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……E’ una denucia tanto drammatica quanto circostanziata. Qualcuno, ai piani alti del Campidoglio si darà una mossa? D’altra parte, quel che accade a Roma è in grande ciò che accade ovunque, dal più grande al più piccolo dei comuni della nostra Repubblica, non più fondata sul lavoro ma sul malaffare e sulla cui bandiera, accanto al longanesiano motto “tengo famiglia” è stato aggiunto l’altro: “chi non ruba coglione è”. Ne è meno drammatica l’altra denuncia di Galli della Loggia allorquando evidenzia che in Campidoglio oramai non siede più una classe dirigente “onorevole” (ai consiglieri comunali di Roma spetta da sempre il titolo di “onorevole”) ma quella che nasce e vivacchia ai bordi della politica, che di politica vuol vivere e che della politica si serve senza usarla per il bene comune. In anni ormai lontani abbiamo conosciuto molti consiglieri comunali di Roma, ne ricordiamo uno con grande affetto, il prof. Nicola Trani, oriundo di Altamura, oratore fervido e fluente, spesso partecipe di manifestazini pubbliche nelle nostre piazza, che viveva il suo ruolo con una passione e una dedizione fuori del comune ma anche con altrettanta modestia perchè si considerava non un privilegiato ma un servitore della città che lo ospitava che egli serviva con spirito di servizio. Proprio l’altro ieri Pino Pisicchio, un giovane vecchio della politica che abbiamo sempre ammirato, in una intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, presentando il suo ultimo saggio intorno allo stessa tema, sottolineava come, senza volerla rimpiangere, nella prima repubblica le classi dirigenti si formavano nelle sezioni di partito, imparando dal basso l’azione della politica per giungere ai piani più alti con l’esperienza utile al governo della cosa pubblica nel suo accento più eticamente alto: servire ed operare per il bene comune. Oggi la politica è solo uno strumento per ottenere privilegi e vantaggi, utilizzato o da spregiudicati vagabondi che mirano solo a vantaggi personali o da ridicoli comparse che spesso considerano la politica un palcoscenico dove esibirsi per soddisfare la propria vanità (ci viene in mente una certa assessora che produce incontri per lo più riservati a pochi amici e compari al solo scopo di stampare il proprio nome in fondo a locandine che nessuno legge e che un giorno o l’altro metterà la firma anche in fondo ad un rotolo di carta igienica) senza alcun beneficio per la comunità. Per chi, e sono tanti, i più, la politica l’ha amata e vissuta con grande passione e profonda onestà , per chi l’ha sempre considerata non uno stuemento per se stesso ma per servire la comunità è una cocente delusione dover prendere atto di quanto denuncia oggi Galli della Loggia e ogni giorno ci raccontano le cronache dei giornali e delle tv, e ancor più spesso quelle giudiziarie, queste ultime sempre più frequenti anche di quelle gornalistiche. g.
DOPO IL CASO LUPI: DUE PESI E DUE MISURE, di Antonio Polito
Pubblicato il 21 marzo, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »
Maurizio Lupi, ministro della Repubblica, non indagato, dimesso. Vincenzo De Luca, candidato governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso di ufficio, non dimesso. Francesca Barracciu, indagata, candidata governatore della Sardegna, dimessa; poi promossa sottosegretario (insieme ad altri tre sottosegretari indagati, sulla cui posizione pare che il premier stia ora riflettendo). Nunzia De Girolamo, ministro, all’epoca non indagata, dimessa.
Ce n’è abbastanza per chiedersi se esista un nuovo codice non scritto per il trattamento dei politici che finiscono negli scandali, e chi l’abbia scritto. Di certo quello vecchio è caduto in disuso. All’epoca di Tangentopoli bastava un avviso di garanzia per tagliare la testa a un membro del governo. Ma anche dopo, nella Seconda Repubblica, vigeva una prassi che potremmo definire sì «giustizialista», ma regolata. In sostanza consisteva nell’affidare ai pm e ai giudici la selezione della classe dirigente: a ogni provvedimento giurisdizionale seguiva una più o meno adeguata sanzione politica. Prassi poi codificata in legge con la Severino, che fissa nella prima condanna il limite oltre il quale scattano le punizioni, cominciando con la sospensione per finire con la decadenza in caso di sentenza definitiva.
