, Angelino Alfano, Pierferdinando Casini e pochi altri importanti dirigenti di quei partiti. Ora la platea dei condonati si allarga, il suo numero non è stato rivelato (dicono per questioni di privacy che c’entra come il due di picche), e si sa solo che dipenderà dalla consistenza dei gruppi parlamentari. Questo significa che non saranno permesse 20 eccezioni per un gruppo che abbia 20 parlamentari, ma che saranno sicuramente di più nel Pd e nel Pdl. Fra le cause in cui l’assenza risulterebbe giustificata ci sono anche quelle della legge 104 del 1992, che regola i permessi e i congedi di lavoro. di Fosca Bincher, Libero, 10 giugno 2012

…………E dire che proprio ieri sera gli epigoni locali del peggior traditore della storia politica del secondo dopoguerra italiano,  avevano chiamato a raccolta le masse (sic!) per dare, in nome appunto del loro “capo”,  lezioni di moralità, di etica politica, di legalità (triplo sic), ai politici che,  a leggere il loro manifesto,  dovevano zittire per ascoltarli. Ad ascoltarli non c’erano i politici, salvo quelli – pochi anche questi – interessati a “comprare” a poco prezzo qualche decina di voti “posseduti” da   abituali faccendieri, abituati a cambiar partito come altri cambiano le mutande – una volta al giorno -  ma solo pochi “coscritti”, reclutati in virtù dell’immorale uso di dati sensibili utilizzati per “indurli” a  discutibili parate destinate a far da sfondo  a utopici  incoronamenti futuri di locali barbari sognanti che mai hanno pagato scotto per i loro intemerati cambi di casacca. A questi pochi però nessuno ha detto che il grande capo, sopra riportato in effigie,  dopo aver assicurato al proprio cognato  l’uso gratuito di una lussuosa dimora in quel di Montecarlo, sottraendola ai beni del partito che fu,  ha anche l’altro ieri concesso uleriori benefici ai suoi colleghi deputati, compreso l’applicazione anche per loro dei benefici della legge 104 del 1992, quella che consente ai parenti di disabili di usufruire di tre giorni al mese di  assenze  retribuite dal posto di lavoro, come se i deputati  non potessero permettersi con quel pò pò  che guadagno una badante per i loro cari, recandosi, loro, a svolgere le mansioni a cui sono stati eletti e per le quali percepiscono stipendi da nababbi.  Questo, ovviamente, s’è dimenticato di stigmatizzatore il loquace – alle spalle! – fustigatore degli altrui doverosi e inderogabili rilievi di accertati illeciti. Il che ci fa supporre che è pronto a compierne…. g.

IL PASSATO COMUNISTA CHE IMBARAZZA NAPOLITANO: NEL 56 IL PCI SBAGLIO? E LUI DOV’ERA?

Pubblicato il 9 giugno, 2012 in Politica, Storia | No Comments »

Era il 10 maggio 2006. Per uno di quei paradossi da cui, troppo spesso, la storia viene segnata, il primo (post) comunista saliva al Quirinale proprio nel cinquantesimo anniversario della rivolta ungherese soffocata nel sangue dai sovietici.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Quello stesso uomo che nel 1956, al congresso del Pci, aveva difeso l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss polemizzando con i compagni che volevano prenderne le distanze. Col passare dei decenni Giorgio Napolitano farà autocritica ed etichetterà come prodotto di “zelo conformistico” quel suo intervento in cui aveva detto che in Ungheria l’Urss portava pace.

Adesso è un altro Napolitano. Almeno è così che il presidente della Repubblica prova a descriversi in una lunga intervista alla Gazeta Wyborcza pubblicata oggi su Repubblica alla vigilia delle visita del capo dello Stato in Polonia. Alle domande di Adam Michnik, uno dei fondatori di Solidarnosc ed oggi direttore del quotidiano, il numero uno del Quirinale ci tiene a rispondere come garante della Costituzione. Così, ripercorre con tranquillità il proprio passato, fa mea culpa ricordando Enrico Berlinguer e Michail Gorbaciov, analizza il berlusconismo e l’attuale situazione politica. Il mio cammino verso il Quirinale attraversando la storia d’Italia è il titolo dell’intervista fiume. Ma sono le parole sull’invasione di Budapest nel 1956 e sulla primavera di Praga nel 1968 a stridere con la militanza di Napolitano nel Partito comunista.

“Il sentiero della mia vita è un processo passato attraverso prove ed errori – spiega a Michnik – sono partito dagli ideali che in gioventù ho sposato, più che per scelta ideologica, per impulso morale e sensibilità sociale, guardando alla realtà del mio Paese. Nell’arco dei decenni, ho cercato di andare al di là degli schemi entro i quali all’inizio era rimasta chiusa la mia formazione. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute”. Alla Gazeta Wyborcza il capo dello Stato iracconta del periodo in cui era membro attivo di un Pci, un partito che portava nel suo dna il mito dell’Unione sovietica e il legame col movimento comunista mondiale. “Questi elementi originari, a un dato momento, sono diventati una prigione dalla quale il Pci doveva liberarsi”, ammette Napolitano ricordando quel 1956. L’appoggio all’intervento sovietico a Budapest, appunto. Adesso Napolitano ammette che fu “una tragedia, anche per il Pci, un errore grave e clamoroso del gruppo dirigente, a partire da Togliatti”. A detta del capo dello Stato il Pci capì l’errorefatto ancor prima di fare pubblica ammenda. E per questo per cui, quando nel 1968 (Togliatti era già deceduto da quattro anni) l’Urss e gli altri Paesi del blocco sovietico entrarono coi carrarmati in Cecoslovacchia, il Pci ufficialmente si schierò contro quell’intervento.

