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RAFFAELE FITTO INTERVISTATO DA REPUBBLICA

Pubblicato il 27 febbraio, 2015 in Politica | No Comments »

Non siamo in Sud America. Silvio ceda e accetti le primarie o resterà chiuso nel suo bunker venerdì, 27 febbraio, 2015

«Le minacce non mi spaventano. L’epurazione sarebbe un suicidio. Ora si tratta di capire se Forza Italia è un partito europeo  o un movimento sudamericano». Raffaele Fitto, abito blu, cravatta a tono, è seduto sul divano in pelle di uno studio al quarto piano di Montecitorio. Rientrato daBruxelles, è pronto aripartire m serata per il Veneto, oggi prima tappa del tour dei “Ricostruttori” a Padova. Ha la flemma che caratterizza questo quarantenne che con tono sprezzante l’ex Cavaliere definisce “democristiano”, ma lo sguardo determinato di chi sa di aver messo in moto una macchina che ormai non si ferma più. Nessun rancore personale nei confronti del leader, assicura: «Solo che Silvio Berlusconi è a un bivio. O aiuta tutti noi a costruire un centrodestra della Terza Repubblica, oppure rischia di farsi rinchiudere in un bunker».

Da oggi parte il suo giro per l’Italia, Berlusconi sembra chenon lasospenda, male farà terra bruciata in Puglia, i suoi uomini saranno esclusi dalle liste regionali. Come reagirà, onorevole Raffaele Fitto?

«Senta, madicheparliamo?Cirendiamo conto che di queste cose non gliene importa niente a nessuno? Vedo che alcuni, forse non avendo di meglio da fare, vogliono buttarla in rissa e trasformare tutto in una squallida lite di condominio. Io dico atutti che il campo di battaglia non è la miaamataPugliaolaLiguriaola Toscana, ma il futuro e le idee, se vogliamo dare un futuro e qualche idea al centrodestra. Altrimenti, Renzi potràcomodamentedire”nonc’èalternativa”».

Toti le rispondere che farebbe bene a concentrarsi sulla sua regione, dove ha sempre perso negli ultimi dieci anni

«Guardi, non mi faccia rispondere allo stratega Toti, per carità di patria. Noi proponiamo idee. Ho dedicato la convention di sabato a proposte precise: meno tasse, meno spesa, meno debito.menovincoliUe.piùsicurezzaconilcoinvolgimento anche delle Forze armate, più rigore sull’immigrazione, nessun appiattimento all’austerità della Merkel. Ne vogliamo parlare o vogliamo lasciare tutto il campo a Renzi e a Salvini, mentre noi facciamo liti da pollaio? Ð resto lo lascio agli abitanti deludenti di corti e cortili».

E la storia dei contributi non pagati dai suoi al partito, del buco nel bilancio regionale da 50 nula euro per bus e altro?

«Abbiamo pagato di tutto e di più e, ne sono fiero, anche e soprattutto per manifestazioni di solidarietà a Berlusconi quando era sotto attacco.Maqualcunodeveaveriodimenticato. Quanto ai conti, se si apre il tema della gestione trasparente del partito sarò io afare domande pubbliche. E attenderò risposte nette e chiare sulle modalità di gestione».

È vero che le è stato proposto di presentare liste parallele a Fi in Puglia e altrove? Lo farete?

«Il mio partito è Forza Italia. E farò ogni sforzo per smuovere un encefalogramma politico drammaticamente piatto».

Pensate davvero di impugnare le liste regionali, dopo l’epurazione in atto?

«Non voglio e non posso credere che qualcuno pensi di fare epurazioni per il semplice fatto che abbiamo avuto ragione su tutto. E poi, un’epurazione, come la chiama lei, non sarebbe politicamente ed elettoralmente parlando un omicidio, ma un suicidio. Oltre che statutariamente impossibile. Certo eche si è creato un clima surreale, con amici che solo perché stanno liberamente partecipando alle nostre manifestazioni in tutta Italia vengono fatti oggetto di attenzioni particolarinel partito, conminacce di commissariamento».

Ecco, appunto. Ma si rende conto che la stanno spingendo con tutte le forze fuori da Fi? Non pensa che forse sarebbe la scelta più coerente, a questo punto?

«Scusi, dico a lei e anche a me stesso: guardiamo la luna, non il dito che la indica. Siamo tra la Seconda e la Terza Repubblica Berlusconi è stato padre e protagonista della Seconda, e ne ha pieno merito. Oggi il centrosinistra, con Renzi — che io pure avverso — è entrato nella Terza. Il centrodestra deve fare la stessa cosa».

Si ma come?

«Silvio Berlusconi — e glielo dico con affetto, senza le smancerie degli adulatori — è anche lui a un bivio: o aiuta tutti noi a costruire un centrodestra della Terza Repubblica, attraverso le primarie, la democrazia, la scelta diretta degli elettori, nuove leadership e programmi, oppure rischia di farsi rinchiudere in un bunker. Il tempo non si può fermare. Quelli della corte e del cortile distruggono tutto consapevolmente e lui sbaglia ad assecondare questa deriva autodistruttiva. Noi c’eravamo, in tanti, il 4 agosto e il 27 novembre 2013 ( la condanna e la decadenza, ndr), nei giorni più difficili per Berlusconi. Altri non so cosa facessero allora. Ma lealtà non vuoi dire fedeltà servile».

Lei continua a chiedere primarie che Berlusconi mai concederà.

«Ma il problema non sono io, pur con tanti parlamentari e tanti amministratori. Sono i 9 milioni di voti spariti, finiti nell’astensionismo. Che facciamo, deferiamo questi 9 milioni di italiani ai probiviri, peraltro inesistenti? D centrodestra o fa come negli Usa, e nelle grandi democrazie anglosassoni, coinvolgendo i cittadini per la scelta di leadership e programmi, oppure sarà condannato solo al ruolo di opposizione».