Ma oggi, nell’era Renzi, la Severino è contestata per eccessiva rigidità, e infatti pur condannato De Luca si candida; mentre sembra essersi alzata la soglia di tolleranza per i non indagati. La spiegazione potrebbe essere nello strapotere del premier: in realtà si dimette solo chi decide lui. E qualcuno perciò lo accusa di colpire di preferenza gli scandali degli altri, e di coprire quelli più vicini a lui; un classico caso di due pesi e due misure. Ma neanche questo sembra essere del tutto vero, perché fu Renzi a far dimettere il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, democratico, indagato, che non ne aveva alcuna voglia. Qual è allora il nuovo criterio?
Io credo che sia l’umore dell’opinione pubblica, di cui Renzi si considera un buon medium. Nel senso che il premier usa come metro morale il suo gradimento politico: se una condanna può essere perdonata dagli elettori (nel caso di De Luca, per esempio, parrebbe di sì, visto che ha vinto le primarie) lui lascia perdere, se capisce che può arrecargli un danno serio nel suo rapporto con l’opinione pubblica, come nel caso di Lupi, diventa inflessibile.
È un metodo a suo modo politico, certo più di quello giustizialista che non si può davvero rimpiangere; ma senza regole, e molto arbitrario. Soprattutto perché dipende da circostanze e dettagli casuali, spesso senza rilevanza penale, che possono molto influenzare l’opinione pubblica se sono mediaticamente efficaci. Un Rolex in regalo, per esempio, un abito di sartoria in offerta, un modo di parlare sgradevole o volgare al telefono, valgono mille condanne penali nel tribunale del popolo e dei media. E non è certo una novità. Berlusconi ha pagato molto di più in termini di consenso e di credibilità per il caso Ruby, nel quale è stato assolto, che nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato.
È un processo tipico delle società di massa, ma pieno di incognite. Se infatti un’intercettazione è più importante di una sentenza, e diventa decisivo se farla conoscere o no, per riassunto o testuale, e il momento dell’inchiesta in cui la si rende pubblica, allora rischiamo che la lotta politica condizioni il corso della giustizia, invece che la giustizia influenzi la politica come avveniva vent’anni fa. Un giustizialismo alla rovescia, esercitato dalla piazza invece che dal tribunale. Non so se è meglio. Fu una piazza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 21 marzo 2105
……..Ci gira intorno, Polito, ma la sostanza del problema è che Renzi decide chi deve soggiacere e chi no al giustizialismo edizione 2015. E’ valso per Lupi, non indagato, la regola del “prodomosua” cioè di Renzi che oramai è l’unica regola a cui si attiene il capo del Pd e il capo del governo. Già questa anomalia, il doppio incarico, la dice lunga sulla situazione italiana. Chi non ricorda, ai tempi della DC, la furibonda guerra che si scatenò all’interno della Balena Bianca quando De Mua, segretaro della DC, ebbe l’incarico di formare il governo, succedendo a Craxi fatto sloggiare da palazzo Chigi? I demitiani volevano che De Mita mantenesse il doppio ncarico, forse temendo, a ragione che il loro capo averbbe perso nel tempo tutti e due gli incarichi. Avevano ragione perchè così andò! Ma regola della incompatibilità del doppio incarico – segretario e premier – era una antica tradizione democristiana – solo Fanfani li aveva tenuti entrambi ma per pochiossimo tempo - e quella regola prevalase, giustamente, anche nel caso di De Mita. Del resto anche nel partito post comunista questa regola fu osservata allorquando D’Alema segretario, lasciò la carica per fare il premier. Invece Renzi, giunto a Palazzo Chigi dopo aver fatto sloggiare Letta con un post su twitter, si autò segnalò quale successore di Letta e si guardò bene dal lasciare il posto di segretario, senza che nessuno, all’interno del suo partito, glielo contestasse. Questa anomalia, il ruolo di controllore-controllato (qualcuno rilegga in proposito un piccolo saggio degli anni 70 del secolo scorso che reca la firma di Pinuccio Tatarella) gli consente ora di spradoneggiare a suo piacimento decidendo, come se ci si trovasse ancora nell’assemblea francese postrivoluzione, chi deve morire e chi deve essere salvato, usando a questo riguardo, come parrebbe sostenere Polito, solo l’umore della folla, ovviamente utilizzato da Renzi solo a proprio favore. Ma non è così. Renzi decide solo in base al suo personale interesse che osa far coincidere con il suo di interesse. Tutto ciò più che apriree la strada ad un regime, apre la strada all’ulteriore arretramento del Paese a danno dei cittadini. g.