Arrivarono poi gli anni Settanta, l’eversione rossa, la fine della prima Repubblica, il berlusconismo. Tutto in un soffio. Napolitano, la storia dell’Italia, la legge così: “I cicli si sviluppano e poi si esauriscono”. Tra errori e smentite, appunto. Tanto che gli Anni di Piombo sono riassunti come un’alleanza tra gruppi di estrema destra e lo Stato per evitare, attraverso la strategia della tensione, che il Pci giungesse al governo. E le Brigate Rosse? Napolitano ne parla en passant limitandosi che i brigatisti “respingevano ogni compromesso” tanto che “finirono per porsi obbiettivi di violenza rivoluzionaria”. Niente di più. Meglio glissare su quel terrorismo rosso che mise in ginocchio il Paese versando il sangue di innocenti e che oggi continua a riemergere come un fantasma del passato. Andrea Intini,. Il Giornale, 9 giugno 2012

.………………Non è la prima volta, dopo essere stato eletto, fortunosamente, presidente della Repubblica Italiana, che Napolitano sparge lacrime di coccodrillo sul suo passato comunista. A proposito del 1956 e della rivolta di Budapest, soffocata nel sangue dai carri armanti sovietici, Napolitano ha già detto di “essere pentito, che il Pci sbagliò″ etc, etc. Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo e troppo facile uscirsene con qualche frase di circostanza e con ciò considerare chiuso il conto con la storia, non solo quello del PCI,  ma anche quello suo personale. Già allora Napolitano era un dirigente comunista, non di primissimo piano ma neppure di secondo piano, quanto meno era pari grado per esempio dell’on. Giolitti che sconvolto dalla repressione sovietica della Rivoluzione magiara, abbandonò il partito comunista per aderire al PSI.  Eppure ce n’era abbastanza per meditare. Citiamo da “Budapest, i giorni della Rivoluzione“  il libro di Enzo Bettiza,  che racconta la rivolta ungherese e le reazioni del PCI. Scrive Bettiza  che “tutti i 19 membri della direzione del PCI pensavano che si doveva estirpare radicalmente e al più presto il contagioso tumore di Budapest“  e ricorda che Togliatti “domenica 4 novembre – mentre la rivolta affogava nel sangue – brindava con un bicchere di vino rosso in più all’inizio della seconda e definitiva repressione russa e qualche giorno dopo scriverà sull’Unità che è mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiaccire il fascismo nell’uovo“. Nessuno nel PCI ebbe da ridire sui brindisi di Togliatti e sulle parole agghiaccianti che dedicava alla rivolta sul giornale del partito comunista, confermandosi lo spietato killer del bolscevismo internazionale. Nessuno. E ovviamente nemmeno Napolitano. A distanza di 56 anni da quelle giornate, le lacrime di Napolitano si confermano lacrime di coccodrillo che non lo perdonano del silenzio con cui assistè alla violenza con cui furono accompagnati al martirio  i patrioti ungheresi, dal premier della Rivolta  Nagy Imre, impiccato dai sovietici e riabilitato dopo la caduta del Muro nel 1989, ai tanti, sopratutto i ragazzi,  che sacrificarono  sul selciato delle strade di Budapest la loro giovinezza  per rivedicare il diritto alla libertà e alla democrazia. g.

SE SI VOTA AD OTTOBRE PER IL CENTRODESTRA SI PREVEDE UNA CATASTROFE, PEGGIO SE SI VOTA AD APRILE DEL 2013, CONTINUANDO A SOSTENERE MONTI

Pubblicato il 9 giugno, 2012 in Il territorio, Politica | No Comments »

L'incubo del voto a ottobre Vince il Pd, Grillo secondo

Se si votasse oggi 234 deputati attualmente in Parlamento si aggiungerebbero all’esercito degli «esodati». Nessuno di loro – la maggiore parte vincitore delle elezioni 2008 – avrebbe la possibilità di tornare a Montecitorio. Il grande ribaltone è certificato dall’applicazione della legge elettorale esistente al più fresco dei sondaggi politici sfornato dalla Swg il 7 giugno scorso (su www.sondaggipoliticoelettorali.it). Se sono veritiere le intenzioni di voto degli italiani, oggi vincerebbe la coalizione della foto di Vasto (Pd+Idv+Sel) e si prenderebbe una sonora bastonata una eventuale coalizione di centrodestra (Pdl+Lega+La Destra). Ce la farebbe a superare – sia pure di poco – la soglia del 10 per cento la coalizione del Terzo Polo (Udc-Fli-Api). Arriverebbe infine al 20 per cento il movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che in un solo colpo sarebbe il leader dell’opposizione parlamentare. Non ci sarebbero dubbi sulla vittoria della coalizione di Vasto, perché le distanze fra loro e i secondi sono talmente ampie da risultare incolmabili.  Ma il Parlamento risulterebbe assai più frazionato di quel che avvenne nel 2008.

Voti ridotti All’epoca chi vinse le elezioni (Silvio Berlusconi) ebbe bisogno di un premio di maggioranza di 53 seggi per arrivare ai 340 assegnati al vincitore secondo quanto previsto dal Porcellum, la legge elettorale in vigore. Oggi la differenza fra primo e secondo sarebbe molto più ampia di allora, ma i voti del vincitore assai più ridotti: ad un eventuale Pierluigi Bersani vincitore servirebbe un premio di maggioranza di 85 deputati per arrivare alla stessa necessaria quota di 340 deputati. Sia Pd che Pdl dovrebbero fare i conti con l’effetto del massiccio ingresso di grillini in Parlamento. I primi vincendo meno bene di quel che prevedevano, i secondi avviandosi a una marginalità parlamentare che mai si sarebbero immaginati. Se si votasse oggi infatti il Pd prenderebbe 213 seggi, che sono appena otto in più degli attuali (205), 14 in più se non si considera la piccola (6 deputati) pattuglia dei radicali, che questa volta avrebbero tutta la convenienza di associarsi al trio di Vasto come partito aggiunto alla coalizione (otterrebbe così 15 seggi, 9 in più degli attuali). Per restare ai vincitori il vero affare lo farebbero gli altri due partiti della foto di Vasto. Antonio Di Pietro raggiungerebbe 56 seggi, 35 più di quelli oggi alla Camera (dopo alcuni cambi di casacca dei suoi). Stessi seggi per Nichi Vendola e i suoi, che entrerebbero in Parlamento per la prima volta. Sia Idv che Sel dunque sarebbero determinanti per la maggioranza di sinistra: per fare cadere il governo basterebbe che poco più della metà di uno solo dei loro gruppi si impuntasse su un no a una decisione di politica economica, di politica estera o sulla giustizia.

Situazione difficile per chi vince dunque perfino più di quel che capitò a Romano Prodi nel 1996 e nel 2006, ma situazione davvero tragica per gli ex vincitori del 2008. Perderebbero tutti, sia quelli che sono rimasti nel centrodestra che quelli finiti nel Terzo Polo. Ma ad essere travolto un po’ dalle urne un po’ dal contrappasso di quella legge elettorale che si era inventato nel 2005 sarà soprattutto il Pdl. Al momento conquisterebbe 80 seggi alla Camera, perché con l’arrivo di Grillo sarebbe molto affollata la platea dei perdenti destinata a dividersi 278 seggi. Ottanta seggi sono 130 in meno di quelli oggi del gruppo Pdl a Montecitorio. Ma sono 151 in meno se si considera anche il gruppo di Popolo e Territorio che in parte viene dal Pdl in parte pretenderà di essere candidato in quelle fila.