Intervista su Rebubblica del 27 febbraio 2015

Perché io elettore di centrodestra non voterò Schittulli, di Amerigo De Peppo

Pubblicato il 26 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »

Francesco Schittulli con Silvio BerlusconiFrancesco Schittulli con Silvio Berlusconi

Caro Presidente Berlusconi, può un elettore importunare il leader del suo partito, peraltro già alle prese con mille problemi, per annunciargli che, in occasione della prossima tornata elettorale, non potrà contare sul suo voto? Che nel suo piccolo non sosterrà un gentiluomo come il professor Schittulli? Può e deve.

Lo deve innanzitutto per quella doverosa lealtà nei Suoi riguardi , quella lealtà che è mancata in quegli eletti con il simbolo del PdL che, all’improvviso, hanno voltato le spalle a Lei e a quegli Elettori che li avevano votati, nel caso dei parlamentari senza neanche poterli scegliere.

Lo può, perché, almeno nel mio caso, intendo dare nel mio piccolo un segnale: non sono detentore di un pacchetto di voti, controllo a malapena il mio, ma se, dopo aver votato Forza Italia e Pdl ininterrottamente dal 1994 a oggi, intendo prendermi una “vacanza”, vuol dire che almeno ai miei occhi si sta commettendo un suicidio politico ed è impossibile per me prendervi parte.

Mi spiego. Dopo l’ennesima delusione per il risultato alle elezioni comunali a Bari, ho sperato, ho voluto credere che almeno in vista delle regionali la scelta del candidato sarebbe avvenuta in tempi brevi e che, come peraltro era stato fatto in passato, sarebbe stata scelta una figura capace quantomeno di potersi battere per la vittoria. Invece assisto da mesi al solito, mesto teatrino della politica: tavoli di coalizione che non hanno portato a nulla, assurdi veti personalistici, figli di una volontà di resa dei conti, che hanno fatto ipotizzare sin dal primo momento una soluzione di compromesso al ribasso, uno snervante ping pong tra Bari e Roma. Insomma, rinvii su rinvii: per fortuna la legge imponeva ovviamente la presentazione delle candidature prima del voto, altrimenti sulla scheda, come su alcuni atti di compravendita di immobili, avremmo trovato la dicitura “candidato presidente da definire”…

Sono intimamente convinto che le primarie di coalizione sarebbero state l’unico modo per dare uno choc positivo all’elettorato pugliese di centrodestra, visto che non si riusciva a tirare fuori il coniglio dal cilindro, ossia un nome nuovo così carismatico da rompere tutti gli schemi e riaprire una partita che non io, ma l’autorevole notista del Giornale Adalberto Signore dà per persa già da qualche mese. Ormai però, dopo aver archiviato l’opzione primarie, il risultato finale sarà che Schittulli candidato, con l’ennesima partenza ad handicap e l’inevitabile “fuoco amico” che lo colpirà da alcuni settori della coalizione, grazie anche all’inqualificabile sistema del voto disgiunto, potrà ambire al massimo a un onorevole piazzamento. Insomma, il nuovo governatore della Puglia ha già un nome: Michele Emiliano.

E allora? Tempo fa, respinsi con sdegno l’analisi di un amico, politico pugliese della Prima Repubblica, secondo il quale la nostra regione era diventata ormai l’Emilia Romagna del Sud, ma ora devo purtroppo ammettere che aveva e ha ancora ragione.Di qui la mia decisione. Non parteciperò all’ennesimo funerale del centrodestra pugliese, non voterò per un galantuomo, sconfitto in partenza, ma non mi asterrò, dal momento che in questo modo andrei a confondermi con chi è ammalato, con chi è lontano da casa per lavoro, o magari si è dimenticato dell’appuntamento elettorale per andare alla partita o dalla fidanzata…

No, io non mi asterrò e per rafforzare questo mio gesto polemico voterò per Michele Emiliano. Se con questi atteggiamenti poco comprensibili il centrodestra sta facendo di tutto per agevolargli il cammino verso la vittoria, facendomi sentire deluso come i tifosi di quelle squadre i cui giocatori si vendevano le partite, allora offro il mio aiuto anche io, e in maniera trasparente, a Michele Emiliano, attribuendogli il mio piccolo, insignificante consenso. Il mio no a Schittulli non è un no alla sua persona, ma, come ha detto Lei motivando il Suo rifiuto a votare Mattarella, un no al metodo usato per arrivare alla sua candidatura.

Il mio comunque non vuol essere un invito ad altri elettori del centrodestra perché mi imitino, ma solo la reazione di chi ritiene che così non si possa andare avanti. Se, come i comunisti, credessi nel primato del Partito, al pari di Maurizio Ferrini, il mitico personaggio di arboriana memoria di cui Bersani sembra il clone, direi: “non capisco, ma mi adeguo” e voterei, turandomi il naso. Da inguaribile liberale quale sono, sognatore e individualista, dico invece: “non capisco e non mi adeguo”. Amerigo De Peppo, cfr. Il Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2015