LE DIMISSIONI DI LUPI PER OPPORTUNITA’ POLITICA APRE LA STRADA AL PEGGIOR GIUSTIZIALISMO, di Claudio Cerasa
Pubblicato il 20 marzo, 2015 in Politica | No Comments »
Mettiamola giù chiara. Era inevitabile che Maurizio Lupi si dimettesse, come ha annunciato ieri e come farà oggi, e non poteva che andare così per un ministro che non aveva più la fiducia del presidente del Consiglio, che non veniva più difeso da nessun ministro del governo e che non veniva neppure sostenuto nemmeno da un mondo in teoria amico, come quello della Cei, non può che prendere atto del nuovo sfavorevole contesto politico. Le cose sono andate così a causa di una serie di fatti.
Tutti da verificare, resi pubblici da intercettazioni che solo in un paese barbaro possono essere diffuse senza che nessuno si chieda se sia normale che una persona non indagata finisca nei brogliacci di un’inchiesta. E anche a causa delle ricostruzioni imprecise e non veritiere offerte dal ministro Lupi.
Ma una volta registrate quelle che saranno le conseguenze dell’inchiesta della procura di Firenze, è giusto spendere due parole sul metodo Renzi e sugli effetti, non solo politici, che verranno innescati dal caso Lupi. Renzi dovrà essere bravo a spiegare le ragioni che hanno portato al passo indietro di un ministro a cui sono state chieste le dimissioni per questioni di “opportunità politica”.
Il perimetro dell’opportunità politica, come si sa, è un confine delimitato non in modo chiaro, specie in un paese come il nostro che vive in un contesto dominato dalla dittatura dell’intercettazione. Se Renzi accetta, come sta accettando, l’idea che per fare un passo indietro sia sufficiente essere mascariati, accetta un principio che si potrebbe ritorcere contro persino a lui; e accetta di aprire una nuova fase della rottamazione, delicata e contraddittoria.
Il punto è semplice: Renzi è consapevole che, in un paese come il nostro, far dimettere per questioni di opportunità politica un ministro che ha scelto di non dimettersi per questioni di opportunità politica è un precedente che consegna alla magistratura, e ai giocolieri delle intercettazioni, potere di vita e di morte su questo governo, e su ogni governo, e forse anche sullo stesso Renzi?
Tempo fa, ai tempi della sentenza di condanna in Appello a carico di Vasco Errani, il Rottamatore, dialogando con il direttore di questo giornale, aveva tenuto a precisare che mai e poi mai il suo governo si sarebbe fatto dettare l’agenda dalle procure, perché “finché non c’è sentenza passata in giudicato un cittadino è innocente: si chiama garantismo”.
Principio sacrosanto e in discontinuità con un passato in cui la politica ha accettato che a fare e disfare i governi fosse la magistratura (fino ad arrivare al punto, con la legge Severino, di dare ai pm il potere di scegliere le liste elettorali). Ma è un principio che oggi Renzi contraddice. Un principio che porta il governo a considerare colpevole fino a prova contraria un ministro non infallibile come Lupi (ed essendo il suo un processo mediatico, le dimissioni non potevano che avvenire così, ieri: in diretta tv) e un burocrate come Ercole Incalza (che promette di dare grandi delusioni ai campioni del giustizialismo chiodato).