Pdl sconfitto Che torni al comando Silvio Berlusconi o resti alla guida Angelino Alfano, cambia poco: nessuno di loro due sarà nemmeno il leader dell’opposizione. Carica che spetterà invece a Beppe Grillo o a uno dei suoi Pizzarotti portati in parlamento: secondo le attuali previsioni sarebbero in 104.  Il particolare non è di poco conto, perché senza quel ruolo il Pdl rischierebbe di essere nella posizione più irrilevante che il centrodestra abbia mai avuto dal 1994: il governo sarebbe in mano alla sinistra e l’opposizione sarebbe in parte interna allo stesso esecutivo (Vendola e Di Pietro), in gran parte monopolizzata da Grillo. Inevitabile la marginalizzazione fino a rischiare la scomparsa dalla scena politica. Stesso discorso per il Terzo Polo, che ha annunciato di sciogliersi senza però ricollocarsi in alcun altro posto (quindi resta ancora in piedi). Pochi danni per l’Udc di Pierferdinando Casini: 35 seggi, 3 meno di oggi. Ai minimi termini Gianfranco Fini: 16 seggi, dieci meno di oggi. Scomparso Francesco Rutelli. di Franco Bechis, Libero, 9 giugno 2012

.………….Per il centrodestra e il PDL che ne innalza la bandiera si preannuncia una catastrofe di proporzioni enormi, tale da marginalizzare il centrodestra per decenni a venire. E mentre gli unni sono alle porte, ancora nel partito che appena nel 2008, 4 anni fa, non 4 secoli addietro,  conquistava il voto della maggioranza degli italiani, si continua a cincischiare, peggio a scimmiottare  la sinistra, convocando le “primarie” per scegliere il candidato premier, invece di fare ciò che i suoi elettori chedono a gran voce: buttare in aria il governo dei tecnici che si sono rivelati per un verso tanti dilettanti allo sbaraglio e per altro verso tanti  mussolini in miniatura,  solo impegnati a fare in prima persona ciò che per decenni avevano fatto dietro le quinte del potere ufficiale: farsi i c..zi propri. Ora, a spegnere gli entusiasmi più o meno fasulli del gruppo dirigente del PDL arriva questo sondaggio schock che fa giustizia di tutte le sciocchezze che negli ultimi giorni hanno invaso i giornali, quelli nemici e anche quelli amici, ora trattati da nemici, ad opera dello stesso Berlusconi e poi di Alfano e di tutti gli altri, talmente inebetiti da non rendersi conto della ghigliottina politica che li attende appena dietro l’angolo del tempo che inesorabile cammina. Ultimo in ordine  di tempo, il commento di Alfano al colpo di mano di Monti che, come ha detto Di Pietro (cosa ci tocca fare…citare Di Pietro!), ha al posto del cervello le Banche, e quindi ha nominato presidente della Rai la vicegovernatrice della Banca d’Italia, un’altra lady di ferro!: ha detto Alfano che va benissimo…. . E la politica, e il Parlamento….? ancora una volta sono stati messi in naftalina, a fare la guardia al bidone vuoto della benzina… . compito del quale saranno incaricati proprio coloro i quali ora per conservarsi qualche mese in più di stipendio parlamentare consentono che la democrazia e il Parlamento restino commissariati. In attesa che gli elettori a loro li  mandino in pensione. g.

LA LISTA CIVICA DEI MORALISTI FURBETTI, di Stefano Zurlo

Pubblicato il 7 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

Hanno nomi che pesano. E potrebbero essere i registi o i candidati di quelle liste civiche che sono l’ultima frontiera. A destra come a sinistra. Ma a sinistra, e ci mancherebbe, con il timbro della purezza.

Ezio Mauro

Ezio Mauro, direttore di Repubblica

Solo che a guardare bene si scopre che pure loro sono inciampati, come tanti connazionali, nelle solite inchieste che macinano abusi edilizi, assegni in nero, manovre e manovrine per eludere il fisco. Il paese malato di mediocrità ha contagiato pure loro. O almeno questo raccontano atti e carte. Il codice penale c’entra fino a un certo punto. Contano semmai le schegge che sporcano l’icona, il santino universalmente venerato. Eresia? Perfino Lilli Gruber, Nostra signora di Otto e mezzo, finisce dentro una storia di violazioni, per ora presunte, delle norme ambientali ed edilizie. Capitaneria di porto e Fiamme Gialle piombano a Torre di Stelle, 30 chilometri da Cagliari, e mettono i sigilli ad alcuni manufatti. Scatta il sequestro: 90 metri quadrati di spiaggia sono coperti da uno scivolo a mare. Scandalo. La villa è quella dei Gruber, Lilli ne è comproprietaria. Lei si difende: «Non ne so nulla». Però la Guardia di Finanza è arrivata nel cortile di casa.

Integrità. Rispetto. Osservanza certosina delle norme. Siamo alle latitudini di Fulco Pratesi, guru dell’ambientalismo italiano, autore di memorabili battaglie in difesa del paesaggio. Perfetto. Ma a casa sua Pratesi non si sarebbe speso più di tanto. Siamo all’Argentario, terra da sogno. Ma un vicino di casa, Richard Cardulla, scopre un deposito di immondizia sui suoi terreni. Nasce un bisticcio sempre più feroce con Pratesi: i due si denunciano.

Pratesi esce indenne, ma la sentenza è una brutta didascalia sotto il piedistallo del monumento nazionale, due volte presidente del Wwf Italia e poi parlamentare sempre in prima linea: «Pratesi, una volta venuto a conoscenza della presenza dei rifiuti sul proprio terreno, non si è mai attivato per rimuoverli. A tal proposito – insiste il tribunale di Grosseto – stupisce la risposta del Pratesi alla domanda dove andassero a finire i rifiuti “Questo non lo so, è un vallone, non so dove vanno a finire”». Un atteggiamento incomprensibile quando la pattumiera ti arriva quasi ai piedi e deturpa un fazzoletto di terra che è un incanto. Si combatte per purificare il mondo, ma non si scorgono i rifiuti sotto il naso.