….Salvo qualche non marginale “modifica ed integrazione”, questa lettera aperta di un elettore storico, come egli stesso si definisce, di Berlusconi e del centrodestra, potrebbe essere scritta e firmata e sottoscritta da uno qualsiasi dei 10 milioni di elettori di centrodestra che fra il 2008 e il 2014 hanno disertato il voto al PDL-F.I. in tutta la penisola o da uno qualsiasi delle decine e decine e decine di migliaia  di elettori pugliesi che hanno fatto altrettanto tra il 2008, il 2013 e il 2014  e che si apprestano a farlo anche nella ormai imminente scadenza elettorale delle Regionali. Lo spettacolo che si offre agli occhi degli elettori del centrodestra pugliese è ancor più drammatico  rispetto allo spettacolo offerto altrove. Qui lo spettacolo è non solo deludente quanto penoso, con gli insulti che ormai volano come stracci da una parte all’altra, tra i “nemici” di Fitto, che, va detto, hanno dato il là alla bordata di insulti e minacce e  i suoi “amici”, tra i quali non sono mancati i primi disertori come è consuetudine  in ogni luogo e in politica ancor di più. Una cosa però va detta con chiarezza: Fitto ha ragione da vendere nelle cose che dice e nelle contestazioni che fa per la gestione del partito e delle mancate  battaglie politico-parlamentari  di questi ultimi due-tre anni, ma  ha torto lì dove dimentica che di questo andazzo  egli stesso ha fatto uso, o quanto meno ha consentito che se ne facesse uso da parte del suo “cerchio magico” (non è solo Berlusconi ad averne uno….) in suo nome e per suo conto  nella gestione del partito nella nostra regione. Il risultato è che al netto di tutto, le prossime scadenze elettorali, salvo miracoli  e ripensamenti da pate di centinaia di migliaia di elettori moderati, segnaranno la palla in rete di Emiliano in Puglia e, purtroppo, di Renzi nel resto d’Italia, mentre il popolo di centrodestra, quel 65% di italiani, come amava ricordare  Tatarella, che non è e mai sarà di sinistra, dovrà rinuciare non solo a vedere le proprie idee trionfare, ma rinunciare, forse  per sempre, all’obiettivo   di un unico grande contenitore politico-elettorale di centro destra, visto che  prolificano galli e pollai, e tante, tante galline. g.

LA BUONA SCUOLA? FRUTTI ACERBI PER TUTTI, di Gianna Fragonara

Pubblicato il 18 febbraio, 2015 in Cronaca, Politica | No Comments »

I l testo della Buona scuola, anche dopo la profonda revisione di queste ultime settimane, resta una proposta di riforma della professione di insegnante più che una riforma del sistema educativo. È un tentativo comprensibile e ambizioso di modernizzare la scuola attraverso gli uomini e le donne che ci lavorano. I due pilastri su cui si reggeva la proposta presentata a settembre non hanno retto al tentativo di essere trasformati in legge. Il primo, il sistema degli scatti solo premiali per i due terzi degli insegnanti di ogni scuola, è scomparso dal decreto in preparazione. Nelle intenzioni del governo, questo avrebbe dovuto innalzare il livello di preparazione, di impegno e di performance degli insegnanti italiani: si è capito che sarebbe stato impossibile da applicare e iniquo nei risultati, oltre che inutile. È stato sostituito da un sistema misto di scatti di anzianità e di scatti di merito assegnati con un più complicato sistema di valutazione della quantità e della qualità del lavoro e dell’aggiornamento degli insegnanti. Un sistema che funzionerà soltanto, nel suo intento di premiare i più bravi, se ci saranno fondi sufficienti a spezzare quel patto non scritto del «ti pago poco ma ti chiedo poco».

Il secondo pilastro era il mega piano di assunzioni di precari, pensato con la lodevole quanto illusoria idea di chiudere per sempre il problema dei supplenti nella scuola, si sta rivelando inattuabile, quanto meno iniquo ( lo dicono i sindacati) e addirittura dannoso (giudizio della Fondazione Agnelli) per il sistema scolastico perché riempirebbe le scuole di insegnanti spesso senza cattedra in quanto abilitati in materie secondarie e non utili. Mentre per materie fondamentali come la matematica gli studenti continuerebbero ad avere supplenti e altri precari. C’è da aspettarsi che nel decreto si trovi una soluzione migliore, magari quella dettata dai tribunali con le ultime sentenze: assumere a tempo indeterminato chi ha lavorato 36 mesi negli ultimi cinque anni.
La scelta fatta a settembre di impiegare tutti i fondi disponibili per le assunzioni – salvo briciole per gli altri capitoli come l’innovazione tecnologica – e di rinviare la formazione degli insegnanti e le loro nuove competenze al prossimo concorso autorizza a pensare che per una riforma vera anche della professione ci sarà ancora da aspettare.

Le parole chiave

Lo slogan affascinante – «La scuola che cambia l’Italia» – ha trasmesso l’idea che una riforma della scuola serva a far ripartire il Paese: ma qual è l’idea di scuola che guida la nuova legge? Le parole chiave scelte dalla Buona scuola sono: concorso, alternanza scuola-lavoro, laboratori, autonomia, inglese, Internet, programmi contro la dispersione, formazione, scuole aperte. Tutti istituti o programmi già in vigore da tempo (i concorsi dai tempi della Costituzione) o in via di sperimentazione, ma che finora non hanno funzionato per motivi vari, e che i provvedimenti del governo cercheranno di rilanciare. Norme complicate e la burocrazia hanno frenato le innovazioni ma principalmente sono mancati i fondi e questo si ripeterà.
Dei grandi temi della scuola, a partire da quello che dovrebbe essere il curriculum degli studenti – un’ora di musica alle elementari e una di economia e arte nei licei non bastano -non c’è traccia nelle bozze: davvero così come è impostata la scuola italiana è al passo con i tempi? In passato si era parlato di riformare i cicli, di cambiare le medie, di rendere più flessibile l’ultimo biennio delle superiori, di migliorare l’offerta scientifica, solo per citare i principali temi del dibattito. Ci si attenderebbe che le nuove proposte, contrariamente al testo presentato nei mesi scorsi, parlassero di questo.