E un principio che in futuro potrebbe mettere lo stesso premier nelle condizioni di far scegliere al circo giudiziario le persone che meritano di far parte del governo. E un domani, con il criterio adottato su Lupi, persino l’innocuo gesto di farsi prestare la casa da un amico potrebbe diventare argomento di opportunità politica. Chissà se Renzi se ne rende conto fino in fondo. Claudio Cerasa, Il Foglio, 20 marzo 2015
…..Cerasa è il Direttore de Il Foglio, dopo la rinuncia alla direzione di Giuliano Ferrara che rimane però riferimento politico-culturale del quotidiano. Ferrara è il miglior supporter di Renzi da destra, per cui l’editoriale di Cerasa dve leggersi come un ammonimento a Renzi a non strafare. Come ha fatto in questa occasione, di fatto premendo sulle dimisisoni di Lupi che sino a prova contraria non è indagato ed è vittima di una squallida abitudine tutta itasliana di pubblicare intercettazioni che non hanno valenza penale ma mirano solo a destabilizzare. In questo caso più che a destabilizzare sono servite a Renzi a far saltare un ministro non PD dalla poltrona cui da sempre ambisce il PD, o meglio lo stesso Renzi che per il momento si è attribuito l’interim. Ora, questo l’avertimento di Cerasa, servirsi della teoria dell’opportunità politica, cioè di un qualcosa di impakpabile e buon o bruitto per tutti, è un errore, anzi è un rischio. E giusto per non mandara a dire, Cerasa richiama alla memoria il caso della casa affittata da Renzi da ujn sui amico di lunga data, ora destinatario di ben retribuite opprtunità di lavoro di nomina politica. Come dire, sembra di capire, di 2non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”. Capirà il messaggio Renzi? Vedremo. g.
LE RIFORME ANNUNCIATE: IL TESTO SEGUIRA’ CON CALMA, di Michele Ainis
Pubblicato il 14 marzo, 2015 in Politica | No Comments »
La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Longanesi. In Italia, anche la madre delle leggi. Perché ne abbiamo troppe in circolo, e per lo più sconclusionate.Solo che da un po’ di tempo in qua il parto dura più della stessa gravidanza. Ciclicamente il governo annunzia il lieto evento, appende un fiocco rosa sull’uscio di Palazzo Chigi, convoca parenti e conoscenti. Tu corri, tendendo l’orecchio per ascoltare i primivagiti dell’infante. Invece risuona un’evocazione, un presagio, un desiderio. La legge non c’è, non c’è ancora un testo. C’è soltanto un pretesto.
Le prove? Sono conservate nei verbali del Consiglio dei ministri. Scuola: annunci al quadrato e al cubo durante i geli dell’inverno, finché il 3 marzo sbuca la notizia: il governo ha approvato le slide , evidentemente una nuova fonte del diritto. In compenso 9 giorni dopo approva pure un testo, che però è più misterioso del segreto di Fatima.O della spending review : difatti i report di Cottarelli non sono mai stati resi pubblici. Riforma della Rai: batti e ribatti, poi il 12 marzo via libera alle linee guida, altra nuova fonte del diritto. Falso in bilancio: sul Parlamento incombe da settimane l’emendamento del ministro Orlando. Nessuno l’ha letto, forse perché lui non lo ha mai scritto. Jobs act:il 20 febbraio il Consiglio dei ministri timbra due schemi di decreto, le commissioni parlamentari competenti non li hanno ancora ricevuti . E via via, dal Fisco (il 24 dicembre venne approvato un comunicato, non un testo) alla legge di Stabilità (che si materializzò una settimana dopo la sua deliberazione, peraltro senza la bollinatura della Ragioneria generale).
A leggere la Costituzione (documento non ancora secretato), due sono gli strumenti con cui il governo ci governa. Con i disegni di legge, che però sono diventati più imperscrutabili dei disegni divini. Con i decreti legge, sempre che ne ricorra l’urgenza. Tuttavia quest’ultima viene a sua volta contraddetta dalle doglie interminabili con cui nasce ogni provvedimento. Per esempio i due decreti (quello sulla giustizia e lo sblocca Italia) decisi lo scorso 29 agosto, ma ricevuti dal Quirinale il 12 settembre. O il decreto Madia sulla Pubblica amministrazione, deliberato il 13 giugno e poi tenuto per altri 11 giorni in naftalina. Nel frattempo accade che i ministri radunati nel Consiglio votino non su un testo bensì su un titolo, approvato «salvo intese» (fra chi?). Che altri ministri annuncino modifiche a norme inesistenti, perché non ancora emanate dal capo dello Stato (Orlando il 6 settembre, a proposito del decreto sulla giustizia). Che gli studenti scendano in piazza contro la Buona scuola, pur essendo una riforma ancora senza forma.