Carlo De Benedetti da sempre tuona per moralizzare tutto e tutti e, secondo le solite indiscrezioni puntualmente smentite e puntualmente riconfermate, vorrebbe lanciare un’Opa sul Pd, il partito che cerca di manipolare come plastilina. Qualche giorno fa però il gruppo L’Espresso, l’argenteria di famiglia, inciampa su una poco nobile storia di tasse e viene condannato dalla commissione tributaria regionale di Roma a pagare la stratosferica cifra di 225 milioni di euro per plusvalenze non dichiarate. La vicenda, tanto per cambiare, è ingarbugliata e la battaglia va avanti, ma per ora si deve registrare una condanna davvero pesantissima. Per un illecito che i nostri segugi hanno contestato chissà quante volte a una legione di imprenditori furbi e furbetti.

Capita. Da uno scivolone ci si può riprendere. Ezio Mauro, prestigiosissimo direttore di Repubblica, la corazzata di casa De Benedetti, è protagonista di un episodio non proprio da galateo. Nel 2000 compra un appartamento nel centro di Roma dal manager Eni Alberto Grotti. Il prezzo pattuito è 2 miliardi e 150 milioni. Problema: Mauro dimentica 850 milioni che vengono pagati con assegni da 20 milioni e uno da 10, con la sua firma. Nel 2007 Franco Bechis racconta l’episodio sul Tempo: anche il direttore di quel partito che è Repubblica avrebbe una discreta ragione per arrossire, lui che fustiga un giorno sì e l’altro pure chi imbocca scorciatoie.

Capita. Un mese fa il giudice Alessandra Cataldi ha condannato a un anno di carcere per abusi edilizi Luca Cordero di Montezemolo.

Montezemolo luccica da tutte le parti: da Italo alla Ferrari. Ma a Capri avrebbe esagerato: trasformando, con un colpo di bacchetta, un’autorimessa nella casa dei custodi. Tu quoque, strillerebbero i classici.

Perfino Michele Santoro, che nei suoi programmi ha scrutato tutto lo scibile umano, ha attraversato le sue sabbie mobili. Santoro compra una cascina su tre livelli affacciata sul golfo di Amalfi. Tutto bene? Il complesso si porterebbe dietro un peccatuccio originale: un abuso che però, a sentire gli autori di un esposto, viene condonato in velocità proprio quando sulla scena compare il conduttore tv. Coincidenze e retropensieri. Troppe volte ci siamo imbattuti in intrecci del genere. Poi la magistratura archivia. E si chiude allo stesso modo, con un’assoluzione, la pratica aperta contro l’ex ministro Vincenzo Visco, nei guai per un dammuso un po’ sporgente a Pantelleria. Sospetti per chi era al di sopra di ogni sospetto. Stefano Zurlo, Il Giornale, 7 giugno 2012

ANCHE IL LONDINESE FIANCIAL TIMES DICE: MONTI NON E ‘ CAPACE DI RISOLLEVFARE L’ITALIA

Pubblicato il 6 giugno, 2012 in Politica, Politica estera | No Comments »

Un governo litigioso, una burocrazia radicata e inestirpabile e un primo ministro focalizzato solo sulla scena internazionale“. Giudizi al vetriolo quelli che il Financial Times ha dedicato a Mario Monti.

Il presidente del Consiglio, Mario Monti

I problemi interni del BelPaese sembrano crescere e andare oltre la capacità del suo governo tecnocrate di risolverli, anche in vista dell’aggravarsi della crisi del debito nell’Eurozona: una vera e propria stroncatura.

Insomma, per il quotidiano economico londinese, il presidente del Consiglio trascura l’Italia e si concentra troppo sul resto. Ma non è l’unica critica del giornale della City. L’editoriale di Guy Dinmore pone l’accento sui dissidi in seno all’esecutivo, citando lo scontro tra il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera e i suoi colleghi di governo sul pacchetto di misure per lo sviluppo. Pacchetto utile per tirar fuori l’Italia dalla spirale recessiva, pacchetto rinviato però per la seconda volta.

Il quotidiano cita poi un funzionario governativo che, sotto anonimato, palesa i suoi timori: “Oggi è un po’ un tutti contro tutti, ho paura che si stia entrando nella fase tre della vita dell’esecutivo, quella delle recriminazioni, dopo un iniziale luna di miele e il successivo ritorno alla vita vera“.

Secondo il FT, Mario Monti ha cercato di limare le contrapposizioni interne ma un consigliere del governo, che ha chiesto di non essere identificato, ha detto che il vero problema era che il premier aveva perso interesse per le questioni interne, mentre la sua attenzione si è fissata sul suo ruolo crescente nel coordinare le risposte politiche alla crisi del debito della zona euro dall’Unione europea al Gruppo dei Sette paesi industrializzati.

L’analisi del quotidiano continua implacabile: “L’Italia è nelle mani di burocrati che stanno combattendo il cambiamento e di un primo ministro che non si decide a fare i passi decisivi”. Risultato? Un’occasione persa di fare le riforme necessarie.

Infine, conclude il Ft, “i mercati si renderanno conto ad un certo punto che l’Italia non ha fatto molto” in termini di riforme. E forse se ne sono già accorti.

Le preoccupazioni del Ft vertono sulla riforma delle pensioni, su quella del mercato del lavoro, sull’accondiscendenza di Monti nei confronti dei partiti politici e sul fatto che i piani per tagliare la spesa pubblica non siano ancora definiti. Vengono poi citati i tassi di rendimento sui Bot a 10 anni, saliti di recente di nuovo al 6 per cento, il calo di gradimento nei confronti di Monti e la pressione fiscale che comincia a farsi sentire.