Altrimenti, come spesso avviene in Italia, se non si troverà un futuro credibile per la scuola pubblica, la riforma la faranno nei fatti gli studenti. Come dimostrano già i dati anticipati ieri sulle scelte per le superiori: i genitori e i ragazzi considerano che oggi sia utile una formazione scientifica e che servano le lingue, tanto è vero che i due licei con più iscrizioni sono lo Scientifico e il Linguistico. Due genitori su 5 – sono dati della ricerca pubblicata ieri dal Corriere – pensano che i propri figli avranno un futuro professionale all’estero: sarà questa scuola all’altezza di prepararli? Gianna Fragonara, Il Corriere della Sra, 18 febbraio 2015

……Una delle tante riforme renziane, chiacchiere al vento e nesusn fatto concreto. Intanto la “buonascuola” a Pescara cade a pezzi sulle teste dei ragazzi, o, come a Toritto, tiene al freddo i ragazzi della scuola  media dove,  a due decenni dalla metanizzazione del paese, il riscaldamento della scuola  va..si fa per dire…a gasolio. g.

CATIVA COSCIENZA DELL’EUROPA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 16 febbraio, 2015 in Politica, Politica estera | No Comments »

Mentre scriveva nel suo editoriale per il Corriere di ieri che «gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza», Angelo Panebianco non poteva immaginare quanta ragione gli avrebbero dato dopo solo poche ore le notizie giunte da Copenaghen sull’ultima impresa del terrorismo jihadista. E sempre sperando che non facciano lo stesso le notizie provenienti in futuro dall’Ucraina. Alla sua analisi manca tuttavia una premessa importante: gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla.

Da settant’anni questa elementare verità all’Europa di Bruxelles ripugna. Non a caso tutto il suo establishment politico-culturale ha appena potuto permettersi di ricordare il centesimo anniversario della Grande guerra solo a patto di farne propria l’antica qualifica papale di «inutile strage». Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. I n base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti «inutili»? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?
È peraltro in questo modo, a forza di suscitare emozioni e di consolidare giudizi del genere, che la storia – quella vera, quella che secondo una famosa immagine di Hegel assomiglia inevitabilmente a un banco di macelleria dal momento che gli uomini sono sempre quelli del peccato originale – è in questo modo, dicevo, che la storia si è progressivamente dileguata dall’orizzonte concettuale dell’opinione pubblica europea. E insieme dalla cultura delle sue élite politiche, dopo il ‘45 orientate massicciamente in senso cristiano-socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine – nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata – quasi sempre la resa.

E infatti a cos’altro si prepara se non alla resa un’Unione Europea la quale – c’informava sempre ieri sul Corriere Danilo Taino, immagino con intima soddisfazione di Federica Mogherini, ormai avviata a farci rimpiangere lady Ashton – negli ultimi vent’anni, mentre ai suoi confini crollava il mondo, ha visto dimezzare la propria aviazione tattica, l’artiglieria passare da circa 40 mila pezzi a poco più di 20 mila, e i suoi tre Paesi più popolosi (Germania, Francia e Italia) attualmente in grado di schierare insieme solo 770 (dicesi 770) carri armati? E le altre cifre relative agli armamenti declinare più o meno nella stessa clamorosa misura? Forse, per risultare credibile, un presunto ministro degli Esteri dovrebbe occuparsi anche di queste minutaglie.

Niente guerra, invece, niente inutili stragi. L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello «Stato islamico», cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo «per mantenere la pace».
La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei «guerrafondai» schiavi della «cultura delle armi» e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici.

E invece è vero proprio il contrario. Se anche dopo il terribile Novecento gli Usa hanno potuto lasciare posto nel proprio arsenale ideale e politico alla guerra – e continuare a fare delle guerre – è stato anche perché consapevoli del forte legame della loro società con i valori democratici. Un legame che si è dimostrato capace di rimetterli sulla strada giusta dopo ogni guerra sbagliata, di suscitare gli anticorpi in grado di immunizzarli dai pericoli politici e dalle cadute etiche che sempre si accompagnano alla guerra. È per l’appunto questa consapevolezza (degli americani ma anche dei britannici) che gli europei invece, i quali pure si credono tanto più democratici, non possono avere. Oscuramente essi avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2015


TATARELLA NEL RICORDO DI PIETRANGELO BUTTAFUOCO

Pubblicato il 8 febbraio, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »

Pi nuccio Tatarella in un comizio a Terlizzi il 1° maggio del 1976.

16 anni fa, l’8 febbraio 1999 moriva Pinuccio Tatarella. Nell’anniversario della morte ecco un “ritratto” del politico e del’Uomo di Pietrangelo Buttafuco, oggi uno dei pochi intellettuali di Destra del nostro Paese.

Le vinceva sempre le sue battaglie politiche, Pinuccio Tatarella, perché non faceva altro che passeggiare durante le campagne elettorali. E stravinceva perché trasformava il tempo della città in un continuo far campagna, propaganda, attività e presenza di un destino consumato tutto in pubblico, tra la gente, e non per farsi tramite retorico, piuttosto spugna. Nel mare grande di una festa di popolo. Dove lui assorbiva tutti gli umori. E i colori.
Nichi Vendola, per conquistare Bari, la città tutta di superba plebe, si prese il testimone di Pinuccio Tatarella. E il vero erede di Tatarella – scomparso ancora prima di vedere la propria creatura, la destra di governo, sfasciarsi – fu proprio il comunista Vendola, uno degli uomini più fortemente poetici nella politica (tanto quanto Pinuccio, genuino e sentimentale lo fu nella “narrazione”, la capacità di dare coralità alla stagione dell’Armonia marchiandone i tempi).
Il governatore delle Puglie fu degno erede di Pinuccio non solo perché imparò presto a far doverosa sosta da Cenzino, il bar di piazza Mercantile, o per intrattenersi con la partita a carte e nel rinunciare alla vita blindata, ma perché seppe evocare nel comizio la ragione sociale della prima qualità dei pugliesi: la politica.