Insomma troppe grida, da una parte e dall’altra. Nel 1979 il Rapporto Giannini denunziò le «grida in forma di legge», ossia il pessimo costume di confezionare norme inapplicabili. Oggi denunzierebbe le grida in forma di prelegge. Però un rimedio c’è, basta volerlo. Come prossimo ministro, Renzi ha bisogno di un ostetrico. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 14 marzo 2015
TUTTI GLI USI IMPROPRI DI UN VERDETTO, di Antonio Polito
Pubblicato il 12 marzo, 2015 in Politica | No Comments »
S i sa che le sentenze in Italia si rispettano a intermittenza, dipende da se ci piacciono o no.
Ma quella della Cassazione che ha confermato l’assoluzione di Berlusconi merita di essere protetta dai rischi di sfruttamento politico. Il primo consiste nell’atteggiamento di chi non l’accetta, cavilla, azzecca garbugli, si rifiuta di considerare chiusa, come invece è, la vicenda giudiziaria detta «caso Ruby». Curiosamente sono proprio i più inflessibili difensori della magistratura quelli che oggifaticano a riconoscere che il giudice supremo ha dichiarato Berlusconi definitivamente innocente delle due accuse che gli erano state mosse,senza se e senza ma. La Procura di Milano ha perso, la difesa ha vinto. Punto.Ed è aberrante invocare ora da altri processi, in cui pure resta coinvolto Berlusconi, una speranza di rivincita, come se fossero una partita di ritorno di Champions League. D’altra parte l’assoluzione in sedepenale non assolve certo l’allora presidente del Consiglio dalla responsabilità politica e personale di aver ospitato «atti di prostituzione» a casa sua, cosa che anche la difesa ha riconosciuto in Cassazione.
L’altro uso improprio della sentenza è il tentativo in corso di convincere gli italiani che essa risolverà come d’incanto i problemi politici di Forza Italia e dell’intero centrodestra, con la semplice ed ennesima ridiscesa in campo del suo deus ex machina . I ntendiamoci: è comprensibile l’euforia degli amici di Berlusconi e dei dirigenti del suo partito, anche di quelli che magari in segreto speravano di poter continuare a sfruttare la sua ansia giudiziaria per fargli fare ciò che volevano. Ed è positivo che, non per effetto di questa assoluzione ma per la fine della pena scontata ai servizi sociali a causa di un’altra condanna, il capo di un grande partito di opposizione possa tornare a far politica nelle piazze, a partire dalla campagna elettorale delle Regionali. Ma miracoli è meglio non aspettarsene.
Quello che sta accadendo nel centrodestra italiano non è infatti solo il frutto dell’indebolimento della leadership di Berlusconi, ne è semmai un’importante causa. Il sorgere di una destra nazionalista e anti europea non nasce dalle vicende giudiziarie dell’ex Cavaliere, ma dai traumi sociali dell’Italia di questi anni, e la nuova Lega è una forza così aggressiva che non esita ad amputarsi il braccio moderato di Tosi, figurarsi se può essere ricondotta all’ovile con le cene del lunedì ad Arcore. L’esplosione di Forza Italia non deriva dall’obbligo dei venerdì a Cesano Boscone, ma dalla inconsistenza di un partito privo allo stesso tempo di democrazia e di gerarchia interna. La rottura con Alfano non si risolve con la parabola del figliol prodigo, perché ha ormai portato un pezzo del centrodestra nel centrosinistra. Ammesso che i voti di questi spezzoni siano un giorno sommabili, sembrano comunque pochi per vincere le elezioni, almeno per come le ha congegnate l’ Italicum di Renzi.
Del resto, nel modello che si sta costruendo, mettendo insieme la riforma del Senato e quella della legge elettorale, il rischio più elevato non è tanto la dittatura della maggioranza ma l’irrilevanza della minoranza: che rischia di essere frantumata, divisa, litigiosa, una palude pronta a ogni trasformismo. Proprio perché si va verso un governo più forte e un Parlamento più debole, è di vitale importanza per la nostra democrazia che la competizione resti vera, che nelle urne ci sia una reale alternativa, che esista un centrodestra electable , cioè credibile come possibile governo.