Per il quotidiano finanziario “la capacità del governo di spingere importanti, ma impopolari, riforme strutturali in Parlamento si indebolirà“. Fonte Ansa, 6 giugno 2012

ECCO PERCHE’ IL JUKE BOX DI FONZIE MONTI NON SUONA PIU’, di Mario Sechi

Pubblicato il 6 giugno, 2012 in Politica | No Comments »

Il governo Monti è un gatto che si morde la coda. Chiamato a salvare l’Italia dal partito dello spread ha applicato in maniera automatica la ricetta berlinese: austerità, controllo di bilancio, tassazione e sobrietà all’italiana che si è tradotta in un bel niente, ma fa tanto elegante. L’esecutivo è partito con il loden e rischia di restare in mutande. E la colpa non è solo di Monti. Alla fine della fiera a invocarne l’arrivo sono stati i partiti che non vedevano l’ora di lavarsene le mani della gestione del Paese. Così è arrivato lui, SuperMario, onusto di gloria accademica, fluente in inglese e con il pettine incorporato, alla Arthur Fonzarelli, noto come Fonzie.
Restiamo nella metafora di Happy Days: se il juke-box non andava, Fonzie gli dava un calcio e quello ripartiva. Provate voi a dare un calcio alla spesa pubblica italiana, minimo vi porta via la scarpa. Ironia a parte, la situazione è grave e anche seria. Il crollo delle entrate tributarie fa tremare i polsi. Il problema, però, è che il gettito anemico di questi primi quattro mesi è causato anche dalla politica economica del governo. Molto rigore. Zero fantasia.
Sì, lo so, è l’economia che fa l’economia e la cancelliera Merkel è un osso duro da convincere. I tedeschi restano tedeschi: hanno distrutto l’Europa due volte con le guerre, ci stanno provando una terza con l’economia. Sul campo c’è già un morto (la Grecia) e i feriti cominciano ad essere gravi: Italia, Portogallo, Spagna, perfino la Francia zoppica e Hollande non è Napoleone.
Non so cos’altro serva per convincere un uomo intelligente come Monti che è giunta l’ora di battere i pugni e spiegare che i popoli alla fine bruciano la casa di chi li affama. I numeri del fisco suggeriscono tre cose: 1. la recessione ha cominciato a mordere sul serio e ora i cittadini se ne rendono conto; 2. bisogna cambiare rapidamente la rotta economica del governo; 3. in queste condizioni non si può cambiare l’esecutivo e le elezioni sarebbero letteralmente un disastro. Chi ha idee migliori si faccia avanti, ma se ne assuma anche la responsabilità di fronte al Paese. Mario Sechi, Il Tempo, 6 giugno 2012

..………….Su una cosa non siamo d’accordo con Sechi. Monti non può battere i pugni per la semplice ragione che non  ha pugni da battere perchè non ha idee per cui batterli. Se a una cosa sono serviti questi sei mesi di pseudo governo “forte” è di aver strappato la maschera ad un falso bravo quale  è sempre  stato “venduto”  Monti. Senza scomodare l’antico adagio secondo il quale “chi sa, fa e chi non sa, insegna” non vi era alcuna prova che Monti fosse in grado di dirigere uno Stato non avendo mai diretto nemmeno un condominio, al quale non può essere nemmeno paragonata la Bocconi dove il Rettore non è il direttore d’orchestra.   Dopo sei mesi durante i quali sono  salite alle stelle, congiutamente,  la pressione fiscale e la tensione sociale, ci ritroviamo come prima se non peggio di prima, cioè in mutande, con in più un’altra casta che si è aggiunta alle altre, cioè quella dei professori. In questi sei mesi nessun guizzo di fantasia, nessuna idea che non fosse la ripetizione delle precedenti, inclusa la stizzosa insofferenza alle critiche, sia politiche, sia, sopratutto, giornalistiche.  E nessun provvedimento, con decreto legge, che sbarraccasse la imponente impalcatura delle spese e desse luogo  ad una  sforbiciata che non fosse solo di facciata. Niente di niente. In compenso, la casta dei politici, vilmente  sottrasttasi alle sue responsabilità, ha continauto imperterrita nei suoi “affari”, supportata da un un governo tecnico che ha solo cura di fare quel che predicava Andreotti un secolo fa: tirare a campare. Perchè a tirare a morire bastano gli italiani per i quali è riservata come al solito il bastone e la carota: il bastone delle tasse e la carota della retorica  a buon mercato di Giorgetto Napolitano che dopo aver ricevuto al Qurinale duemila invitati venerdì sera per pasteggiare a parmigiano e champagne per l’anniversairo della Repubblica e  aver imitato sabato mattina  il presidente  americano portandosi la mano alla testa in un improbabile  saluto militare durante la parata militare voluta a tutti  costi nonostante i lutti dell’Emilia,   domani, finalmente, si recherà nelle terre emiliane dove 16 mila persone da due settimane  dormono sotto le tende, per dir loro che “hanno la tempra per farcela”. Se c’è qualcuno che deve battere i pugni sono gli italiani, e non s0lo i  pugni. g.

BUFERA SU MONTI E MOODY’S

Pubblicato il 5 giugno, 2012 in Economia, Giustizia, Politica | No Comments »

Sul web le voci della partecipazione del premier al board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating bollò l’Italia come “Paese a rischio”. Palazzo Chigi smentisce

Un brutto sospetto è circolato nelle ultime ore sul web. Il presidente del Consiglio Mario Monti avrebbe fatto parte del board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating tirava bordate contro l’Italia e faceva affondare l’economia del Belpaese nel baratro della recessione e della crisi economica.

Il premier Mario Monti

Adesso, proprio Moody’s è indagata, insieme a Fitch e a Standard & Poor’s, dalla procura di Trani per manipolazione di mercato. Palazzo Chigi si affretta a spiegare che il Professore è stato membro del “senior european advisory board” dell’agenzia “dal luglio 2005 al gennaio 2009, periodo in cui ricopriva l’incarico di presidente dell’Università Bocconi”.

In Italia scoppia la bufera contro le agenzie di rating. La procura di Trani sta mettendo sotto la lente di ingrandimento le accuse, i giudizi e i tagli di rating che negli ultimi anni hanno colpito il Belpaese contribuendo ad affossarne la solidità e a minarne la tenuta. Giudizi che, molto spesso, venivano comunicati a mercati ancora aperti. Tagli di rating che agli inquirenti sono sembrati un vero e proprio strumento per colpire l’Italia. Proprio oggi la sede di New York di Standard & Poor’s è stata indagata dai pm di Trani per manipolazione del mercato. È un nuovo fascicolo-stralcio che segue la chiusura delle indagini notificata nei giorni scorsi a cinque persone: l’ex presidente di S&P Deven Sharma, l’attuale responsabile per l’Europa Yann Le Pallec e i tre analisti senior del debito sovrano che firmarono i report sotto accusa Eileen Zhang, Frank Gill e Moritz Kraemer. Per quanto riguarda gli uffici italiani il pm di Trani Michele Ruggiero ha indagato l’amministratore delegato Maria Pierdicchi. Nel mirino le ore immediatamente precedenti la comunicazione ufficiale di S&P sul taglio di due gradini del rating al debito sovrano dell’Italia del 13 gennaio scorso: da A a BBB+.