La destra che nella parentesi di governo non seppe scendere dalle sue auto blindate, non riuscì più a fare comizi come un tempo li faceva a Bari, in piazza S.Ferdinando: “Gianfrango” – recitava in cerignolese al microfono Tatarella presentando Fini ai baresi – “non sei tu che parli a questa piazza, è questa piazza che parla a te”. In nessun altro posto come a Bari, infatti, vale l’equazione tra piazza e politica – non c’è posto che eguagli Bari nella lettura dei giornali, nella discussione, nel ragionamento – ed è veramente un Mezzogiorno emancipato quello che ha dato all’Italia l’alta scuola di Tatarella, una prospettiva sociale e culturale che attraversa le pagine delle tante testate fondate da Pinuccio e fabbrica, con il vissuto popolare, la specificità di un laboratorio politico purtroppo irripetibile. Se vale l’ancoraggio meridiano, e in tema di Bari vale, altro che, ciò che ha radicato Tatarella nella scienza della politica neppure un Aldo Moro lo ha lasciato, al netto della vicenda esistenziale, tutta di tragedia e di potere. Se vale, infine, l’attraversamento trasversale, e tutto in Pinuccio è trasversale, quel suo modello è paradigma di pluralità in ragione di un fatto tutto speciale e tutto suo: nell’impossibilità di immaginare l’amministrazione della res senza la corresponsabilità dell’avversario.

La storia di Tatarella incontra quella della destra in Italia. Nel 1994, anno del primo governo Silvio Berlusconi, quando per definire Roma non si seppe trovare altra definizione che “cloaca”, in quella stessa cloaca che attentava all’efficienza della neonata Seconda Repubblica, Pinuccio Tatarella, vice-presidente del Consiglio, intuì la prima delle impossibilità. Quella di mettere alla prova le energie di piazza e di popolo da sempre tenute fuori dalla centrale del potere. Si vide respingere per ben tre volte una lettera da un dirigente del Ministero delle Telecomunicazioni, raccontò l’accaduto a Berlusconi e gli disse: “Qua non duriamo”. La storia della destra in Italia è nel perdurare del non durare. Ci fosse stato ancora Tatarella, lungo tutto il ventennio del berlusconismo, non avrebbe che avuta confermata, negli esiti, quella sua intuizione. Ci fosse stato ancora Tatarella non si sarebbe forse avuta la liquefazione di An – piuttosto vi avrebbe iscritto Berlusconi in persona – ma avrebbe acceso ancora attività, presenza e campagne elettorali nell’unica agorà accessibile all’animale politico, la piazza d’Italia la cui originaria impronta è la libertà. Ci fosse ancora Pinuccio, saremmo tutti in piazza, ciascuno forte della propria voce. Pietrangelo Buttafuco, 8 febbraio 2015.

Al direttore Antonio Polito il premio dedicato a Tatarella

PolitoAntonio PolitoLECCE – Ad Antonio Polito è stato assegnato il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico. Sull’editorialista del «Corriere della Sera» e direttore del «Corriere del Mezzogiorno» è caduta la scelta dei comitati direttivi della «Fondazione Giuseppe Tatarella» e dell’associazione «Giuseppe Tatarella», che hanno istituito il riconoscimento che ogni anno premierà un giornalista politico italiano e che vuol ricordare l’impegno di Tatarella nel giornalismo. Il Premio Giuseppe Tatarella per il giornalismo politico si tiene sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica, con il patrocinio del Presidente del Consiglio, del Presidente della Giunta regionale della Puglia, del Sindaco di Bari e del Sindaco di Cerignola, mentre il Presidente della Camera e il Presidente del Senato hanno inviato un premio di rappresentanza al vincitore del riconoscimento.La cerimonia di consegna del premio avverrà nel mese di marzo a Roma nel corso di un’iniziativa che sarà introdotta da Michele Placido che tratteggerà la figura di Giuseppe Tatarella. La costituzione del premio, che è stato assegnato l’8 febbraio, giorno della scomparsa del politico pugliese, vuole onorare l’impegno reale per la cultura e le idee profuso da Tatarella e la sua capacità di dar vita a riviste politiche capaci di interpretare i cambiamenti del sistema.

…E’ una scelta che condividiamo per la stima che nutriamo per il direttore Polito i cui editoriali e il cui pensiero non sono omologabili se non nel verso del più assoluto equilibrio. g.

LA PROVA CHE ATTENDE IL PRESIDENTE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 6 febbraio, 2015 in Politica | No Comments »

Designando Sergio Mattarella, l’assemblea dei grandi elettori del presidente della Repubblica ha scelto senz’altro una persona degna e irreprensibile. Non si può dire però di pari notorietà. Credo che fino a sabato scorso, infatti, ben pochi italiani avessero idea di chi fosse il futuro capo dello Stato, sapessero qualcosa di lui, ne conoscessero perfino l’aspetto. È questo, del resto, l’ovvio risultato dell’aver scelto un candidato del quale al momento dell’elezione – come ci hanno informato i giornali – non si conosceva alcuna manifestazione o dichiarazione pubblica successiva al 2008 (quindi ben prima di venir eletto alla Consulta), salvo una sua breve intervista a un gruppo di giovani dell’Azione Cattolica.