Ora che ha l’animo più lieve, dopo l’assoluzione, è a questo che deve porre mente Berlusconi. Se le sorti del centrodestra gli interessano oltre l’orizzonte delle sue aziende e dell’eredità dei figli, può ricostruirlo solo aprendo una via, ordinata e per quanto possibile democratica, alla sua successione. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 12 marzo 2015
……L’auspicio di Polito, che come è noto non è certo un uomo di centrodestra (è un ex senatore del PD) ma giornalisticamene sa guardare ed essere al di sopra delle parti è assolutamnete condivisibile anche a prescindere dal durissimo giudizio morale che esprime la Conferenza Episcole Italiana a latere del processo da cui Silvio Berlusconi è stato definitivamente e giustamente assolto dalla Cassazione. Scrive Polito due cose: 1. c’è bisogno nel Paese di una forte e seria opposzione che si confronti con il governo guidato da Renzi; 2. solo il centrodestra rappresentativo dei moderati italiani può incarnare tale ruolo ma per farlo occorre che a guidarlo sia un nuovo leader non appesantito nè dagli anni nè dalle comunque pesanti eredità processuali. E aggiunge: se davvero Berlusconi vuol rendere un grande servizio al Paese si impegni a ricercare e assicurare un serio e vero passaggio del testimone. Ciò, aggiungiamo noi, lo renderà meritevole di ammirazione e riconoscenza anche da parte dei nove milioni di elettori moderati che in questi ultimi anni hanno disertato le urne o standosene a casa o vantando per altri soggetti politici. Ci vuole coraggio e umiltà, basta non farsi nè accecare da improbabili voglie di rivincita, nè imbrogliare dai tanti falsi laudatores che alle sue spalle “tirano a campare”. g.
IL POTERE SENZA CONRAPPESI, di Michele Ainis
Pubblicato il 11 marzo, 2015 in Politica | No Comments »
Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può inte rvenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.
Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 – che regola la funzione legislativa – s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione. Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.
Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iter legis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché – di fatto – il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 11 marzo 2015
…….Eppure c’è chi (Renzi) ha cinguettato di una “Italia più giusta e più semplice”….Ainis, costituzionalista che non può essere accusato di essere un “nemico” di Renzi boccia inesorabilmente con questa nota la riforma di ben 47 articoli della Costituzione che non la rende nè più nuova, nè più snella, nè più agevole per i cittadini, la rende solo più a sostegno dell’uomo solo al comando, in questo caso Renzi che con il suo pressapochismo, la sua superficialità e la sua evidente tendenza a fare ciò che più gli aggrada rischia di gettarci all’indietro invece di farci camminare in avanti. Povera Italia! g.
IN UMBRIA UNA LEGGE REGIONALE FATTA SU MISURA PER IL PD, di Giovanni Belardelli
Pubblicato il 9 marzo, 2015 in Politica | No Comments »
Ci si può fare una legge elettorale su misura? È proprio quel che sembra essere successo in Umbria dove il Pd, a meno di tre mesi dalle elezioni regionali del prossimo maggio (e ancora sotto lo shock della sconfitta a Perugia nelle comunali 2014), ha appena approvato una nuova legge che assegna il 60 per cento dei seggi alla lista vincente ma senza alcuna soglia minima di voti. E questo pur sapendo che, dopo la sentenza della Consulta del 2014 sulla legge elettorale nazionale, un premio di maggioranza che non preveda una soglia è probabilmente incostituzionale. Di sicuro politicamente indifendibile. Intanto vinciamo le elezioni e garantiamoci il seggio, si devono essere detti gli artefici della nuova legge, poi si vedrà.
Che ciascun consiglio regionale si faccia la sua legge elettorale è diventato possibile dopo che quindici anni fa una riforma costituzionale ha stabilito che spetta alle Regioni, sia pure entro principi generali stabiliti dallo Stato, scegliere la propria forma di governo e il proprio sistema elettorale. Con un risultato che assomiglia molto al vestito di Arlecchino. Una molteplicità di regole che, nella percezione del comune cittadino, è amplificata dal fatto che invece, a livello comunale, è in vigore da tempo e con piena soddisfazione di tutti un sistema a doppio turno. Se il diavolo, come si dice, ama nascondersi nei dettagli, questo è soprattutto vero per le materie elettorali. Le differenti leggi regionali prevedono premi di maggioranza senza soglia di accesso; ma questo era appunto consentito prima che un anno fa intervenisse la Consulta pronunciandosi sul Porcellum. Non a caso la Regione Toscana ha varato in settembre una nuova legge elettorale che saggiamente prevede la soglia minima del 40 per cento per accedere al premio e, se nessuna coalizione la raggiunge, il ballottaggio.