Sulle stesse agenzie di rating i pm di Trani stanno indagando dal 2010 dopo la denuncia congiunta di Adusbef e Federconsumatori. Il 6 maggio del 2010 un report pubblicato da Moody’s bollava l’Italia come “Paese a rischio”. Da quella denuncia l’inchiesta si è allargata a Fitch e Standard & Poor’s per i giudizi che hanno contribuito a far precipitare la situazione politica fino alle dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. D’altra parte l’ex premier ha ripetuto più volte di aver lasciato la presidenza del Consiglio per il bene del Paese. Sei mesi dopo l’attacco di Moody’s, Mario Monti diventava premier e sul web è stata ventilata da diversi blog l’ipotesi (rilanciata dal sito Dagospia) che il Professore potesse finire coinvolto nell’indagine di Trani. Palazzo Chigi ha subito spiegato che la partecipazione di Monti al board di Moody’s comportava “la partecipazione a due-tre riunioni all’anno”, dal luglio 2005 al gennaio 2009, che non avevano per oggetto, “neppure in via indiretta”, la valutazione di stati o imprese sotto il profilo del rating.

Contattati in mattinata, gli uffici londinesi di Moody’s non ci hanno ancora fatto sapere il ruolo di Monti all’interno dell’agenzia: dopo averci chiesto il motivo del nostro interesse sul ruolo del Prof dentro a Moody’s, sono scomparsi nel nulla. Restiamo in attesa di una risposta ufficiale. Ad ogni modo, presa per buona la smentita di Palazzo Chigi, resta comunque che dal 2005 il Professore era “international advisor” per la Goldman Sachs, una delle più potenti banche del mondo che ha contribuito a mettere in ginocchio l’economia greca. Ma questa è tutta un’altra storia. Forse. Andrea Intini, Il Giornale, 5 giugno 2012

.…………..Quando tuona, piove, recita un vecchio adagio. Aspettiamo per vedere in quali mani ci hanno messo un pugno di politici vili e sprovveduti. g.

I MORTI NON PARLANO: RITRATTO A TUTTO TONDO DEL NEO (E VECCHIO) SINDACO DI PALERMO E DEL SUO INCUBO, GIOVANNI FALCONE

Pubblicato il 4 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

Si potrebbe senz’altro definire Leoluca Orlando «vecchio arnese della politica», se la parola «arnese» non evocasse qualcosa di utile, cosa che il politico palermitano non è mai stato. Naturalmente dotato fin da giovane – prese la migliore maturità d’Italia del suo anno – ha sempre rovinato tutto per il suo troppo odiare e spargere veleni. Rieletto ora sindaco di Palermo per la quarta volta, dopo un lungo purgatorio, Orlando si è riallacciato al quindicennio, 1985-2000, in cui dominò la scena cittadina. Prosperò nelle brighe.

Si autopromosse denigrando i rivali. Se non gradiva il risultato di un’elezione accusava l’avversario di brogli elettorali o di avere rastrellato voti mafiosi. Usò il metodo anche con il socialista Claudio Martelli che nel 1987, per capriccio, si fece eleggere alla Camera a Palermo. Martelli se lo legò al dito e quando Orlando, nel ‘93, fu rieletto sindaco gli dimostrò che era stato votatissimo nei quartieri più coppoluti: Kalsa, Zen, Ciaculli. Leoluca fece spallucce, perché quello che vale per gli altri non vale per sé, e continuò metodicamente a «mascariare» il prossimo.

Tuttora, che ha 65 anni (in agosto), non ha perso il vizio. A marzo invalidò, nella sostanza, le primarie palermitane della sinistra, gridando come un ossesso, «brogli, brogli» senza averne le prove. Con questa scusa, si è autocandidato sindaco contro il vincitore della lizza e suo ex pupillo, Fabrizio Ferrandelli e ha vinto con il 72,4 per cento dei voti contro il 27,5 di Ferrandelli. Senz’altro un trionfo sull’avversario, ma un fiasco in termini assoluti. Essendo stata l’affluenza inferiore al 40 per cento, ne deriva infatti che solo il 28 per cento degli aventi diritto ha votato Orlando e che il restante 72 si è ben guardato dal farlo.

Questo ripudio di una parte cospicua della città è la sola attenuante che i concittadini di Giovanni Falcone possono invocare per avere scelto come sindaco il suo nemico più subdolo. L’elezione di Orlando è infatti uno schiaffo alla memoria del giudice ucciso.
Per non dimenticare. La sera del 17 maggio 1990, il faccione di Leoluca, anche allora sindaco, fece capolino nella trasmissione Samarcanda di Michele Santoro. L’ospite mise il solito broncio da intrigante e sparò: «Il giudice Falcone nasconde le carte nel cassetto». L’accusa si riferiva a un episodio dell’anno prima: i presunti favori di Falcone ad Andreotti e ai suoi uomini in Sicilia, Salvo Lima, in primis.

All’osso, il sindaco col ciuffo sosteneva che il Divo Giulio fosse «punciutu», cioé avesse stretto con i mafiosi il patto di sangue- dito bucato contro dito- e che affiliati fossero i suoi amici politici. La colpa di Falcone invece – sempre ai suoi occhi – era di non essersi lasciato infinocchiare da un mafioso, certo Giuseppe Pellegriti, pseudo pentito che godeva però della piena fiducia di Leoluca. Costui aveva «rivelato» che fu Lima a ordinare l’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto nell’80.

Falcone capì al volo la panzana e incriminò Pellegriti per calunnia. Ciò scatenò la rabbia del sindaco e dei suoi professionisti antimafia che volevano invece incastrare gli andreottiani e avevano passato il tempo a catechizzare Pellegriti (come rivelerà Falcone al Csm). Questo l’antefatto della «denuncia» di Orlando allo show di Santoro, in cui l’interessato fu aggredito in sua assenza e contro il principio di lealtà.

L’accusa mise Falcone nelle peste. Il giudice che da anni era l’icona della lotta alle cosche viveva un momento delicato. Preso di mira per il suo rigore dai fanatici che confluiranno nella Rete (il partito orlandiano), finì nel tritacarne della «primavera» di Palermo, l’orrida stagione dominata dal duo Orlando- Padre Pintacuda al motto imbecille: «Il sospetto è l’anticamera della verità».