Alla lunga lista delle sue singolarità l’Italia ne ha aggiunta così un’altra: quella di avere un capo dello Stato che, pur avendo a norma della Costituzione il compito di «rappresentare l’unità nazionale», risulta però affatto sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini per non dire alla loro quasi totalità. Così come del resto anche la sua prima e più vera affiliazione politica – quella al cattolicesimo democratico rappresentato da Aldo Moro (un leader politico assassinato circa quarant’anni fa) – temo che non riesca a significare più molto per chiunque non faccia parte di un ristretto gruppo di seguaci o di addetti ai lavori.

Lo dico con il più grande rispetto, non di maniera, per la persona e per le istituzioni repubblicane, ma è così: la presidenza Mattarella reca il segno, ancor più di tutte le altre che l’hanno preceduta, di un frutto esclusivo del sistema politico-partitico. D i mediazioni, stratagemmi tattici, inclusioni ed esclusioni, tutte interne ad esso. In questo senso essa reca il segno inevitabile della massima separatezza tra quel sistema e il Paese, tra la sfera della politica e la gente comune.

Non si tratta di invocare in alternativa rovinosi plebiscitarismi. Non è questo il punto. Si tratta di convincersi che in un regime democratico, perché vi sia un minimo di autoriconoscimento dei cittadini nelle istituzioni è auspicabile – io aggiungerei necessario – che le istituzioni stesse siano rappresentate da persone in qualche modo note, con il cui volto, con le cui idee, vi sia da parte degli stessi cittadini un minimo di familiarità. E del resto non ebbe in mente precisamente un’idea del genere lo stesso attuale presidente della Repubblica quando oltre vent’anni fa propose, proprio lui, una legge elettorale (il ben noto Mattarellum ), largamente basata sul collegio uninominale maggioritario, cioè su un rapporto immediato e diretto tra eletto ed elettori?

Sono convinto che proprio per l’abito di sobrietà che è del suo temperamento, il presidente Mattarella avrà letto con un certo ironico distacco la valanga di dichiarazioni e di articoli di giornali gonfi di adulazione e di retorica che si è rovesciata sulla Penisola e sulla sua scrivania in questi giorni. Valanga che però non sarà certo servita a nascondere alla sua intelligenza il carattere di separatezza, di forte lontananza dalla pubblica opinione, sotto la cui insegna è nata la sua elezione. E di conseguenza la necessità di porvi rimedio utilizzando la grande quantità di risorse simboliche di cui il suo incarico dispone. Cominciando con il parlare superando il suo naturale ma forse eccessivo amore per le poche parole e rivolgendosi agli italiani nel modo in cui chi li rappresenta deve oggi fare: con semplicità, trovando reale novità d’accenti, animando il loro senso di appartenenza alla comunità nazionale, suscitando le loro speranze. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 6 febbraio 2015

……Dubito fortemente che le puntuali considerazioni del prof. Galli della Loggi sulla elezionje di uno “sconosciuto” al Quirinale  abbiano minimamante interessato sia i cittadini, sia quelli del “palazzo”. La gente comune, sempre più lontana dalle vicende del “palazzo” cui assistono con sempre maggior distacco e assoluto scetticismo non credo che sia più di tanto “toccata” dal fatto che il neo presidente della Repubblica sia più o meno uno sconosciuto; quelli del “palazzo” poi hanno compiuto scelte,a parer loro, in assoluta sintonia con i loro interessi di parte, del tutto lontani da ciò che la gente comune può ritenere più giusto. Del resto se l’attuale premier che un’ora si e l’altra pure annuncia cambiamenti e innovazioni,  se avesse voluto davvero cambiar pelle a questa repubblica lo avrebbe e potrebbe ancora farlo  sottraendo, attraverso la riforma costituzionale in gestazione,  la elezione del capo dello stato che è il “capo” di tutti,  ai giochi di partito, di correnti, di gruppi e sottogruppi, per affidarne la elezione al popolo elettore. Invece no. Non solo ha glissato in occasione della riforma costituzionale che si rivelerà alla fine una modesta rivenciatura dell’esistente, ma ha ignorato  che quella della  elezione diretta del Capo dello Stato è l’unica, vera “rivoluzione” copernicana  che potrebbe ricreare tra il popolo e la classe dirigente il necessario rapporto fiduciario che, esso solo,  può ricreare le condizioni di ritorno alla normalità in un Paese che da decenni vive in un clima di perenne straordinarietà. Ma forse è questo l’unico disegno vero della “casta” per perpetuare se stessa e i propri privilegi. Tra cui quello  di eleggere uno “sconosciuto” alla massima carica dello Stato. g.


QUEL CHE HA FATTO IMPLODERE IL CENTRO DESTRA….di Francesco Capozza

Pubblicato il 5 febbraio, 2015 in Politica | No Comments »

Se Atene piange, Sparta di certo non ride. Senza scomodare gli antichi è questa la drammatica situazione in cui si trova il centrodestra – o quel che ne rimane – dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Certo, paragonare Forza Italia alla grande capitale ellenica e Ncd alla storica rivale potrebbe risultare anacronistico, ancorché velleitario, ma rende certamente bene l’idea del caos in cui sono sprofondati entrambi i partiti prima, durante e soprattutto dopo le giornate che hanno portato l’ormai ex giudice della Consulta al Colle.