I consiglieri umbri non potevano copiare la legge toscana? Probabilmente lo hanno evitato perché oggi come oggi una coalizione raccolta attorno al Pd umbro avrebbe difficoltà a superare quella soglia, con il rischio di perdere poi all’eventuale ballottaggio. Perdere fa parte della democrazia. Ma questa possibilità è ancora difficile da metabolizzare in una regione in cui la sinistra è abituata a vincere sempre e non ha ancora assorbito il trauma della perdita del Comune di Perugia. Se, nell’Italia repubblicana, il lungo periodo dei governi democristiani è stato definito un «regime», non sarebbe improprio usare allora lo stesso termine per il caso umbro. Naturalmente in questo piccolo «regime» regionale, un po’ come avveniva nella prima Repubblica con il Pci, c’è posto anche per accordi di tipo consociativo con l’opposizione. Il centrodestra infatti, dopo essersi opposto alla nuova legge elettorale, l’ha poi approvata (attraverso il voto di alcuni suoi esponenti) ottenendo in cambio un trattamento da minoranza privilegiata in termini di seggi, nel caso probabile che perda alle regionali. Risparmio ai lettori i dettagli del meccanismo che colpisce le altre opposizioni; comunque, secondo una simulazione dei radicali, l’8-9 per cento potrebbe non essere sufficiente per avere almeno un consigliere.
L’Umbria è una regione che non raggiunge il milione di abitanti e dunque, si potrebbe dire, possiamo interessarci in proporzione (cioè poco) della sua legge elettorale. Sennonché il caso di questa norma su misura, aggiungendosi a vicende recenti come le primarie campane vinte da Vincenzo De Luca, segnala un fatto di rilievo, invece, nazionale. Segnala la difficoltà o l’incertezza del nuovo corso renziano, saldamente installatosi a Palazzo Chigi, a separarsi da vecchi potentati locali, soprattutto se e quando questi si sono proclamati renziani. Per questo se il governo — che ha 60 giorni di tempo per impugnare o meno la nuova legge umbra — scegliesse di non vederne l’incostituzionalità, non sarebbe un buon segno. Il Corriere della Sera, 9 marzo 2015
……..Renzi tenta di rottamare a Roma la vecchia guardia del PCI e forse ce la fa, ma solo acconsentendo alla nuova guardia comunista di gestire il potere in periferia come e peggio di come faceva il vecchio PCI. Nel caso dell’Umbria c’è l’aggravante di aver varato una legge elettorale palesemente anticostituzionale e come scrive Il Corriere si vedrà se Renzi, avendone la facoltà, impugnera dinanzi alla Corte Costituzionale la legge varata ad hoc per vincere le eregionale in programma per il prossimo 10 maggio. Ma anche se lo facesse il responso lo si avrebbe dopo il voto e l’eventuale nuova legge elettorale, magari non dissimile da quella che Renzi sta per varare a livello nazionale, l’Italicum, sarebbe comunque varata da un consiglio regionale eletto con una legge incostituzionale. Proprio come sta per accadere per l’Italicum varato non solo da un Parlamento eletto con una legge elettorale ma voluto da un governo non eletto da nessuno. Alè, siamo in Italia, ragazzi! g.
LA SCUOLA CATTIVA E’ QUESTA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 8 marzo, 2015 in Cultura, Politica | No Comments »
Loro se la ridono mentre la scuola italiana va a fondo.
La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire.
In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.
La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.
La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.
Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?
Si illude chi crede – come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto – che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage ?
All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti – complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende – domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.
Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che – ci si può scommettere – continuerà a essere. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 8 marzo 2015
……..Per Renzi e la Giannini, insignificante ministro alla P.I. del governo in carica, la scuola è solo uno struemnto di propaganda politica, null’altro. La buona scuola è quella disegnata da Galli della Loggia, quella di Renzi e della Giannini, sua mazza di scopa, è la peggiore che si possa immaginare. g.