Al punto che perfino l’attentato alla villetta all’Addaura, di cui Falcone fu vittima, si ritorse contro di lui. Sventato con la scoperta in extremis della carica di tritolo, il giudice ne trasse due indizi: che la mafia lo voleva morto e che tentava di ucciderlo adesso perché lo considerava più vulnerabile. Gli orlandiani sparsero la voce che era stata una messinscena di Falcone. La figura di Falcone, più che specchiata fino allora, perdeva smalto. Il Csm volle vederci chiaro e convocò il giudice a Roma.

La seduta si tenne il 15 ottobre 1991. In mezza giornata, di fronte a un sinedrio attento, Falcone smontò la trappola, fece alcune rivelazioni e inchiodò Orlando con alcuni giudizi che lo dipingono per l’eternità.«Orlando-disse-sarà costretto a spararle ogni giorno più grosse. Lui e i suoi sono disposti anche a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura». Spiegò che, contrariamente alle accuse del sindaco, «nei cassetti non c’erano prove, perché ormai erano stati tutti svuotati» e gli eventuali accantonamenti erano solo «indagini fatte male».

Se poi il sindaco si è incattivito, è perché non ha digerito l’arresto di Vito Ciancimino, il mafioso. Ma come proprio Orlando, che dell’antimafia ha fatto una religione, prende cappello se sbattono don Vito in gattabuia? Eh sì, rivela Falcone- e questa è davvero bella- «perché nonostante un sindaco come Orlando (ironia?, ndr ) la situazione degli appalti a Palermo continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare sottobanco…». Ecco, dunque, messi a nudo gli altarini: Leoluca ce l’aveva col giudice perché gli aveva arrestato il Cianci. Oltre, naturalmente, avergli mandato a monte il piano contro Andreotti.

Verso la fine dell’udienza,il giudice fa un affresco della Palermo del duo Orlando-Pintacuda. «Non si può andare avanti in questa maniera… è un linciaggio morale continuo… Facendo come fanno loro le conseguenze saranno incalcolabili. Ma veramente incalcolabili». Le ultime parole dell’arringa sono da incidere nel bronzo: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità; la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo». Poi, prima di lasciar il Csm, il giudice aggiunse stancamente, senza sapere – o forse sì? – quanto fosse profetico: «Mi stanno delegittimando. Cosa Nostra fa così: prima insozza la vittima, poi la fa fuori».

Falcone morì sette mesi dopo, il 23 maggio 1992, dilaniato con moglie e scorta dall’ordigno di Capaci. Orlando andò al funerale, ciuffo in doglie e aria del cane bastonato. Sul sagrato della chiesa, Maria Falcone, sorella dell’ucciso, lo affrontò: «Hai infangato il nome, la dignità, l’onorabilità di un giudice integerrimo».

E gli girò le spalle. Leoluca piagnucolò: «È una cosa che mi fa molto male». Di Orlando ci sarebbe molto altro da dire. Ma ho preferito utilizzare lo spazio per riassumere la vera storia tra lui e Falcone. Chi oggi li accomuna, come se fossero stati sulla stessa barricata, mente. I morti non parlano ed è sul silenzio di Falcone che retori e scribacchini hanno creato il gemellaggio fasullo del giudice e del sindaco, mettendoli sullo stesso altare. Chi è dalla parte di Falcone non può stare con Orlando. Ecco perché la scelta elettorale di Palermo è un brutto indizio. Giancarlo Perna, Il Giornale, 4 giugno 2012

LE PAZZE IDEE DI BERLUSCONI? SONO LE MIGLIORI DI CUI DISPONE IL PDL, di Francesco Damato

Pubblicato il 4 giugno, 2012 in Politica | No Comments »

Quel richiamo di Silvio Berlusconi, ieri, alle «cento battaglie» combattute per raccogliere «vittorie e sconfitte, come sempre è nella politica e nella vita», ha forse indotto qualcuno dei suoi tanti avversari, rimasti numerosi anche dopo i passi indietro o di lato da lui compiuti negli ultimi mesi, a chiedersi a quale Napoleone poterlo paragonare. A quello dell’Elba, per niente rassegnato alla disfatta e impegnato a tentare la sua disperata rivincita, destinata però a durare i soli e famosi cento giorni? O a quello di Sant’Elena, confinato in un’isola troppo lontana per fargli venire l’idea di rimettersi in gioco?
Di emuli di Napoleone, a loro stessa insaputa, già il buon Giulio Andreotti negli anni più fortunati e disincantati della sua lunga esperienza politica soleva ogni tanto segnalare sarcasticamente la presenza per contrapporre ai loro sogni di gloria la concretezza della sua «aurea mediocrità», come lui stesso si divertiva a definirla. Tra i napoleonidi egli soleva classificare, fra gli altri, quelli che nella sua Dc reclamavano la fine delle correnti o nei giornali, oltre che nelle stazioni, una gestione delle Ferrovie dello Stato finalmente capace di fare arrivare e partire i treni in orario anche in Italia. Dove lui si accontentava che i ritardi si riducessero il più possibile. Che era un po’ l’anticipo di quella filosofia di governo per cui «è meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
A questa filosofia è toccato di adattarsi qualche volta, se non spesso, anche a napoleonidi più o meno avvertiti o autentici, compreso il Cavaliere, almeno nella percezione dei suoi avversari o critici più acrimoniosi. Che proprio per questa sua disponibilità all’adattamento anche alle circostanze più sfortunate e scomode dovrebbero smetterla di scambiarlo per quello che non è, e neppure lui si sente, anche quando glielo dicono con il loro affetto ingenuo i nipotini ricevendone promesse e regali: un superman, visto che non hanno l’età per conoscere la storia di Napoleone e immaginare il nonno come un suo emulo. Arrivato alla politica e alla guida del governo diciotto anni fa proponendosi di rivoltare la prima e il secondo come un calzino, con un’opera di riforma finalmente radicale dello Stato, in un momento peraltro tanto drammatico quanto inquietante, essendosi proposti di rivoltare il Paese appunto come un calzino anche i magistrati della Procura di Milano, imitati da un numero crescente di colleghi e di uffici, Berlusconi ha dovuto poco napoleonicamente fermarsi o arretrare più volte. E ciò è accaduto per i suoi errori, di certo, come gli abbiamo ripetutamente rimproverato anche noi, qui, a Il Tempo, pur apprezzandone i progetti politici e la buona volontà. Ma anche, e spesso soprattutto, per i limiti dei suoi alleati. Fra i quali i leghisti, messisi di traverso nella scorsa estate sulla strada delle misure necessarie per fronteggiare la crisi economica e finanziaria, sono stati solo gli ultimi, non gli unici. Preceduti in anni non proprio lontani dalla destra di Gianfranco Fini e dai centristi di Pier Ferdinando Casini, che quando stavano con il Cavaliere gli impedirono, fra l’altro, la riduzione delle tasse e il contenimento della spesa pubblica, per esempio nel settore del pubblico impiego. Adesso tutto è peggiorato. Il Pdl è in crisi, quasi in evaporazione, anche se Berlusconi non se lo vuole sentir dire, ritenendo forse sufficiente che a saperlo sia lui. Che sa pure di non avere più personalmente il vento sulle vele, neppure quando cerca di soffiarlo con battute e «idee pazze», per ripetere le sue stesse parole, come quella di stampare euro per conto nostro o di uscirne, vista la vita impossibile che vuole propinare all’Europa la cancelliera tedesca fra le proteste e le preoccupazioni dei suoi stessi predecessori. Ma, per quanto «pazze», per quanto fantasiose, per quanto provocatorie, per quanto pronunciate nei panni di «allenatore» e non più di centravanti o capitano della sua squadra, scendendo alle immagini calcistiche che gli sono care e congeniali, quelle di Berlusconi continuano ad essere le sole, o le migliori, di cui disponga il Pdl. E Dio solo sa se potranno bastare a tirare fuori il partito ancora più rappresentato in Parlamento dal drammatico dilemma che il Cavaliere ieri, da uomo «positivo e costruttivo», ha voluto rifiutare contestando sia chi lo spinge a fare piazza pulita di tutto il «gruppo dirigente» sia chi spinge quest’ultimo a fare finalmente piazza pulita di lui. Il Tempo, Francesco Damato, 4 giugno 2012