Dentro il partito berlusconiano è ormai un tutti contro tutti e per molti, addirittura, un tutti contro uno: Denis Verdini. L’ex coordinatore del PdL, potente uomo macchina del partito di Piazza San Lorenzo in Lucina, viene accusato da quasi tutti i colleghi di partito di essersi praticamente svenduto al conterraneo inquilino di palazzo Chigi. Persino Maria Rosaria Rossi, l’ombra silente di Berlusconi, la senatrice poco più che quarantenne che segue il leader ovunque e che resta una delle persone più influenti sulle decisioni del capo, accusa Verdini (chiedendone l’allontanamento) di aver gestito la partita del Quirinale in maniera approssimativa, sbagliando su tutta la linea e convincendo il capo azzurro a votare una legge elettorale favorevolissima al Pd con la certezza di arrivare ad un Presidente della Repubblica condiviso e non imposto. Verdini replica che non è nel suo Dna dimettersi da nulla, e che solo lui conosce veramente i contenuti del Patto del Nazareno.

Per non parlare poi di Raffaele Fitto, il pasionario pugliese leader della minoranza interna del partito (che molto probabilmente ha votato Mattarella nel segreto dell’urna) ha chiesto l’azzeramento di tutte le cariche in Forza Italia. Senza prendere le parti di nessuno – e ci mancherebbe altro – c’è da dire che Fitto tutti i torti probabilmente non ce l’ha. L’elezione del successore di Napolitano è infatti solo la punta dell’iceberg che ha fatto implodere Forza Italia. E probabilmente lo stesso Berlusconi ha sbagliato su tutta la linea nella partita quirinalizia. Se avesse tenuto il punto sulle Riforme facendo mancare i propri voti al Senato fino a dopo la riunione del parlamento in seduta comune, forse le cose si sarebbero messe diversamente. O se, una volta trovatosi nel cul de sac, con un nome secco – quello di Mattarella – proposto da Renzi per il Quirinale, l’avesse condiviso immediatamente, avrebbe evitato la tragicommedia delle ore successive. O, in ultima analisi, se avesse puntato su un altro candidato forte (Finocchiaro, Bersani, Veltroni…) targato Pd, in contrapposizione al costituzionalista palermitano, probabilmente avrebbe creato non pochi problemi nella compagine dei grandi elettori del Nazareno.

Melodramma analogo nel Nuovo Centrodestra, con un segretario e Ministro dell’Interno del governo Renzi, Angelino Alfano, che prima ha stretto un patto sul Colle con il suo ex leader salvo poi, all’ultimo minuto, salire sul carro del vincitore intestandosi, seppure in parte, la riuscita dell’operazione Matterella. Questione di Metodo, si è detto più volte, sconfortando persino La Palisse: “Mattarella è un candidato eccezionale, ma non ci è piaciuto il metodo di Renzi”. Come dire: avremmo voluto una terna di nomi nella quale scegliere quello a noi più gradito. Renzi sarà pur giovane, ma di certo non è fesso: lasciare la golden share a Berlusconi e Alfano (per lui, i loro, sono “partitini”) avrebbe innescato una bomba ad orologeria nel Pd, dove la minoranza era pronta, si dice, a votare Prodi insieme al M5S già alla prima votazione.  Sarà stata questione di metodo, ma tant’è che anche NCD sta perdendo pezzi un giorno via l’altro, numerose defezioni sono già arrivate sulla scrivania del Viminale e pure Maurizio Lupi non va mascherando in Tv e sui giornali il suo disappunto.

Se tutto quello che sta accadendo nel centrodestra porterà alla caduta del governo o all’arenarsi delle Riforme elettorale e costituzionale non è dato sapere (seppure siamo pronti a scommettere che nulla cambierà), ma una cosa è certa: se in Forza Italia si piange, in Ncd di certo c’è davvero poco da ridere, aprendo uno spazio enorme, come giustamente afferma Passera, per chi, come noi, spera in un centrodestra e in una Destra assai differenti. Francesco Capozza, LIBERADESTRA, 5 febbraio 2015

…intanto Forza Italia scende al 12% o forse meno e il resto della galassia in cui si è sparpagliato quel che appena 7 anni fa conquistava il 48% degli elettori italiani assomiglia sempre più al fantasma dell’opera, tanto da ridare fiato e visibilità a Gianfranco Fini che sul Corriere della Sera di oggi invita a “ripartire da Alleanza Nazionale” cioè dal partito che proprio lui sciolse come neve al sole, uomo solo al comando. Povera Destra, mai come in questo momento appare una nave nel bel mezzo di una tempesta terribile da cui è difficile, assai difficile possa uscirne indenne. Una cosa però ci sembra abbastanza evidente: non possono essere i responsabili del disastro che è sotto gli occhi di tutti,  coloro i quali possano restituire dignità, onore, rappresentanza  e cittadinanza alla Destra italiana.  g.

LA FRUSTA E IL DOLCE FISCALE, di Antonio Polito

Pubblicato il 3 febbraio, 2015 in Politica | No Comments »

Matteo Renzi, Sergio Mattarella e Angelino Alfano (Ansa/Carconi)

Meno male che oggi parla Mattarella. Innanzitutto perché sono sette anni che non parlava; e questo già la dice lunga su un sistema politico che ha dovuto cercarsi l’arbitro più lontano possibile dal suo chiacchiericcio quotidiano. E poi perché, parlando il garante dell’unità nazionale, forse taceranno per un giorno tutti gli altri che hanno già ricominciato a darsele di santa ragione.

I due gruppi più rumorosi sono composti da quelli che negano di aver venduto tappeti e da quelli che rifiutano di essere usati come tappeti. Nel primo gruppo spicca Verdini, il quale respinge le accuse di «fallimento» che gli piovono addosso dal cerchio magico di Berlusconi ricordando che nel Patto con Renzi c’era, altroché se c’era, la scelta comune del nuovo presidente. Testimonianza autentica, visto che viene da uno degli apostoli del Nazareno; ma ormai utile solo per gli storici poiché, come lui stesso ha ammesso, in politica chi ha i numeri fa quello che vuole, e Renzi ha fatto di Berlusconi ciò che voleva.

Ma lo scontro in cui è coinvolto l’ex falco berlusconiano diventato colomba renziana non va sopravvalutato, poiché ha risvolti più interni che esterni. Comunque finisca, che l’ex Cavaliere torni in sella o continui a fare il fante, ormai non conta molto ai fini delle sospirate riforme istituzionali. Il più, infatti, è fatto. E per la minoranza pd non sarebbe decoroso rimetterle in discussione dando una mano alla vendetta berlusconiana. D’ altra parte al capezzale del Nazareno è subito accorsa il ministro Boschi, vera e propria crocerossina delle riforme, a ricordare e ribadire che la norma per la depenalizzazione dei reati fiscali, nota ormai come decreto tre per cento, si farà. Anche se, visto che il tutto era stato rinviato al 20 febbraio, e non foss’altro che per una ragione di stile, forse era meglio aspettare un attimo di parlarne con il nuovo capo dello Stato, cui spetterà firmarla trattandosi di un Decreto del Presidente della Repubblica.

Più interessante, e sorprendentemente perfino più delicata per gli equilibri della legislatura, è la tempesta che si è scatenata nel partito di Alfano ad opera di coloro che non vogliono essere trattati come tappeti, anzi come tappetini per usare l’espressione del ministro Lupi. La crisi interna di quel gruppo non è solo frutto di rabbia passeggera per il trattamento ricevuto, ma richiama per così dire una questione ontologica mai risolta da Alfano e i suoi. E cioè come può un partito che si chiama Nuovo centrodestra stare in un governo organico di centrosinistra proponendosi di andare alle prossime elezioni con il centrodestra. Nello sfavillio di maggioranze che Renzi ha messo in mostra in questi mesi (una per il governo, una per le riforme, una per il Quirinale), si tende infatti a dimenticare che al Senato ne ha ogni giorno una risicatissima appesa proprio a quel «partitino» delle cui convulsioni il premier dichiara di non volersi curare. Se per caso Ncd non reggesse alla prova da sforzo cui è stata sottoposto nel fine settimana, qualche conseguenza politica potrebbe infatti prodursi. E per quanto sembri improbabile che gli alfaniani al governo siano disposti ad aprire una crisi, i non alfaniani non al governo potrebbero tagliare la corda prima di finirci impiccati.

A parte il tran tran quotidiano, c’è in particolare un futuro appuntamento parlamentare in cui ogni voto conterà di nuovo moltissimo: la seconda lettura al Senato della riforma costituzionale. In quella occasione, che si proporrà comunque tra non meno di tre mesi, sarà richiesta la maggioranza qualificata di 161 voti al Senato. Alla portata del governo, ma certo non sicura se una forza politica di maggioranza vi arrivasse in via di dissolvimento.

Le incognite del circo politico non si sono dunque tutte sciolte nell’ovazione che ha accolto Mattarella presidente. Anche se il domatore, Matteo Renzi, sembra oggi più in comando che mai, zuccherino in una mano e frusta nell’altra. Antonio Polito, Il Corriee della Sera, 3 febbraio 2015

….Oggi trombe e  e trombettieri  hanno fatto a gara a tirare il fiato ai tanti laudatores dell’ennesima giornata storica e forse anche epica del nostro povero – in tutti i sensi! – Paese, parte del quale, una piccollissima parte ha pre4so parte attraverso la TV alla parata di Stato introino al nuovo presidente  della Repubblica che mentre da una parre guardava a sinistra -metaforicamente – alle delusioni e alle povertà degli italiani, dall0′altra, da destra, diciamo, ha preso parte, protagonista, allo spettacolo che più si adatta a un popolo felice piuttosto che ad un popolo malfermo sulle gambe, con tanto di corazzieri, cavalli, aerei che sfrecciano nel cielo, e, giusto per non farsi mancar nulla, anche  un cane scondizolante, mascotte dei carabinieri. Ma è solo lo spettacolo di un giorno, nel quale si è visto anche il baciamani di Berlusconi alla Bindi, e il sorriso ebete di Alfano mentre applaude il congterraneo che non voleva votare e che popi ha votato. E’ solo lo spettacolo di un giorno, perchè da domani con il Paese in deflazione e la ripresa che sta solo nel sorriso abatino del premier, si torna alla solita vita di tutti i giorni, con un paese legale sempre più lontano dal paese reale, con una classe dirigente che perpetua non solo i riti ma anche e sopratutto i privilegi più incredibili sui quali si sorvola, e solo interessata ai giochi e giochetti della politica, che nulla hanno a che vedere con i problemi della gente comune, con quella gente  che percepisce  poche migliaia di euro l’anno e non ce la fa ad andare avanti. g.

I PADRONI DEL VOTO, di Michele Ainis

Pubblicato il 24 gennaio, 2015 in Politica | No Comments »

I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero , 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.

E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.

Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum : premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’ Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi
su una lettera dell’alfabeto: la «P». Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti.

E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario.

Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 24 gennaio 2015

……Se a Renzi dovesse riuscire il colpaccio di eleggere una  sua controfigura (leggi Padoan) al Colle quirinalizio, il centrodestra, almeno quello che così si etichetta, potrà contratularsi con se stesso per aver contribuito a realizzare  la prima repubblica leninista postsovietica del gterzo millennio. Complimenti!

VENT’ANNI DI SOLITUDINE, di Michele Ainis

Pubblicato il 4 gennaio, 2015 in Costume, Politica | No Comments »

L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo) L’ingresso del Palazzo del Quirinale (Ansa/DiMeo)

Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?

A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri – che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo – viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.

Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.

Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa – ahimé – la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2015

…..Arridateci la prima Repubblica!