.…………..Questa di Damato è una fotografia nitida di ciò che è stato e di ciò che è Berlusconi. Nella foto ci sono, insieme alui, tanti altri, citati o no. Ciascuno di questi altri se è senza peccato nell’agonia del centrodestra italiano, al netto di nani,ballerine (come la Fornero) e aspiranti primi attori,  tiri la classica prima pietra. g.

PUO’ LA POLITICA DICHIARARSI AUTONOMA DALLA MORALE? SECONDO IL LIBERAL DEMOCRATICO oSTELLINO SI, DI DIVERSO AVVISO MASSIMO FINI CHE SCRIVE…

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Costume, Politica | No Comments »

In un pensoso articolo pubblicato sul Corriere del 20/5 Piero Ostellino ci spiega, in termini filosofici, la storia italiana degli ultimi decenni. È stato grazie all’”autonomia della politica dalla morale” (linea culturale che nel nostro Paese ha una lunga tradizione da Machiavelli a Croce) se l’Italia ha potuto progredire e prosperare attraverso, “piaccia o non piaccia”, l’evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, l’illegalità diffusa.

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Insomma la politica ha affermato il primato del “principio di realtà“, di ciò che effettivamente è, sul moralismo, così lo chiama Ostellino, del “dover essere”. A parte che non si vede alcuna ragione ragionevole per cui questa “autonomia dalla morale” spetti solo alla politica e non anche al singolo individuo nel perseguimento dei suoi interessi, il discorso di Ostellino, gli piaccia o no, è prettamente hegeliano: “Tutto ciò che è reale è razionale”.

PIERO OSTELLINO - Copyright PizziPIERO OSTELLINO -

E quindi finché rimane tale deve prevalere su ogni altra considerazione se non si vuole andare a sbattere il muso contro “le dure repliche della Storia”. Solo che questa primazia del “principio di realtà” sulla morale (che in politica estera prende il nome di “real politik”) porta molto lontano. Porta al grido disperato di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”.

Se non c’è Dio, se non c’è un principio superiore, religioso o laico che sia, che regoli i rapporti fra umani al di fuori e al di là del “principio di realtà“, tutto diventa lecito. Perché mai Hitler non avrebbe dovuto, in nome di quel principio, sterminare gli ebrei, padroni della finanza tedesca, fino al loro ultimo discendente? Perché non si dovrebbero ammazzare, se ciò viene comodo, bambini siriani o afghani?

Perché, più modestamente, non si dovrebbe rubare, taglieggiare, corrompere se questo aiuta, poniamo, l’economia? La questione da etica diventa puramente estetica. Non è bello rubare, non è bello inchiappettare i bambini, non è bello stuprare, ma se non esiste la morale, se è il “principio di realtà“, che è poi il diritto del più forte, a dover prevalere, in nome di che dovrei impedirmi di soddisfare i miei appetiti?

NietzscheNietzsche

Il mio non è un discorso moralistico e nemmeno morale. Friedrich Nietzsche, in Genealogia della morale, ha splendidamente spiegato che la morale non ha nulla a che fare con la morale. Ma con l’utilità. Nasce perché gli uomini seguendo liberamente i propri appetiti non si massacrino l’un l’altro (“homo homini lupus”) finendo così per autodistruggersi e per distruggere la comunità in cui vivono. Che è proprio il contrario dell’individualismo sfrenato, liberaldemocratico, sostenuto da Ostellino.

Una comunità non si sostiene e sopravvive solo sul principio di Libertà ma anche, e forse soprattutto, su quello di Autorità senza il quale si dissolve. La diarchia Libertà/Autorità non è così pacificamente scioglibile a favore della prima come noi crediamo. Fedor Dostoevskij nell’apologo de Il Grande Inquisitore inserito ne I fratelli Karamazov, ha messo a fuoco questo eterno dilemma in trenta straordinarie pagine che restano le più profonde dedicate alla questione.

Ma per scendere dall’empireo dei Grandi sulla terra, cioè su questa povera, indecente, inguardabile Italia, vale ciò che disse venti anni fa in Tv l’infinitamente più modesto Beppe Grillo e che gli costò la cacciata dalla Rai: “Se tutti rubano non resta più nessuno a cui rubare”.

Non c’è più trippa per i gatti. Ed è esattamente la situazione in cui, grazie anche alle elucubrazioni di Ostellino e di tutti gli innumerevoli Ostellini di questo Paese, siamo precipitati. Massimo Fini, Il Fatto quotidiano, 2 giugno 2012

……………..Ha ragione Massimo Fini, pur nella estremizzazione della interpretazione del pensiero di Ostellino che di certo non pensa che Hitler abbia potuto trovare giustificaizoni nel genocidio degli ebrei